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LO SCENARIO

Vino italiano nella “tempesta perfetta”. Ma certi modelli di impresa e territori resistono meglio

La provincia di Livorno, ovvero Bolgheri, ha una redditività 5 volte superiore alla media nazionale. L’analisi di Luca Castagnetti

Non ci sono alternative per “navigare” nella “tempesta perfetta” che sta investendo il vino: non serve resistere, ma è necessario adattarsi, perché la resilienza è la strategia vincente. Il successo non dipende da un modello di business vincente in assoluto, ma da capacità di adattamento, scelte imprenditoriali, managerializzazione e cultura aziendale. Per identificare le aree di miglioramento è necessario analizzare il proprio modello specifico e confrontarsi con aziende simili. Emerge dal report annuale sui bilanci delle imprese del vino di Studio Impresa - Management DiVino, in partnership con “Il Corriere Vinicolo”, storica rivista di Unione Italiana Vini (Uiv). L’analisi (di cui abbiamo riportato gli aspetti principali qui), ha fotografato un mondo del vino capace di adattarsi ad un contesto difficile, ma che avanza a diverse velocità. Sfide strutturali (squilibrio tra produzione e consumo, frammentazione aziendale, cambiamento climatico) e congiunturali (inflazione, conflitti, calo del potere d’acquisto, cambiamento degli stili di consumo) impattano diversamente sulle aziende. Lo studio classifica le imprese in due modelli: “asset strong” (proprietari di vigneti) e “asset light” (focalizzati sul brand). Sebbene le aziende agricole (“asset strong”) mostrino crescita e marginalità superiori (+16% di ricavi, 21% di Ebitda) rispetto alle non agricole (+2% di ricavi, 10% di Ebitda), anche grazie ad un regime fiscale favorevole, si registra un riavvicinamento delle performance tra i due modelli e l’efficacia di quelli ibridi.
Il report by Studio Impresa - che ha preso in esame, per quest’anno, i bilanci depositati di 877 aziende, sulle 1.000 imprese con ricavi superiori a 1 milione di euro che fanno bilancio (srl, spa e cooperative) - ha il merito di guardare oltre le medie, superando il limite del “pollo di Trilussa” con la verifica delle dinamiche che interessano le diverse categorie di aziende. Luca Castagnetti, direttore Centro Studi Management DiVino, ha spronato il settore ad adattarsi indicando strategie quali l’aggregazione per aumentare la massa critica, l’innovazione di prodotto (come il vino in lattina), il ruolo strategico dell’enoturismo e la necessità di un’azione politica coesa sui problemi sistemici (costi energetici, burocrazia). Castagnetti (qui la nostra intervista) ha spiegato la situazione attuale: “dall’analisi del triennio 2022-2024 emerge una polarizzazione delle performance. Nonostante una crescita aggregata del 2% dei ricavi, il 47% delle aziende ha subito una diminuzione e il 41% una contrazione della marginalità. La crescita è trainata dalle grandi imprese e dalle cooperative, mentre le Pmi sono in sofferenza con un aumento dell’indebitamento. Tuttavia, il divario di marginalità tra “strong” e “light” si sta riducendo”. Come raccontano in qualche modo le testimonianze di aziende di primo piano del vino italiano, ma diversissime tra loro.
Argea ha anime diverse, quindi adotta un modello “mediano” - ha spiegato dal canto suo Massimo Romani, ad della realtà aziendale da 465 milioni di ricavi nel 2024, un vario portafoglio di brand e un export di 170 milioni di bottiglie, fondata con capitali del Fondo Clessidra - che combina la flessibilità “asset light” per i prodotti commerciali e la vicinanza al territorio e alla filiera delle cantine dotate di “asset strong” per i brand iconici per essere competitiva in diverse condizioni di mercato. La nostra esperienza suggerisce che non esiste una risposta assoluta, ma che, a seconda dei momenti, ci sono modelli che si adattano meglio o peggio. Banalizzando, osservo che ci sono prodotti diventati nel tempo un po’ più commodity, dove premia la flessibilità, e ci sono prodotti e varietà rimaste un po’ più iconiche, dove, probabilmente, premiano investimenti più importanti”.
Anche Allegrini Wines, che raccoglie un’importante storia familiare e conta su Allegrini Wines (commerciale/“light”) e Allegrini Agricola (produttiva/“strong”), sta evolvendo verso un “alleggerimento” per aumentare flessibilità e sostenibilità. “In questo momento storico è d’obbligo “lightizzare” la parte “strong” - ha affermato Francesco Allegrini, ad dell’azienda di Fumane (Verona), che oggi conta oltre 20 milioni di euro di fatturato, per 2,3 milioni di bottiglie, vendute in 90 Paesi, al 60% esportate, e un patrimonio di oltre 150 ettari, 105 di proprietà e 45 in affitto - noi lo stiamo mettendo in pratica, ad esempio, affittando vigneti, quindi, per espanderci senza indebitarci di più, ma non solo. Ci sono, tuttavia, anche altre soluzioni, come piccole reti di impresa che noi stiamo utilizzando che consentono di mantenere lo stesso standard qualitativo, per esempio condividendo centri di appassimento cooperativi. Allo stesso modo con il ramo commerciale Allegrini Wines stiamo andando alla ricerca di prodotti da distribuire in linea con i trend di mercato”.
Ma il modello “light” si è diffuso perché l’impresa leggera è più appetibile per il capitale finanziario e il private equity, consentendo una più veloce ottimizzazione delle performance economiche. È il caso di Ruggeri - oltre 20 milioni di euro di fatturato, 1 milione di bottiglie export - acquisita nel 2017 da Rotkäppchen-Mumm, uno dei maggiori produttori di spumante, superalcolici e vini in Germania. “La realtà del Conegliano Valdobbiadene Prosecco è particolare per la parcellizzazione molto spinta e, quindi, per l’assenza di grandi proprietà - ha sottolineato Laura Mayr, ad Ruggeri - l’acquisizione, nel nostro caso, da parte di un grosso gruppo industriale che ha una strategia di acquisizione “asset light” per massimizzare value chain e redditività, ha trovato in Ruggeri quale valore principale non la proprietà diretta, ma la filiera di conferitori che apportano 350 ettari di vigneti, con noi da tre generazioni, a cui si aggiungono il valore storico del brand e una certa dimensione che indirettamente è anche garanzia di managerialità. Il nostro è un caso felice basato su un rapporto di partnership che ha consentito una crescita nel tempo dopo l’acquisizione grazie alla forza del brand, alla buona produttività e redditività”.
In ogni caso, le realtà più piccole, con ricavi inferiori ai 5 milioni di euro e tra 5 e 10 milioni di euro, registrano le contrazioni di redditività più marcate (-16,4% e -6,4% rispettivamente). Al contrario, le imprese di dimensioni medio-grandi (ricavi tra 10 e 20 milioni di euro, a +9,1%) e quelle sopra i 50 milioni di euro (+4,9%) evidenziano un incremento significativo. Giovanna Prandini, a capo dell’azienda Perla del Garda (40 ettari, oltre 1,8 milioni di euro di fatturato), ha sottolineato, però, che le aziende piccole, pur soffrendo, non sono fuori mercato: “le aziende più piccole soffrono di più è vero, ma non sono necessariamente fuori mercato anche se fanno fatica a competere in un contesto in cui a volte mancano competenze e risorse”. Le sue strategie sono la diversificazione (produzione latte, olio extravergine, energia con biogas e fotovoltaico) e l’incremento dell’ enoturismo, che per le aziende Fivi-Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti incide per il 23% del fatturato. Prandini ritiene cruciale fare rete con altri vignaioli per abbattere i costi e diversificare i mercati. Inoltre, è necessario il coraggio di innovare, come fatto con la produzione di un vino premium in lattina, “tra le critiche di tutti, per andare a prendere una nicchia di mercato ancora non presidiata”.
In generale, emerge anche che a trainare la crescita del settore (+2,8% di ricavi) è la cooperazione, determinante per la tenuta del sistema (il 60% della produzione e il 43% del fatturato totale). Giampaolo Bassetti, dg Caviro (la più grande cantina d’Italia, 385 milioni di euro di fatturato e due brand privati come Tenute Caviro, Leonardo da Vinci e Cesari), ha spiegato che la cooperazione mira alla massima marginalità ottimizzando i processi per remunerare i soci. “La nostra difficoltà - ha sottolineato - sta nel paradosso delle crescita dei consumi dei vini generici, che scarseggiano, e nella debolezza nella contrattazione con le grandi centrali di acquisto verso cui abbiamo scarsa capacità negoziale. Anche per questo le dimensioni contano e anche nella cooperazione la frammentazione è un fattore antieconomico: le aggregazioni sono necessarie, ma politicamente complesse”.
Sul fronte politico, Luca Rigotti, presidente Settore Vino di Fedagri (264 cantine e consorzi, oltre 5 miliardi di euro di fatturato aggregato e circa il 40% della produzione nazionale), e ai vertici di Mezzacorona, ha portato una ventata di ottimismo grazie all’unità di filiera. “Tutte le misure del “Pacchetto Vino” approvate in Comagri, come l’aumento del contributo Ocm per la promozione dal 50 all’80% e l’estensione delle autorizzazioni di impianto e dei contributi per le malattie, vanno nella direzione auspicata da tutti al di là di alcune specificità. Ora attendiamo l’esito del Trilogo in dicembre”. Rigotti ha anche ribadito l’importanza della promozione di percorsi di aggregazione commerciale per aiutare le cooperative a superare i limiti dimensionali.
Rita Babini, presidente Fivi-Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti, ha, invece, denunciato le difficoltà di accesso ai fondi Ocm: “nonostante il 70% dei soci Fivi esporti, solo il 14% accede a questi fondi. Spero che l’ampliamento dei fondi Ocm fino all’80% aumenti le opportunità. La misura non è, quindi, accessibile nonostante le promesse del Commissario Ue per l’Agricoltura Christophe Hansen di una misura rivolta ai “cosiddetti” piccoli, che in Italia sono il 94% delle aziende, visto che delle circa 30.000 aziende italiane che chiudono il ciclo produttivo solo il 6% è sopra i 100 ettari. E non dobbiamo dimenticare il mercato interno inteso come Unione Europea con (445 milioni di abitanti vs 270 del Mercosur). Negli ultimi due anni il 54% delle aziende Fivi ha rilevato un forte incremento di fatturato grazie a export e introduzione dell’attività enoturistica (nell’81% delle aziende per il 23% del fatturato) su cui chiediamo semplificazioni come l’attivazione dell’“one stop shop” per facilitare le spedizioni”.
A concludere la riflessione è stato Sandro Sartor, presidente Ruffino e consigliere Unione Italiana Vini. (Uiv). “Il settore vitivinicolo italiano è un mondo eterogeneo, rappresenta numerosi attori tutti egualmente indispensabili e l’uno interdipendente dall’altro - ha sottolineato Sartor - se un “tassello” andasse male, ne risentirebbero tutti gli altri”. Sartor ha poi ribadito “la necessità che l’Italia parli a Bruxelles con una voce unica per attrarre Francia e Spagna sulle proprie posizioni e condurre l’Ue dove ci si prefigge. Quanto all’export, finora abbiamo raccolto quelli che gli inglesi chiamano “low hanging fruits”, cioè i frutti bassi a portata di mano, ora dobbiamo prendere la scala per iniziare a salire, andare a cogliere quelli più difficili, consapevoli che le aziende italiane, anche le più grandi (poche superano i 500 milioni di euro), non hanno le dimensioni per competere efficacemente a livello globale contro player da oltre un miliardo. La crescita dimensionale è una necessità per chi compete sui volumi”.
Ma, intanto, da alcuni dati della ricerca, estratti da Luca Castagnetti per WineNews, emerge una certa differenza nel fondamentale parametro della redditività, a seconda della zona. In una Toscana in cui l’Ebitda media del campione analizzato (143 imprese) è del 21,98% - con una media nazionale intorno al 10% - per esempio, spicca la la provincia di Livorno (con un campione di 11 imprese), ovvero quella di Bolgheri (territorio a cui è dedicata anche la monografia de “I Quaderni di WineNews” di Settembre 2025), che si conferma al top per margini creati con un Ebitda del 53,75%, seguita, a netta distanza, da quella di Firenze (39 imprese campione), dove insiste buona parte del Chianti Classico, ma non solo, con il 22,8%, mentre quella di Siena (63 imprese campione), dentro la quale ricadono ancora il Chianti Classico, ma anche Montalcino e Montepulciano, con il 14,6%, è dietro anche alla Provincia di Pisa (21,5%, con 7 imprese campione). “Le imprese del vino in Toscana hanno da sempre importanti margini misurati come Ebitda, che mediamente è il doppio della media nazionale assestandosi al 21,98 rispetto al 10,5%. In Toscana i margini sono molto elevati con l’esclusione delle piccole imprese che registrano margini minori allineati al livello nazionale. Le piccole imprese agricole toscane - scrive Castagnetti - sono spesso appesantite da strutture patrimoniali di vigneti e cantine molto importanti e spesso sbilanciate rispetto alla capacità produttiva effettiva. La provincia di Livorno si conferma al top per margini creati con un Ebitda del 53,75% ottenuto come media da parte di 11 imprese presenti nel campione. La denominazione “Bolgheri” fornisce un contributo specifico al successo delle imprese del luogo. Le imprese della Toscana hanno una elevata incidenza di costo del personale rispetto ai ricavi: il ricavo per addetto è di 214.000 euro e la media degli addetti 51.
Nel Veneto, invece, si sale a 856.000 euro per addetto e una media di addetti minore ferma a 37”. Nella regione di Amarone, Soave, Prosecco e così via, però, emerge una redditività inferiore alla media nazionale, con un 8,72% a livello regionale, con un peculiare picco del 19,3% nella provincia di Venezia, con 11 aziende campione, per poi andare dal 4,6% della provincia di Vicenza (9 imprese), al 7,38% di quella di Treviso (76 imprese), all’8,4% di quelle di Padova (11) e Verona (44). “Il margine delle imprese del Veneto è al di sotto della media nazionale. Anche in provincie come Verona, terra di vini importanti come l’Amarone, il dato dell’Ebitda è nella media regionale. Non esistono imprese che si concentrano in settori a prodotto “premium” - spiega Castagnetti - ma tutte hanno in media produzioni differenziate, spesso con quantità elevate, che abbassano le rese economiche a favore di ricavi e quantità molto importanti. Nel Veneto fanno meglio le piccole imprese con un margine al 13,1%”.
Ed anche in Piemonte, ed in particolare nella provincia di Cuneo, ovvero in gran parte delle Langhe, “che racchiude il 50% delle imprese della regione - sottolinea Castagnetti - accade un fenomeno simile al Veneto: la presenza di numerose e grandi aziende, spesso multiprodotto, pur in presenza di importanti vini come il Barolo, determina una marginalità (9,9%) al disotto della media nazionale (10,5%) ed in linea con la marginale regionale (9,3%)”.
Tra i dati estratti da Castagnetti, interessante il dato della provincia di Brescia, dove è forte l’influenza soprattutto del Franciacorta: da un campione di 31 aziende (su 71 a livello regionale, con una media di Ebitda del 13,4%), emerge una redditività del 21,6%, sostanzialmente in linea con il dato della Toscana, e il doppio della media nazionale.
Solo qualche esempio di dati che, in estrema sintesi, confermano come il settore delle imprese del vino italiano sia come una galassia fatta di tanti pianeti diversissimi tra loro.

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