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LUTTO

Addio a Philippe Daverio, che ha letto il mondo (ed il vino) con le lenti dell’arte

Il ricordo del critico che ha raccontato la bellezza dell’Italia sul piccolo schermo, e le perle dell’enologia e della gastronomia a WineNews

L’Italia piange Philippe Daverio, scomparso la scorsa notte, all’età di 71 anni. Critico d’arte, docente universitario, saggista, è stato soprattutto il divulgatore capace di raccontare l’arte sul piccolo schermo, con “Passepartout”, programma da lui condotto e ideato, avvicinando milioni di persone a quanto di bello custodisce il Belpaese. Senza mai perdere di vista il contesto attuale, in cui l’arte e la cultura si specchiano in continuazione, incontrandosi più e più volte nei capolavori del cibo e del vino, come lo stesso Daverio, negli anni, ha raccontato, in maniera sempre originale, a WineNews. Con cui l’amicizia è iniziata nei primi anni del Duemila, quando il direttore Alessandro Regoli lo ha intervistato per la prima volta, gettando le basi di un rapporto durata fino ad oggi. Da allora, ricorda Alessandro Regoli, “ogni volta che abbiamo incrociato i nostri passi, ci siamo ritrovati a sorridere di come i luoghi in cui ci trovavamo fossero una piacevole sintesi delle nostre comuni passioni e professioni: il vino e l’arte. Quell’arte che uno dei più importanti storici italiani ha fatto conoscere al grande pubblico, grazie ad una cultura, come amava ripetere, “fatta di conoscenza delle cose ma anche di esperienze”, appassionando anche verso opere ed artisti più noti tra gli addetti ai lavori, con autorevolezza e simpatia. Ma con il mondo del vino che, con il moltiplicarsi dei nostri incontri da Verona a Gavi, da Bolgheri a Montalcino, dalla Valpolicella a Montefalco, da Siena a Milano, lo ha visto in questi anni sempre più un pragmatico divulgatore. Tutte occasioni in cui, con una gentilezza e cordialità non sempre facile da trovare tra i personaggi più conosciuti, si è concesso alle nostre interviste, soddisfacendo ogni nostra curiosità, davvero su tutto. Incontri, poi confronti e scambi di vedute, una volta spenti i microfoni, sulla cultura e sull’Italia, ricchi di stimoli e suggerimenti per comunicarle e raccontarle, e nei quali, mentre io rispondevo alle sue curiosità enoiche, mi ha insegnato ad apprezzare ancora di più l’arte, dall’antichità a quella contemporanea. Lo aspettavamo a Montalcino “felice di rivedere quei colli”, “misteri” della sua agenda permettendo, e dove, non solo per il Brunello, ma soprattutto interessato alle storie e all’arte del territorio, avremmo ancora una volta conversato di bellezza, con un grande intellettuale dei nostri tempi”.
Quelle di Philippe Daverio, sono state vere e proprie perle, da tenere bene a mente. Come quando si prestò ad un gioco di associazione di idee tra i territori del vino italiano e le loro bellezze.
“Se penso alla Valpolicella, la prima cosa bella che mi viene in mente sono le sue ville ducali e, prima ancora, l’eredità dei monasteri longobardi nella produzione di vino”, Amarone in primis. “Barolo? Penso a Cavour, ma anche ai castelli perfettamente preservati in cima alle colline baciate dal sole, in un paesaggio piemontese che non ci sarebbe senza il vino. Se dico Bolgheri, penso ad un’invenzione recente, molto romantica e simpatica, dovuta alle famiglie fiorentine e senesi che vi comprarono terreni dopo l’Unità d’Italia, ed ai suoi echi letterari, da “La cavallina storna” al “viale dei cipressi”, attorno al quale nascono etichette-mito. “Montalcino è invece un posto per duri: penso alla sua cittadina, al freddo che fa in inverno, e al rapporto tra l’uomo, le pietre e la terra” del Brunello. “Il Chianti Classico fa molto “contessa”, bella tenuta e giardino all’italiana ben tenuto, con le siepine dentro e fuori la cultura del Chianti”. E poi c’è Montefalco “che mi fa venire in mente il massimo dell’aristocrazia federiciana con le aquile imperiali sulle sue porte, ma anche il mondo dei francescani con il ciclo di affreschi di Benozzo Gozzoli. Ma penso anche a un vino come il Sagrantino, che non era noto, e che oggi potrebbe invece dialogare con i grandi vini italiani”.
Centrale, e non potrebbe essere altrimenti, il vino come ispirazione per pittura, scultura, letteratura, musica, cinema, fotografia, perché, raccontava Philippe Daverio, “porta entusiasmo, brio, aiuta ad uscire dalla dimensione del banale, come si faceva all’epoca di Dioniso, ballando e bevendoci su. Tutte le arti si fondano su questo concetto, per scappare dalla realtà quotidiana, e allora quale “sostegno” migliore se non il vino?”, si chiedeva Daverio, raccontando il legame tra il vino e l’arte, connubio di cui sempre si parla, ma che solo un critico può spiegare in profondità. Perché comprenderlo, aiuta a capire come con le arti e la bellezza si dovrebbe raccontare e comunicare il vino, simbolo di un’italianità che affascina, oggetto del desiderio per appassionati e collezionisti, così tanto che si investe sul vino come lo si fa con le opere d’arte, come investimenti economici, ma che fanno bene anche all’anima. “Sono sempre investimenti legati a pulsioni viscerali - spiegava il celebre critico d’arte - un vino può essere più buono di un altro, ma c’è un qualcosa in più, e quel qualcosa in più è la pulsione estetica, complessa e non misurabile con il termometro. È misurabile attraverso la quantità di implicazioni che porta con sé, perché non è solo la cosa in sé, ma anche tutto ciò che le sta attorno: è il mito, e il vino è in gran parte mito. Dovremmo avere la capacità che hanno avuto i francesi nell’Ottocento - sottolineava Philippe Daverio a WineNews - di usare l’immagine nazionale dei famosi Châteaux, che spesso sono solo piccole casette “da pensionato” più che incredibili castelli, i luoghi e il rapporto con il cibo, come strumento di propaganda. Noi da questo punto di vista siamo ancora un po’ timidi, dovremmo avere il coraggio di buttarci con maggiore enfasi nella difesa di un’italianità complessiva della quale il vino è il riassunto”.
Qualche tempo prima, ancora a WineNews, aveva invece approfondito un altro aspetto fondamentale per il vino italiano, la tutela della sua bellezza ed unicità, “inventando il brand, parola americana della comunicazione, un po’ assurda, ma nel nostro caso importante, e che vuol dire inventare il mito. Il vino è 50% vino, 50% mito sempre. Ma il mito va fabbricato, perché è solo parzialmente delineato. “i miti Italici sono quello piemontese, quello friulano, quello centro-italiano e quello toscano - i toscani sono stati i primi perché sono “mitomani” - mentre invece un umbro “ridondante” non si è ancora visto. Il mito lo hanno inventato molto bene i siciliani - sottolinea Daverio - se si pensa ai nomi di luoghi mai esistiti tratti dalla letteratura, o la storia stessa delle famiglie con i loro antichi cognomi che si sono messe a fare vino. E prendiamo Montefalco, la terra del Sagrantino, con la sua densità storica, con la vicinanza al mondo di Assisi, con Benozzo Gozzoli, tutti elementi che possono far sognare e che meritano di esser trasformati in un mito.
Noi abbiamo avuto una disgrazia, che è stata la nostra fortuna, ovvero la storia dell’etanolo - ricordava Philippe Daverio - fin lì il vino era un alimento, ed una famiglia media italiana ne consumava 400 litri di vino all’anno. Attualmente ne consuma in media 40 di litri, ma il fatturato è aumentato, perché l’Italia ha scoperto il percorso verso la globalità e verso il mito”. Ma “oggi l’Italia è convinta di essere apposto ma che lo sia del tutto non è certo. Il brand italiano viene copiato troppo facilmente e la quantità di bufale che girano per il mondo con il nome Italia sono tantissime. Non siamo dei protettivi capaci e dovremmo definire meglio il nostro brand. Le denominazioni e l’origine controllata funzionano, ma sul Doc complessivo dell’alimentazione ci vuole più rigore. Non è una strada facile, ma necessaria. E il made in Italy vero, di territorio, ne ha ancora tanta da fare”.
Argomento tornato in auge anche di recente, quando la comunicazione è tornata al centro di un’altra chiacchierata tra il critico d’arte e WineNews, tra vino e gastronomia, senza risparmiare stilettate alla politica. “Ig? Per me è l’Indice Glicemico. Ho fatto anche una prova, per vedere la ricerca su Internet che mi diceva: nessuna traccia di un legame con l’alimentazione. È evidente che l’enogastronomia italiana ha un grandissimo problema di comunicazione, e proprio nelle sue questioni centrali. Nel quale sono riusciti forse un po’ meglio i toscani, grazie alle signore di buona famiglia, fiorentine che, con molto charme e grazie ai loro rapporti internazionali, hanno dato fama al territorio, come già nel Settecento e Ottocento. Quando si forma il Club Britannico, circolo di amici, primo aperto anche ai borghesi e dal quale nascerà il British Museum, per poter essere iscritti occorreva certificare di esser stati in Italia e di essersi ubriacati, pena l’esclusione: pensate che capacità di comunicazione, e che fascino, oggi purtroppo anche questo calato, avevamo allora. E non voglio parlare di politica, ma devo: innegabilmente la figura internazionale del “micro monarca” di Arcore è servito poco alla comunicazione di immagine italiana. Se fossi stato a capo del sistema della moda e del cibo, gli avrei fatto causa”. Rifletteva Daverio: “all’Italia si perdona tutto, fuorché la mancanza di stile, perché abbiamo esportato stile per secoli. In modo contraddittorio, è vero, perché ce ne hanno dette di tutti i colori - eravamo i diffusori della sifilide, il “mal de Naples” - ma senza mai pensare che non avessimo stile. Accuso tutti: da Berlusconi a Renzi, a Di Maio, il crollo attuale dello stile italiano è drammatico. Dobbiamo avere coraggio di tornare ad essere più aristocratici”. Ma tipicamente italiana è anche la capacità di sapersi arrangiare, e di inventarsi, anche nell’enogastronomia. “L’Italia in fin dei conti era un Paese con poche materie prime - ricorda Daverio - ma ha sempre capito che doveva prendere a destra e a sinistra e trasformare. Il pomodoro non è nostro, il fagiolo non è nostro, ma la pizza e il fagiolo con le cotiche hanno invaso il mondo. Abbiamo preso la fisiocrazia dai tedeschi e l’abbiamo applicata allo spaghetto creando il piatto più diffuso nel globo terrestre. “Vorrei invece smontare l’Europa franco-tedesca - dice Daverio a WineNews - e ridare peso all’unico vero erede di Carlo Magno che era Lotario, al quale invece hanno fatto la festa con il Giuramento di Strasburgo nell’842. Ho fatto recentemente una predica pro-Europa sulla sua tomba a Piacenza, dicendo che da lì deve ripartire un’Europa diversa, che è l’Europa delle Regioni, e delle ragioni. Perché è quella del glocal vero, non teorico, dove un modo di mangiare toscano o napoletano si può imparare nel mondo. Ma anche alsaziano, attenzione, perché io difendo anche la mia patria: la Choucroute è un bene supremo dell’Umanità, che si mangi a Siracusa in estate no non ci sto. Cosa sarebbe l’umanità senza la besciamella? O le cose vietate come il foie gras?”.Del resto la cucina, e quella italiana in particolare, può essere chic e shock, secondo Daverio. “Chic era quella che Caterina de’ Medici portò ai rozzi francesi, insegnando loro ad usare la forchetta, che cos’era il gelato, e, soprattutto cos’era lo stile”. E nella cucina, come nel vino, meglio lo storytelling o la propaganda? “È meglio la propaganda attraverso il mito, che è fondamentale. Noi siamo deboli sull’organizzazione del mito che passa anche attraverso lo storytelling, ma è più complesso, più affascinante, non rischia di cadere nella banalità”.
Indimenticabile poi la “Lectio” ad ad “Enologica 2015”, dedicata al Sagrantino di Montefalco, tra Europa, arte e vino. “L’entusiasmo che si raggiungeva anticamenti nei riti di Dioniso con la danza e con il vino e quello chiesto da Gesù ai suoi discepoli nell’Ultima Cena con il vino al centro, è lo stesso con cui oggi l’Europa parla dei suoi vini. È fuori moda, ma sono un europeista: meglio che essere localisti puri. Ma l’Europa non ha ancora trovato una parola che la unifichi: per me dovremmo definirla “un consorzio di popoli basato sul vino. E anche il mondo arabo ci è vicino: anticamente beveva vino. Il racconto delle “Mille e una notte” è pieno di vino e di rapporti d’amore”. Per Philippe Daverio, l’Italia possiede il segreto per campare in modo decoroso: “la qualità della vita. Oggi si discute molto dell’indice di ricchezza, di prodotto nazionale, di Pil. Ma da solo non basta, senza la qualità della vita. E noi ne siamo portatori positivi, e abbiamo l’obbligo di diffondere questo”. E la qualità della vita, certe volte, passa anche dal piacere di bere un buon bicchiere di vino, “che da alimento, oggi si è trasformato in un bene culturale”, ricorda il critico, sottolineando che “in Italia siano abituati a pensare che i beni culturali siano solo i quadri. Ma non è così: anche i vitigni sono beni culturali. E lo sono per la loro storia legata indissolubilmente a quella italiana. Ma la connessione tra storia e vino inizia solo ora ad esser veramente considerata in Italia. Oggi tutti sono capaci di essere eccellenti. Come si fa a batterli? Con l’unicità. Vorrei incitare il più possibile l’Italia a puntare sulla sua unicità, tra i cui parametri c’è anche la storia dell’alimentazione. Dobbiamo avere il coraggio di considerare ciò un dato politico, per “un grande restauro” del territorio italiano”.
A proposito di territorio, il ruolo del vino, secondo Philippe Daverio, non è solo culturale, storico ed economico, ma anche di protagonista attivo del paesaggio per come lo conosciamo oggi, in Italia ed in Europa. “Il paesaggio d’Europa non sarebbe tale senza la vigna, che lo ha disegnato e si è sviluppata secondo tradizioni e movimentazioni in parte ancora da chiarire, ma che conformano la struttura europea del vino. Dove paesaggio, edificazioni nel paesaggio, disegno delle colline, formano un’estetica perfetta che, quando il vino è ben fatto, finisce nel bicchiere. L’Italia è bella perché, come già negli affreschi del “Buon Governo” a Siena, abbiamo per secoli dominato la natura. La sua bellezza è il prodotto dell’uomo: è il Paese più antropizzato che esista sul globo terrestre. Ma, purtroppo, nell’ultimo mezzo secolo gli abbiamo dato una botta feroce, ed è ora di prenderne coscienza”, spiega il celebre critico d’arte che ha lanciato “Save Italy”, il movimento d’opinione della civiltà e degli educati, per sensibilizzare alla salvaguardia dell’immensa eredità culturale italiana e “tornare ad un’Italia che sia bella”. Una presa di coscienza che, prima di tutto, deve essere quella del territorio italiano come patrimonio del Paese, e che, dunque, come tale debba essere trattato. “Siccome si studia più latino a Philadelfia o a Clermont Ferrand di quanto non lo si faccia in Italia - sottolinea Philippe Daverio a WineNews - penso che Pompei sia dell’Umanità, non dei napoletani. L’Italia è un contenitore di un’eredità storica formidabile, che ha generato la cultura dell’Occidente. E non è solo degli italiani: ogni tanto bisognerebbe avere il coraggio di andare a bussare alla porta delle comunità internazionali e dire ormai siamo ridotti così, dateci voi una mano a rimetterci apposto”.

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