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Vinitaly 2016 - Varietà di viti resistenti alla malattie? Sì grazie. Ma attenzione alle criticità che ancora esistono. A patto di non demonizzare la scienza, che è la prima alleata della sostenibilità. Così gli studiosi nel convegno by Informatore Agrario

Ad un primo esame della questione, i vitigni resistenti alle malattie, i vantaggi sono evidenti: si può coltivare la vite ricorrendo ad un basso uso dei fitofarmaci fino ad una tendenziale (lontana e incerta attualmente) sospensione completa dei trattamenti. Un dato con grandi ricadute su sostenibilità, ambiente ed economia, immediato e che è condiviso dalla stragrande maggioranza del mondo del vino italiano e non solo.

Meno, probabilmente, dalla cosiddetta “opinione pubblica”, che quando sente parlare di manipolazione genetica o altre “diavolerie” del genere, nella stragrande maggioranza dei casi, si sente minacciata. Ma si sa, la comprensione del progresso scientifico da parte della società e molto più lenta di quel progresso e, un’ignoranza di fondo su tematiche del genere giustificata o meno, è sempre in agguato.

Esistono certo delle criticità, non bisogna nasconderlo. Al di là delle complicazioni di ordine, diciamo, comunicazionale, la prima fra tutte è il fatto che le ibridazioni potrebbero influenzare negativamente il sistema viticolo tradizionale. E poi la durata della resistenza ai patogeni non è ancora stata quantificata.

Questi in estrema sintesi i due elementi fondamentali della tavola rotonda “Le varietà di vite da vino resistenti, opportunità da scoprire” di scena oggi a Verona organizzata da L’Informatore Agrario, Vinitaly, Crea e Ersa Friuli.

“Il problema maggiore è rappresentato dal fatto che la scienza venga considerata in modo negativo - afferma il professor Attilio Scienza dell’Università di Milano - e questo rende assai difficile spiegarne il valore. Non estranei sono i mezzi di comunicazione che spesso disinformano più che informare. La scienza e il pensiero scientifico non hanno mai trovato in Italia un terreno favorevole. Purtroppo la retorica del vino - prosegue Scienza - con la sua sacralità, ha fatto perdere alla viticoltura il contatto con la realtà e con i problemi della sua produzione. Affinché il genome editing possa avere una prospettiva di successo serve l’intenzionalità antropologica alla condivisione del progetto. E cioè - afferma Scienza - il coraggio di affrontare, ricercatori e produttori, i rischi e le paure che hanno in questi anni impedito l’innovazione genetica”.

Lo scenario, dove lo studio e l’eventuale utilizzo di queste varietà si inserisce, è dunque complesso e comprende: i cambiamenti climatici (capaci di influenzare il rapporto parassita/ambiente), la comparsa di nuove malattie per la vita (come per esempio la Drosophila), la comparsa di ceppi di insetti resistenti ai fitofarmaci in uso, la crescita delle coltivazioni a biologico, i costi sempre più alti dei fitofarmaci che, per giunta, debbono essere intensificati, l’impatto ambientale (compreso quello dei trattori), l’attenzione sempre più focalizzata verso prodotti liberi da sostanze chimiche. Un insieme di fattori che, di fatto ha stimolato anche l’entrata in vigore della direttiva Ce 109/2009 (recepita in Italia nel 2014) che per ridurre i rischi ambientali impone di intervenire con l’agricoltura integrata e, soprattutto, con approcci alternativi del tutto bio, come nel caso delle varietà resistenti.

“Dopo l’introduzione in Europa delle malattie fungine del Nuovo Mondo, oidio (1845) e peronospora (1878) e dopo la comparsa della fillossera (1863), anche i viticoltori europei iniziarono ad incrociare le viti americane con la vite europea - spiega Raffaele Testolin dell’Università di Udine - il controllo della fillossera fu attuato con successo ricorrendo ai portinnesti con “sangue” americano e proprio perché si trattava di portinnesti e non di varietà coltivate per la produzione di vino, il mondo vitivinicolo non ha trovato obbiezioni alla novità. Diversa è la storia delle varietà per la produzione di uva da vino - prosegue il ricercatore - dopo una prima serie di incroci tra viti europee e viti americane, che ha dato origine ai cosiddetti “ibridi di prima generazione”, la diffusione dei quali è stata rapida soprattutto in Francia, il mondo vitivinicolo europeo ha reagito, promuovendo la messa al bando dei vini prodotti con tali ibridi. C’erano ovviamente tutte le ragioni: rischiavano di scomparire le varietà europee di vite da vino, gli ibridi davano caratteristiche qualitative discutibili e, per giunta, avevano un elevato contenuto in metanolo. Ma era evidente che il percorso, reincrociando questi ibridi con varietà di vitis vinifera per eliminare progressivamente il “sangue” americano, doveva proseguire mantenendo delle specie americane solo i caratteri di resistenza alle malattie”.

Ma la storia ha preso un’altra strada. Una ondata sempre più impetuosa di fiducia nella chimica decretò l’abbandono dell’interesse per le resistenze biologiche a patogeni e parassiti, a favore della difesa delle viti con prodotti chimici. Prima con rame e zolfo e poi con prodotti chimici di sintesi a partire dalla seconda metà del Novecento. Ora le cose, fortunatamente, sono cambiate, grazie anche al progresso determinato dal sequenziamento del genoma della vite e dall’introduzione del breeding assistito dalle informazioni molecolari. I parentali resistenti alle malattie usate negli incroci moderni hanno pedigree molto complessi e sono sostanzialmente assimilabili alle comuni varietà di vitis vinifera per qualità dei vini prodotti.

“Sono 370 le varietà resistenti, ottenute in 25 Paesi - ha sottolineato Testolin - un numero davvero considerevole, segno di un rinnovato interesse dei Paesi produttori di vino, specialmente quelli dove le condizioni climatiche avverse impongono maggiori trattamenti per la difesa della coltura”.

Poi “qualcuno potrebbe essere tentato dal pensiero che i risultati ottenuti dalla correzione del genoma - sottolinea ancora Scienza - possano rappresentare un ostacolo alla diffusione della viticoltura biologica. È vero esattamente il contrario. La viticoltura biologica sta rapidamente evolvendo da alternativa alla difesa con la chimica di sintesi a sistema produttivo, che tiene conto della nuova percezione che il consumatore ha della qualità del vino legata sempre più all’ambiente sociale di produzione e quindi verso un’alleanza per l’ambiente, bene comune. I vitigni resistenti rappresentano allora - conclude il titolate della cattedra di viticoltura dell’Università di Milano - una tappa obbligata verso questa nuova concezione della sostenibilità”.

Ma, analogamente a tutte le novità, anche l’introduzione degli ibridi solleva qualche lecito dubbio. La durata della resistenza degli ibridi, non è da considerarsi definitiva e attualmente la possibilità di gestire un vigneto senza trattamenti rimane piuttosto remota. Da chiarire l’espressione qualitativa dei vini ottenuti dagli ibridi nei differenti contesti pedoclimatici, dal momento che i giudizi sono basati su microvinificazioni e pochi ettari coltivati nelle regioni in cui sono autorizzati. Possibili effetti anche della diffusione degli ibridi resistenti sul sistema viticolo, fatto di tradizione, di territori vocati e soprattutto di un’ampia gamma di vitigni, che verosimilmente potrebbe essere sostituita da un numero relativamente contenuto di nuove varietà, per giunta attualmente escluse da Doc e Docg”.

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