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VINO & CRISI - CONTRIBUTI ALLA DISCUSSIONE PROMOSSA DA WINENEWS DI NICOLETTO (SANTA MARGHERITA), MASTROBERARDINO, PEDRON (GIV), EZIO RIVELLA, PERATONER (LA VIS), TASCA D'ALMERITA, CAPRAI E PLANETA

Italia
Crisi del vino, discussione nelle cantine italiane

In un momento di estrema delicatezza, che vede “scontrarsi” le aspettative per la nuova vendemmia e la richiesta della distillazione di crisi all’Unione Europea, la discussione sulla crisi del vino, promossa in questi giorni da www.winenews.it, ha scatenato una serie di reazioni testimoniate dai numerosi interventi di molti fra i più importanti “addetti ai lavori” del mondo del vino italiano.
Spiega Ettore Nicoletto, direttore generale del gruppo Santa Margherita che raccoglie marchi come Kettmeir, Ca’ del Bosco e Terreliade: «improbabile una riduzione dell’Iva sul vino e sono molto scettico anche sulla possibilità di “compattare”, su interessi comuni, un’industria come quella vitivinicola, fisiologicamente atomizzata e poco incline al gioco di squadra. Sarà vincente chi adotterà un modello di business equilibrato, non troppo sbilanciato sul “make” (che oggi mette a dura prova i grandi vignaioli i cui costi di produzione risultano penalizzanti rispetto all’acquisto dell’uva e/o del vino sfuso da terzi). Performerà bene chi saprà “investire” sull’estero - che da sempre garantisce margini sensibilmente più elevati rispetto al mercato interno - adottando cioè politiche commerciali mirate e rispettose dei modelli distributivi e culturali dei diversi mercati del mondo».
Pone la sua attenzione sul piano legislativo Piero Mastroberardino. presidente dell’azienda Mastroberardino - una delle realtà più conosciute ed in crescita del panorama enologico campano - e di Federvini, «esistono segnali di evidente difficoltà, non tanto sul segmento medio-alto della nostra produzione, che continuo a vedere piuttosto forte, quanto su quello medio-basso. La legislazione che governa il mondo del vino italiano deve assicurare garanzie per il cliente finale, ma deve anche sapere essere uno strumento efficace in mano agli imprenditori. Non è possibile che “per legge” si rinunzi ad un segmento di mercato, quello medio-basso, perché la nostra legislazione non è adeguatamente formalizzata. Dobbiamo riorganizzare l’intera filiera e riscrivere i principi fondamentali di quelle leggi, facendo una riflessione un po’ più “laica”, senza accettare compromessi sulla qualità, ma, allo stesso tempo, costruendo un sistema più coerente ed insensibile ai cicli economici».
Preferisce il termine “cambiamento” a quello di “crisi” Emilio Pedron, amministratore delegato del Gruppo Italiano Vini (Giv), il gruppo vitivinicolo con il più alto fatturato d’Italia, «tutti parlano di crisi, ma credo che si tratti piuttosto di un cambiamento molto veloce del mercato del vino. Oggi è in atto un assestamento della domanda e un ridimensionamento di un settore che ha attraversato un periodo di euforia sfrenata, dalle basi poco solide, rappresentate da mercati non consolidati. In questo momento di profonda trasformazione, tutta la filiera mette in mostra le sue debolezze, prima fra tutte la quasi completa inesistenza di un collegamento fra chi produce e chi vende. Il comparto vino ha vissuto nel recente passato di “estremi”: fino a poco tempo fa, per esempio, i prezzi delle uve erano altissimi e nettamente fuori mercato, adesso siamo in una situazione opposta. All’estero, tuttavia, il vino italiano ha ancora molte buone chances, offrendo qualità e prezzi adeguati. Ma queste potenzialità possono rischiare di dissolversi proprio per la tendenza delle imprese vitivinicole italiane a muoversi per estremi, senza equilibrio, e a causa di una filiera che parla e discute poco dei suoi problemi».
Duro ma realistico il parere di Ezio Rivella, il famoso enologo-manager oggi alla guida delle sue aziende Fertuna, Bel Sit e Il Caggio: «per quanto riguarda i vini di qualità un minimo di organizzazione esiste, ma per quanto riguarda il vino attualmente in eccedenza e di qualità medio-bassa, l’unica soluzione percorribile resta quella della distillazione, a meno che non si intervenga concretamente sulla collocazione qualitativa di questo prodotto, senza trascinarsi ancora il problema. Sui mercati esteri, il momento sfavorevole può essere affrontato con un’adeguata promozione. Una promozione, però, non “calata dall’alto”, ma effettuata direttamente dalle aziende, perché i piani, che fin qui sono stati attuati, hanno generalmente fallito. Il mondo del vino italiano ha commesso soprattutto un peccato di presunzione, ritenendo l’ombrello delle denominazioni sufficiente a consolidare i nostri prodotti sui mercati di tutto il mondo. Ma la conservazione a tutti i costi di vecchie tradizioni è stata un errore, perché le Doc sono, dal punto di vista del marketing, difficilmente utilizzabili, ad eccezione di pochissimi casi, capaci di vendere concretamente il proprio territorio e la propria cultura».
Secondo Fausto Peratoner, direttore generale della Cantina La Vis, una delle cantine cooperative italiane più attente alla qualità, «storicamente, le aziende vitivinicole italiane hanno privilegiato la produzione e troppo poco la distribuzione dei prodotti, creando un vero e proprio “vulnus” tra queste due fasi della filiera, che oggi bisogna necessariamente colmare. Gli strumenti del marketing sono stati utilizzati in modo sporadico ed insufficiente, se è vero che soltanto il 3% del mercato è considerato di riferimento. E dal punto di vista della comunicazione, le aziende hanno usato messaggi banali, dai contenuti poco forti e soprattutto poco trasparenti rispetto alle aspettative del cliente finale. Anche dal punto di vista della promozione, l’Italia del vino ha ancora molto da lavorare. Non penso che la promozione debba essere completamente affidata alle istituzioni, ma piuttosto alle aziende, che quelle istituzioni devono adeguatamente supportare. La costruzione di grandi aziende, che aspirino alla quotazione in borsa, non rappresenta l’unica soluzione ai nostri problemi di competitività. Bisogna, piuttosto, considerare la parcellizzazione delle nostre aziende come un valore e un vantaggio competitivo, che va messo concretamente in grado di competere. Manca forse una autentica volontà di elaborare i cambiamenti che questo delicato momento sollecita».
«Il business del vino è andato molto bene per quasi 20 anni di seguito - spiega Lucio Tasca d'Almerita, presidente di Tasca d’Almerita, una delle aziende di riferimento del successo della Sicilia enologica nel mondo - e questo trend positivo è stato ampiamente cavalcato, il che ha generato una sovrapproduzione. Ora questo ciclo positivo si è concluso ed è in atto un assestamento della domanda. Non ci trovo nulla di straordinario, ma semplicemente il naturale andamento di un mercato, che si comporta esattamente come tutti gli altri. Penso che ci saranno gravi difficoltà per le aziende piccole, ma anche per quelle più grandi, che sono entrate in questo business da poco tempo. Qualcuno chiuderà, qualcun’altro venderà. Ma questi sono gli affari. Non credo che la situazione possa essere cambiata con provvedimenti “dall’alto”. L’imprenditore, per sua natura, deve fare affidamento soltanto sui propri mezzi. E poi il settore dell’agricoltura è già abbondantemente sostenuto».
Secondo Marco Caprai, titolare dell’azienda Caprai, protagonista assoluta del successo del Sagrantino, «la distillazione richiesta all’Ue è il simbolo di un ritorno al passato, che mette sotto accusa l’inadeguatezza dell’ultimo Ocm, incapace di dare risposte efficaci ai problemi strutturali del settore e impotente di fronte al superamento dell’offerta sulla domanda, tant’è che si continua a produrre tanto e male. E tutto questo a danno esclusivo dei produttori che fanno qualità. Occorre trovare strategie adeguate ad una crisi diffusa in tutto il comparto, che finalmente disincentivino la produzione di bassa qualità, privilegino la formazione di personale qualificato, anche nell’indotto del vino, e puntino decisamente sul marketing, che ancora non si fa quasi per niente».
«Bisogna distinguere fra i produttori di nicchia e dal marchio affermato e quelli che producono vini di media qualità - spiega Diego Planeta, fondatore dell’azienda Planeta, forse la più nota di Sicilia, e presidente della Cantina Settesoli, una delle realtà produttive più grandi d’Italia - Per i primi non vede grossi problemi all’orizzonte. Vini dalla forte connotazione territoriale e dall’identità ben delineata da un vitigno, come per esempio il Brunello di Montalcino, non sono globalizzabili e, se le aziende operano con professionalità e non hanno esagerato in passato con i prezzi, possono superare questo momento delicato agevolmente. Più dura è la situazione per i secondi, esposti alla grandissima aggressività competitiva di paesi come l’Australia. Tuttavia, non mi sento perdente, perché l’Italia non è globalizzabile e io posso vendere, insieme al vino, questo elemento unico ed inimitabile. Un discorso a parte meritano le aziende dei “parvenu” cioè di coloro che hanno cavalcato l’onda del successo improvvisando e credendo che la formula consulente di grido + vino caro + 6000 ceppi a ettaro + cantina faraonica, garantisse da qualunque difficoltà. Credo che soffriranno più di tutti. Ma l’elemento davvero allarmante è l’estrema debolezza della nostra penetrazione nella Gdo internazionale. Per esempio, in Germania, Polonia, Inghilterra o Canada, pochissimi uomini decidono quali saranno i vini che andranno a finire nei punti vendita di quei paesi. Ecco, questo è l’aspetto devastante della globalizzazione: la concentrazione illiberale della domanda. Non vedo tanto una crisi nei consumi di vino a livello mondiale, quanto una crisi dei meccanismi che governano la domanda».

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