02-Planeta_manchette_175x100
Consorzio Collio 2024 (175x100)

Wine2Wine, Convegno by Business Stategies: il consumo di vini in Cina cresce, e l’Italia va verso il suo record. Ma ancora è tutto da costruire tra educazione al vino italiano, Millennials e città di secondo livello da conquistare

Il 2016, per l’Italia, potrebbe essere l’anno del record storico delle esportazioni di vino in Cina, con il valore che potrebbe superare, per la prima volta, i 100 milioni di euro, se sarà dato seguito ai dati dei primi 10 mesi dell’anno, che parlano di un +28,8% (anche grazie ad un prezzo medio dell’imbottigliato fermo passato da 3,27 a 3,98 euro al litro, +21,5% anno su anno) che ha fatto contro una crescita media delle importazioni cinesi a +18,2%). Eppure la strada per la vera affermazione del Belpaese enoico oltre la grande muraglia è assai lunga, se si pensa che la quota di mercato continua ad essere appena del 5,6%, la più bassa tra i principali competitor, dalla inarrivabile Francia (43,3%) ad Australia (24,1%) e Cile (11%), che beneficiano di un regime fiscale assai agevolato, fino alla Spagna (6,7%). Eppure le prospettive di crescita, ci sono tutte. Basti pensare che in Cina il 2016 sarà l’anno del sorpasso nel consumo di vini da uva rispetto alle bevande ottenute dal riso. Un risultato storico che segna un ulteriore passo verso la maturità dei consumatori cinesi, e fa tris con altri 2 traguardi: in soli 2 anni, infatti, i consumi domestici hanno superato quelli più da “status symbol” del fuori casa (e che dovrebbero continuare a crescere del 16,2% all’anno da qui al 2020), e le vendite dell’off trade hanno raggiunto e staccato quelle dei ristoranti. Con il web che ha cannibalizzato le market share dei tradizionali canali di vendita, registrando un balzo dal 2 al 19% in soli 5 anni, secondo l’analisi del mercato cinese dell’Osservatorio Paesi terzi Business Strategies-Wine Monitor Nomisma, presentata oggi a Wine2Wine, il forum di Veronafiere (6-7 dicembre, Verona, www.wine2wine.net).
“Eppure l’Italia non può bearsi dei piccoli successi ottenuti - ha detto il giornalista de “Il Sole 24 Ore” Sebastiano Barisoni - anche perchè è vero che i produttori di vino sono bravi ed il settore è uno dei pochi che ha superato la crisi quasi indenne. Ma in Cina siamo indietro, e non ci sono neanche tanti ristoranti italiani come in altre parti del mondo ad aiutare i produttori. E poi il nostro sistema produttivo è fatto di tante piccole realtà che spesso non hanno massa critica per un mercato così grande. A meno che non si aggreghino, cosa che in Italia non succede quasi mai. Forse - provoca Barisoni - la Cina non è un mercato adatto all’Italia? Io credo che sarebbe stupido tralasciare uno dei mercati con il maggior tasso di crescita del mondo”.
E infatti, al di là delle provocazioni, nessuno vuole farlo, anche perché non esistono Paesi dove il valore del vino importato è passato da da 60 milioni ad oltre 1,8 miliardi di euro in 10 anni, con una proiezione a fine 2016 vicina a un valore di 2,2 miliardi di euro.
“Ma dobbiamo capire che in Cina tutto è diverso rispetto a quello a cui siamo abituati - spiega Silvana Ballotta di Business Strategies - c’è una cultura tutta diversa, lontana, al punto che nel vocabolario fino a pochi anni fa non c’era neanche un termine ad hoc per il vino da uva. Serve un approccio più umile. Un errore che spesso fanno i produttori, soprattutto i piccoli, è di pensare alla Cina come se fossero i nuovi Stati Uniti per il vino: dobbiamo cambiare approccio, capire con chi abbiamo a che fare, quali sono le abitudini quotidiane. E poi iniziare a pensare come “sistema Italia”, a costruire una piattaforma nazionale e, come diciamo da tempo, fare aggregazione. E soprattutto fare formazione, educazione al vino”.
Perchè al di là delle dichiarazioni di interesse e di passione per tutto quello che è italiano, e anche per il vino, in Cina, la realtà ad oggi è che i cinesi, il vino italiano, lo conoscono poco e in pochi, e che molti non ne sanno assolutamente nulla o quasi, come conferma Zuming Wang, vicesegretario generale del Chinese Alcohol Bureau e responsabile del settore vino: “ancora in Cina il vino italiano si conosce poco, non sappiamo dire cosa è più buono e cosa no. Situazione che è differente se pensiamo alla Francia, che ha investito da molto più tempo, facendo conoscere il meglio della propria “piramide” del vino e i territori portanti come Bordeaux, Borgogna e Champagne. Il sistema italiano è complicato, con tanti riferimenti geografici che non conosciamo e non capiamo, con una varietà di prodotto grandissima. E con nomi complicati che non riusciamo a memorizzare”. E anche questo i francesi insegnano. “Tanti produttori hanno tradotto il nome dei loro vini con parole o riferimenti che in Cina siamo in grado di capire e ricordare meglio, associati a qualcosa di piacevole e di bello. Cosa che gli italiani non hanno fatto”.
Quindi, per costruire la cultura del vino italiano, la sua conoscenza, c’è tutto da fare, perchè anche se qualche cosa negli ultimi anni è stato fatto, non basta per le ambizioni delle cantine del Belpaese. Ma non è semplice. “Anche perchè la Cina non ha una grande tradizione del consumo di vino, e anche nella stampa generalista non se ne parla quasi mai”, aggiunge Tao Weng, a capo della Shanghai Dawen Information Developement e cofondatore del Chinese Wine Summit.
Ma dal grande mercato asiatico arrivano tanti segnali da cogliere per i produttori italiani: dalla crescita delle città di “secondo livello” - ovvero le città che, pur essendo di grande dimensione, non raggiungono i livelli di Shanghai (oltre 14 milioni di abitanti) o Pechino (oltre 11 milioni), dove il mercato del vino di importazione è già molto sviluppato ed ipercompetitivo, ma che sono comunque metropoli con una popolazione che va dagli oltre 2,5 ai 10 milioni di abitanti (realtà come Chengdu, Chongqing, Wuhan, Shenyang, and Hangzhou. During), come raccontato anche da una recente ricerca di Wine Intelligence - alla crescita dei Millennials.
“Magari - aggiunge Wang - invece che puntare su tutto il mercato cinese, che è enorme, si puà iniziare a scegliere alcune aree particolari. Per esempio una denominazione o un Regione potrebbe puntare solo su una-due grandi città, o su un canale distributivo particolare tra gdo, horeca, negozi specializzati, e-commerce e così via. E magari su una particolare tipologia di vino, inizialmente magari qualcosa di più semplice”. E anche di versatile a livello di abbinamento con una cucina decisamente diversa e variegata, e dove in tavola tutto viene servito insieme e non si va dall’antipasto al secondo in modo graduale, per esempio.
Insomma, tanto c’è da fare, per il vino italiano in Cina. Che però, di certo, “è il mercato che rappresenta la vera sfida del futuro per le cantine del Belpaese e per il business enoico a livello mondiale - conclude Silvana Ballotta - perché la dinamica di crescita del Paese degli ultimi anni, qualora dovesse essere confermata anche nel 2017, porterebbe la Cina a diventare il terzo mercato di importazione a livello mondiale, surclassando di fatto anche la Germania che da tre anni a questa parte registra all’opposto un calo continuo negli acquisti di vino estero (-4% nei primi 9 mesi 2016)”.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Altri articoli