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“Wine2Wine” 2015 - Vino e finanza, è veramente un matrimonio impossibile? La risposta è no. Mini bond e fondi private equity ormai possono popolare il mondo enoico e far parte della “cassetta degli attrezzi” dell’imprenditore vitivinicolo

Vino e finanza, è veramente un matrimonio impossibile? La risposta è no. Gli strumenti finanziari come i mini bond, i fondi private equity ormai non fanno parte soltanto degli scenari della grande industria e di settori ormai tradizionalmente legati al mercato dei capitali. Anche il mondo del vino, perfino al di là del dimensionamento aziendale ridotto, può mettere questo tipo di strumenti nella propria “cassetta degli attrezzi”. È la sintesi del workshop “Vino e finanza … così lontani, così vicini. Forme di finanziamento diverse dalla quotazione”, di scena oggi a “Wine2Wine”, il forum sul business del vino by Vinitaly, Uiv e Federvini.
Il punto potrebbe trovare la sua sintesi in una battuta: “nella botte piccola ci sta il vino bond”. Perché “non è più vero - spiega l’avvocato Emanuela Campari Bernacchi di Legance Avvocati Associati - che per accedere al mercato dei capitali bisogna essere una grande azienda. Oggi anche l’impresa non quotata o di piccole-medie dimensioni può emettere obbligazioni, i mini bond, che possono generare anche vantaggi fiscali e i cui costi di approntamento sono davvero alla portata, in media da 500 a 2.500 euro. I mini bond possono essere emessi da realtà produttive con fatturato non superiore a 50 milioni di euro e con fatturato inferiore ai 2 milioni di euro. Oltre a questi due limiti - prosegue l’avvocato - non ci sono altri ostacoli. I mini bond, inoltre, possono essere sottoscritti soltanto da investitori qualificati. Insomma - aggiunge Campari Bernacchi - chiunque può accedere al mondo della finanza perché, a partire dal legislatore, la volontà è quella di offrire un mercato dei capitali sempre più aperto”. Ma, evidentemente, non esiste soltanto questo tipo di strumento. “I piccoli produttori - prosegue Campari Bernacchi - possono contare fino in fondo sul proprio prodotto. Abbiamo progettato forme di finanziamento garantite dal prodotto stesso delle aziende richiedenti il finanziamento. Lo abbiamo fatto con i prosciutti, ma sarebbe possibile, con altrettanto successo, con i vini da grande invecchiamento, per esempio”.
L’Italia su questo versante sta cominciando a muovere i primi passi, con una certa titubanza. “In Francia strumenti di questo genere sono già attivi da anni - conclude Campari Berneschi - e verrebbe da dire che anche in questo campo i cugini transalpini sono un modello”. In questa sorta di apertura “finanziaria” al mondo enoico, un posto di rilievo potrebbe cominciare ad averlo il private equity. “Si tratta - osserva Federico Cellina di Idea Capital (Gruppo De Agostini), che ha nel suo portafoglio il primo fondo, “Taste of Italy”, dedicato all’agroalimentare - di uno strumento finanziario che ben si adatta, per esempio, al passaggio di consegne tra il fondatore e i suoi eredi. Oggi il mercato dei private equity è una realtà in decisa espansione e vale 252 miliardi di dollari nel mondo, mentre in Italia vale 3 miliardi di euro”.
È certo però che l’azienda vitivinicola rappresenta una realtà in cui il private equity può entrare a patto di rispettare alcune “regole” specifiche della struttura aziendale tipica dell’impresa del vino. “L’azienda vitivinicola è costituita - spiega Pierluca Antolini di Idea Capital - da un carico ingente di capitali investiti, cantina, terra ..., e l’impegno finanziario è troppo oneroso per una forma di investimento come il private equity, che ha una durata media di cinque anni. Inoltre, non consideriamo un target quelle realtà dove l’organizzazione è troppo familiarizzata e i manager sono troppo dipendenti dalle decisioni della proprietà. Ma nel mondo del vino esistono delle eccezioni che non sono poche, peraltro. Mi sto riferendo alle società miste, cioè a quelle che hanno scorporato la parte agricola da quella commerciale. Su questa parte aziendale il private equity ha buonissime prospettive. E non solo come strumento finanziario. Infatti, può introdurre un controllo di gestione più attento, una preparazione alla quotazione dell’azienda, amplificare la proiezione all’estero e managerializzare più profondamente l’architettura del progetto.
E’ possibile, dunque, tracciare un identikit del candidato ideale per un’operazione di private equity: “deve essere un imprenditore intelligente - afferma Cellina di Idea Capital (Gruppo De Agostini)- e guidare un’azienda che opera sta dentro un segmento già in crescita”, “deve trattarsi di un’azienda dalla forte propensione ai mercati internazionali - aggiunge Antolini (Idea Capital) - e in possesso di vantaggi competitivi su cui far leva”.
Sembra l’identikit di un’azienda vitivinicola anche se in Italia c’è ancora della diffidenza su questo tipo di strumenti finanziari e la quotazione viene vista ancora come una cosa troppo onerosa, lunga e capace solo di far perdere il controllo dell’azienda alla proprietà. Anche su questo fronte ci sono novità come le “azioni a voto ultimo” che disinnescano completamente questi timori.

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