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VITTORIO GRILLI, DIRETTORE DEL MINISTERO DELL'ECONOMIA, IN UN PIACEVOLE SCRITTO, SPIEGA CHE "IN FONDO DI FRONTE AD UN BUON BICCHIERE DI VINO, PENSO CHE IL DIVERTIMENTO SIA UGUALE PER TUTTI, INDIPENDENTEMENTE DALLA QUALITA' DEL PROPRIO NASO"

Italia
Vittorio Grilli

Da qualche anno, il Consorzio per la tutela del Vino Doc Rosso Canosa (www.canosadoc.it, tel. 0883661410), in Puglia, stampa un piccolo ma interessante libretto di Meditazioni, per celebrare il nuovo anno. Quest’anno il presidente Nicola Rossi ha chiesto di scrivere le “riflessioni sul vino e sul suo mondo”, ad una delle individualità più brillanti e delle personalità più in vista del mondo economico italiano, il direttore generale del Ministero dell’Economia e delle Finanze e membro del Comitato Economico e Finanziario della Commissione Europea, Vittorio Grilli.

La redazione di WineNews ha chiesto il permesso
al presidente del Consorzio per la tutela del Vino
Doc Rosso Canosa, Nicola Rossi, per la pubblicazione:

Divertimento di Vittorio Grilli
Il mondo del vino è stata per me una scoperta tardiva, in parte casuale, ma come molti degli amori che nascono tardi, intense e coinvolgente.
Come gran parte delle persone della mia generazione, la mia gioventù è trascorsa ignorando cosa fosse veramente il vino. Per me era il liquido che veniva versato nel bicchiere piccolo (!) accanto a quello grande (?) dell’acqua. Anzi, a volte finiva in quello grande non perché fosse il più appropriato, ma per dar vita a quella bevanda piacevole e assai dissetante detta “acqua e vino”. Insomma, il vino era una componente scontata, e quindi da me ignorata, di ogni tavola imbandita. Rosso con la carne. Bianco con il pesce, e sempre bianco d’estate a patto che fosse servito ben freddo.
A casa dei miei, poi, il vino piaceva “vivace”, cosa non inusuale a Milano e più in generale in Lombardia. Quindi il bianco era generalmente una Malvasia frizzante friulana, ed il rosso una Bonaria o Sangue di Giuda dell’Oltrepò Pavese, entrambe acquistate da contadini di fiducia ed imbottigliate ogni anno da mio padre ed amici “con la luna giusta” durante un week-end di piacevole baldoria.
La mia conoscenza della filiera Oltrepò Pavese-contadino. Bonarda si arricchì un settembre durante il mio ultimo anno di liceo quando, insieme ad alcuni amici (anch’essi, come me, del tutto incoscienti su che cosa ci aspettasse) decisi, con totale approvazione (assai cosciente) dei miei genitori di dimostrare la mia utilità come homo economicus andando a lavorare per una settimana in vigna durante la vendemmia. Il trauma allora fu grande ed il mio legame con il vino rischiò di interrompersi definitivamente ancor prima di aver avuto inizio.
Tuttavia, da quel giorno, il vino smise di essere l’ovvio e scontato inquilino del bicchiere piccolo di fronte al mio piatto. Ah no, quel liquido apparentemente docile ed inerme ora aveva una sua storia, fatta di terra, di sole, di pioggia, di macchine, di cantine e soprattutto di uomini e donne e di tanta loro fatica e passione.
Il vino così cominciò a suscitare il mio rispetto e la mia curiosità. Certo ero ben lungi da comprenderne la storia, la cultura, le complessità della sua produzione. Ma ce ne era abbastanza per suscitare il mio interesse e per spingermi, durante i miei anni di studio bocconiani, a sperimentare al di là del Sangue di Giuda, ed avventurarmi in modo un po’ scomposto ed autodidatta nel regno dei vini piemontesi e toscani. Ed intuii che c’era molto di più che l’immediata piacevolezza del vino vivace.
Ma la prima vera svolta per me, e qui è un po’ il paradosso, è stata l’America. E’ lì, durante i miei anni prima da studente ma soprattutto poi da professore negli Stati Uniti, che ho scoperto l’esistenza di un mondo del vino organizzato, strutturato, informato. Il vino negli Usa era allora, parliamo degli anni ’80, consumato da una percentuale largamente minoritaria della popolazione. Ma quella parte, che in termini assoluti era sempre qualche decina di milioni di persone, tendeva ad essere appassionata, attenta e mediamente competente.
Scoprii che questo amore per il vino era particolarmente diffuso nei dipartimenti di economia, e che alcuni dei massimi esperti in materia erano colleghi professori, americani e no. Realizzai così che il fascino del vino per un economista è quasi irresistibile perché la sua vita come prodotto di mercato ha tutti gli ingredienti di sofisticazione che sono oggetto dei nostri studi teorici.
L’incertezza legata alle condizioni metereologiche e i conseguenti problemi della gestione del rischio. Il valore del tempo nel processo produttivo legato all’importanza dell’affinamento e dell’invecchiamento. I problemi legati allo stoccaggio. L’esistenza di mercati a pronti e mercati futures. E tutto questo prima che il vino arrivi nel bicchiere. Simply irresistible!
Comincia ad imparare dai miei colleghi, a leggere il Wine Advocate di Robert Parker e Wine Spectator. Sulla base delle loro valutazioni e suggerimenti iniziai, per divertimento, ad acquistare dai mitici wine merchants newyorkesi Morrell e Sherry Lehmann. Poche cose, adeguate alle tasche limitate di un giovane professore di economia. Ma quello fu il seme, l’inizio di una piccola cantina, passione che ho conservato da allora.
A questo punto devo fare una confessione. Appassionarsi di vino in America lascia una impronta indelebile che per un italiano è a volte imbarazzante: l’amore per i vini francesi. Mi rendo conto che questa è una di queste scomode occasioni. Per giustificare questa mia ammissione posso solo appellarmi ad “in vino veritas”e chiedere la vostra comprensione.
Come dirò più avanti, ho cercato con studio ed impegno di lavare questa macchia ma, pur avendo fatto molta strada nel mio apprezzamento dei vini italiani, che oramai hanno superato anche quantitativamente i francesi nella mia cantina, devo ammettere che in fondo qualcosa è rimasto. Dopo lunghe riflessioni e discussioni con amici appassionati sono arrivato a concludere che la ragione della mia inclinazione francese sia sintetizzabile in due parole: 12,5% e Borgogna. Mi spiego.
12,5%. Trovo assolutamente impareggiabile l’abilità con la quale i grandi vini bordolesi riescano a sprigionare tanta forza e carattere senza mai superare i fatidici dodici gradi e mezzo. Non mi fraintendete. Vi sono moltissimi grandi Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot non francesi, tra cui spiccano diversi italiani. Raramente però in altri parti del mondo questo incredibile equilibrio fra forza ed eleganza viene raggiunto a questi livelli di contenuto alcolico.
Spesso, anche in Italia, si superano i 14% ed oltre. Nel Bordeaux i 12,5% sono una soglia praticamente insuperabile. Questa, a mio modesto parere, è una magia che dobbiamo fare nostra. Riuscire ad avere consistenza, persistenza. Struttura, morbidezza, senza un apporto eccessivo, ed alla lunga stordente, dell’alcool è, per il mio gusto, assolutamente vincente.
Borgogna. Innanzi tutto l’ovvio: il Pinot Nero. Poi il meno ovvio: lo Chardonnay. Non mi dilungherò sul Pinot Nero. E’ luogo comune, ma non per questo meno vero, che non si riesca a fare un vero Pinot Nero lontano dalla Còte de Nuits. Esistono, a mio parere, ottimi Pinot Neri alto atesini, californiani e dell’Oregon. Ma non sono la stessa cosa. Quella miscela di bacca rossa, tabacco, quel richiamo di pollaio tessuti, quasi ricamati, con eleganza, sotto le righe, senza aggressività ma con grande intensità non si trova se non nei Vosne-Romanee, nei Clos de Vougeot, nei Gevrey-Chambertin, per citarne solo alcuni.
Diversamente da molti italiani che ritengono il rosso l’unico colore del vero vino, io amo molto i bianchi. E lo Chardonnay è tra i bianchi sicuramente il grande nobile. Differentemente dal Pinot Nero, lo Chardonnay è uno dei vitigni internazionali per eccellenza, che si trova a casa un po’ dappertutto e che riesce a dare grandi espressioni di se in molte parti del mondo. Però, sempre per il mio gusto, affrontare dei grandi Meursault, ma soprattutto dei Batard-Montrachet, Puligny-Montrachet e i mitici Montrachet è una esperienza diversa e inconfondibile. La ferma acidità, la complessa mineralità che stempera il fiore e frutto, l’uso sapiente della barrique che non è mai legno evidente, ma amalgama, lega, quasi fosse la tela su cui tutto viene dipinto, tutto si tiene e tutto si esalta ...
Ma basta parlare di Francia. Ritorniamo in Italia, a Roma, all’Associazione Italiana Sommelier.
Perché la seconda tappa fondamentale del mio rapporto con il vino è stata la decisione di studiarlo, passando così da una dimensione puramente istintiva ed immediata del bere, a quella più strutturata e informata della degustazione, che solo corsi professionali e lunghi studi possono dare. Mentre la passione non è mutata, il mio approccio al vino è cambiato, penso si possa dire che si sia evoluto. Delle tante positive esperienze vissute durante questo periodo di apprendimento, al di là delle interessanti e spesso non intuitive teorie e pratiche di vigna e cantina, la più (piacevolmente) sorprendente è stata la scoperta dell’analisi sensoriale del vino.
Per formazione e professione la mia vita quotidiana si svolge in un mondo dominato dalla razionalità (forse con qualche eccezione …) dove sensi e sensazioni sono tenuti per necessità spesso sotto controllo. Apprendere le tecniche di degustazione mi ha consentito di riscoprire e capire l’uso dei sensi: dell’olfatto, del gusto, persino della vista. Ho così imparato a riconoscere in un bicchiere profumi che prima componevano una miscela piacevole ma indistinta. A scoprire l’odore di acacia, della rosa matura, del lychee, del tabacco, della liquirizia. Ad allenare la vista, a differenziare tra un giallo verdolino ed uno paglierino o dorato, tra un rosso porpora ed uno rubino o granato. A cogliere il livello di acidità, la qualità del tannino, la sapidità.
Ho così cominciato a parlare (ma faccio ancora molti errori di sintassi) un nuovo linguaggio, universale, basato su colori, odori, sapori, sfumature e accenti. Un idioma che richiede capacità di esaltare e non di sopprimere i propri sensi. Non in modo disordinato ma disciplinato, che richiede sforzo, applicazione e tanta memoria. In questo mio processo educativo ho imparato che il naso non è uguale per tutti. Che io sono fornito di un modello medio, tendente al mediocre, e che molti degli insegnanti che ho incontrato, e anche alcuni dei miei colleghi studenti, sono dotati di incredibili fuoriserie.
Ma in fondo, di fronte ad un buon bicchiere di vino, penso che il divertimento sia uguale per tutti, indipendentemente dalla qualità del proprio naso.
Concludo ringraziando il Consorzio per la tutela del vino doc Rosso Canosa per questa opportunità di divagare e riflettere su questioni così lontane dai miei impegni quotidiani.
Nell’augurare a tutti giorni felici chiedo scusa per i pareri sicuramente opinabili da me espressi ma dopotutto vanno presi per quello che sono: un “divertimento”. Con gli auguri esprimo anche tutta la mia stima ai molti produttori che dedicano la propria vita a questa affascinante ma durissima impresa, ammirazione mista ad un pizzico di invidia perché penso sia una soddisfazione unica ritrovare e riconoscere in una bottiglia la propria storia, la propria terra e le sue stagioni, le proprie scelte, le proprie scommesse, i propri errori ma soprattutto i propri successi. Roma, dicembre 2005.
Vittorio Grilli

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