
Quella dei fine wine è una nicchia si, ma fino ad un certo punto. Perchè il mercato delle etichette di pregio (ancora per la maggior parte francesi, ma con l’Italia in forte crescita) vale 30 miliardi di euro nel mondo, che arriva a 58 miliardi, con i 28 del fine dining, valore raggiunto grazie ad una crescita del 27% dal 2022 al 2024, di cui l’Europa, accogliendo la metà dei circa 14.000 ristoranti di fascia alta nel mondo, per i quali i vini rappresentano, in alcuni casi, fino al 40% dei ricavi, per un valore di 6-7 miliardi. Ed è un mercato che negli anni è cresciuto in maniera costante, fino allo stop della pandemia, e che poi ha vissuto un rimbalzo importante, almeno fino al 2024. E anche ora che le turbolenze economiche sono più forti che mai, e lo scenario quanto mai incerto, è un settore che sembra destinato a resistere meglio degli altri, forse, e addirittura a crescere ancora, da qui al 2030, a patto che le imprese sappiano stimolare la domanda, rispondendo a quella richiesta di lusso esperienziale sempre più forte, e ad ampliare verso Oriente un mercato che è ancora prevalentemente occidentale, tra Europa e Usa, con una necessità di ampliare l’orizzonte resa ancora più impellente dalla questione dazi. Emerge dal primo Altagamma-Bain Fine Wines and Restaurants Market Monitor, presentato a Vinitaly alla presenza di Matteo Lunelli, Presidente di Altagamma e presidente e Ceo di Ferrari Trento, leader del Trentodoc, e Maurizio Zanella, vice presidente di Altagamma per l’Alimentare e presidente e fondatore di Ca’ del Bosco, icona del Franciacorta, Claudia D’Arpizio, senior partner e responsabile Globale Moda e Lusso di Bain & Company, e con i commenti di Giampiero Bertolini, Ceo di Biondi-Santi, cantina storica che ha dato in natali al Brunello di Montalcino, Enrico Buonocore, ceo e fondatore del Gruppo Langosteria e Stevie Kim, managing partner di Vinitaly, moderati dal giornalista del Sole 24 Ore, Sebastiano Barisoni.
“Nonostante rappresentino solo l’1,5% del volume totale del mercato vinicolo - ha spiegato tra le altre cose Claudia D’Arpizio - i vini di alta gamma generano l’11% del valore. Seppur più piccolo di altri settori del lusso come moda (20-25%) e cosmesi (15-20%), il vino pregiato mantiene un ruolo primario nel comparto high-end. Anche se soprattuto appannaggio di vini francesi, soprattutto sul fronte delle bollicine con lo Champagne, ed è un aspetto sui cui lavorare molto. Così come molto importante è lavorare per aprire il mercato asiatico, dove la penetrazione è ancora molto bassa, e dovo sono i margini di crescita più interessanti”. Al netto, ovviamente, di uno stravolgimento del quadro economico mondiale, legato alla più stringente attualità. Anche perchè, dopo un decennio di crescita costante, il settore dei fine wines, spiega il report, ha registrato un leggero calo del -2/-3% nel 2024, il primo vero rallentamento al di fuori del periodo pandemico, dovuto principalmente a una maggiore cautela nei consumi, spinta dall’inflazione, e all’ascesa di trend come la moderazione del consumo di alcol tra le nuove generazioni.
“I vini pregiati - ha aggiunto Matteo Lunelli - si confermano un pilastro dell’alto di gamma a livello mondiale. Un comparto che è passato negli ultimi 15 anni da 18 a 30 miliardi di euro di valore e che, nonostante un lieve calo nel 2024, si stima che aumenterà del 4-6% annuo fino al 2030. Anche l’alta ristorazione sta vivendo dalla pandemia una forte crescita e una significativa trasformazione dei format grazie alla domanda di lusso sempre più esperienziale. L’Italia deve continuare a cogliere le opportunità che offrono questi comparti consapevole che vini e ristorazione di alta gamma sono una grande opportunità per il nostro Paese e ambasciatori insostituibili della nostra cultura, dei nostri territori e del nostro stile di vita nel mondo”.
“Il vino pregiato è al crocevia tra lusso, celebrazione e investimento - ha aggiunto ancora Claudia D’Arpizio - è parte integrante del piacere quotidiano per i più facoltosi, simbolo di momenti speciali per molti consumatori e un bene da collezione per gli investitori. È molto più di una semplice bevanda: rappresenta prestigio, passione, gioia, convivialità e amore per la qualità”.
In particolare, emerge dallo studio, quello dei fine wine è un mercato frammentato, guidato dalla tradizione e ancora occidentale. L’industria del vino pregiato, spiegano Altagamma e Bain è composta sia da grandi marchi che da una miriade di piccoli produttori. I primi 10 brand (quasi tutti francesi) detengono il 35% del mercato, una quota simile a quella del lusso personale (39%) e del design di alta gamma (29%), ma esiste una “coda lunga” con oltre 400 attori. Nonostante la sua tradizione, il mercato è ancora fortemente centrato sull’Occidente: nel 2024 l’Europa ha prodotto il 75% del vino pregiato, ed Europa e Americhe hanno assorbito l’80% dei consumi. Asia-Pacifico e Medio Oriente rappresentano solo il 5% della produzione e il 20% della domanda, ma mostrano un forte potenziale di crescita. Ancora, guardando ai principali trend, emerge che egli ultimi dieci anni il consumo di vino pregiato ha visto un marcato processo di premiumizzazione, con l’attenzione sempre più rivolta alla qualità rispetto alla quantità. Questa tendenza, rafforzata dopo la pandemia, rende il vino pregiato una risorsa “resiliente”, anche nei periodi di incertezza economica. Guardando all’Italia, in particolare, emerge che tra il 2015 e il 2024 i grandi brand italiani hanno mantenuto margini Ebit del 15-17%, nonostante le turbolenze. Nonostante il dominio della Francia - nove dei primi 10 marchi e una quota del 95% del valore al dettaglio - la diversità dell’Italia offre un potenziale di crescita e opportunità di storytelling uniche, con 20 Regioni vinicole e 1.000 varietà di uve (contro le 13 Regioni e le 250 varietà della Francia). Guardando al futuro, il mercato dei vini di alta gamma si basa su fondamenta solide e si prevede una crescita costante. Il valore complessivo dovrebbe salire dai 30 miliardi di euro stimati per il 2024 a circa 35-40 miliardi entro il 2030, con un tasso di crescita annuo composto compreso tra il 4% e il 6% a partire dal 2025. Tuttavia, le crescenti tensioni commerciali e l’introduzione di nuovi dazi, soprattutto sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, potrebbero rallentare parte di questa crescita. In particolare, a risentirne potrebbe essere il segmento d’ingresso del mercato dei vini di alta gamma. I mercati occidentali resteranno centrali, ma regioni emergenti come Asia e Medio Oriente offriranno nuove opportunità. Nel frattempo, il processo di consolidamento continuerà a trasformare il settore. Guardando alla ristorazione di alta gamma, invece, dal report emerge che il segmento dell’alta ristorazione è in forte ripresa, con una crescita del 27% tra il 2022 e il 2024, per un valore di 28 miliardi. L’Europa è leader, con oltre la metà dei 14.000 ristoranti di fascia alta nel mondo. Pur dominando ancora i format tradizionali, le esperienze immersive (che combinano cibo, intrattenimento, convivialità e socialità) sono in ascesa e potrebbero rappresentare il 15-20% del mercato nel 2024. Il vino resta protagonista: in alcuni ristoranti stellati, gli abbinamenti enologici rappresentano fino al 40% del fatturato, per un totale stimato di 6-7 miliardi di euro nel 2024. Oltre il 50% del vino consumato fuori casa è spumante (sia champagne che altre varietà) - in gran parte associato a occasioni celebrative, ma anche sempre più integrato in esperienze di enoturismo. Dopo la pandemia, in paaticolare, i clienti cercano autenticità, condivisione e coinvolgimento emotivo, trasformando i ristoranti in hub culturali e sociali.
Dal dibattito, è emersa in particolare la grande predominanza del vino francese, nel segmento del lusso, con un vino italiano che ha ormai una qualità riconosciuta di altissimo livello, al pari di quella dei vini francesi, ma è ancora indietro dal punto di vista del prestigio e soprattutto dei valori. Da colmare, secondo tutti, con una vecchia ricetta mai messa in pratica: cambiare strategia di promozione, e muoversi più compatti, soprattutto in mercati nuovi e lontani dove la reputazione del vino italiano è tutta da costruire. “La differenza tra il vino italiano e quello francese, è la stessa tra popolo italiano e popolo francese: gli italiani sono più individualisti, fanno una comunicazione molto frammentata, mentre i francesi si muovono e si raccontano insieme, almeno in apparenza”, ha commentato Stevie Kim. Di certo, la complessità del vino italiano, rispetto a quello francese, ha ricordato anche il giornalista Sebastiano Barisoni, non agevola le cose, e trovare una soluzione non è semplice. “Anzi, forse è impossibile”, ha detto dal canto suo Maurizio Zanella, patron di Ca’ del Bosco. Sottolineando, però, che “è vero che nel breve la semplicità paga e che per comunicare varietà e complessità ci vuole più tempo e maggiore fatica, ma alla lunga paga. In fin dei conti, anche i francesi hanno raccontato per molto tempo il valore delle loro grandi denominazione, ma oggi quello che crea valore è il brand aziendale, come nel caso della Borgogna, dove vincono i marchi più della denominazione. Certo è che l’Italia deve unirsi a livello di comunicazione globale: non si possono vedere Regioni che si fanno concorrenza, senza prima aver fatto una promozione coordinata del Paese. Manca una cabina di regia che eviti spreco di denaro e risorse. Ma un grande impulso - ha aggiunto Zanella - potrebbe arrivare dal riconoscimento Unesco della Cucina Italiana, che sarà straordinariamente importante, e spingerà tutti gli operatori, spero, a lavorare con un metro qualitativo più forte che in passato”. “Se vogliamo andare in Paesi come l’Asia, dove siamo sottodimensionati - ha detto Giampiero Bertolini - dobbiamo fare uno sforzo di gruppo, e noi non siamo molto bravi a farlo, anche a livello di consorzi. Sono Paesi diversi, molti comprano l’etichetta, e non la qualità del vino, quindi se non c’è forza del brand si va poco lontano”. Ma c’è anche un altro aspetto, che parte dall’interno, come ha sottolineato Enrico Buonocore di Langosteria: “se guardiamo la nostra ristorazione, le carte dei vini italiani sono piene di vini francesi. Nelle carte dei ristoranti francesi praticamente non ci sono vini italiani. C’è un tema culturale: oggi se al ristorante un cliente chiede un grande vino, il sommelier spesso va su un vino francese, anche in Italia. Ci raccontiamo che siamo bravi in “casa”, anche con una certa superbia, ma poi... Langosteria vuole portare nel mondo “un’italianità organizzata”, diventare brand vuol dire avere organizzazione, che è quella che manca. L’ospitalità italiana è n. 1, come accoglie l’italiano non accoglie nessuno, e dobbiamo portarlo nel mondo, ma serve più educazione manageriale. Dobbiamo costruire persone, che possono gestire i ristornati come se li gestisse la proprietà. La location diventa importante, siamo già a Parigi e St. Moritz, apriremo a Londra e Madrid in location spettacolari. Ma dobbiamo ricordare che il nostro settore non si può staccare dall’umanità, si può managerializzare ma non standardizzare, sennò diventa Mc Donald’s. La formazione è fondamentale, investire in analisi di quello che succede nel ristorante è fondamentale, prossimo profilare i clienti, ma ognuno è diverso: i primi 3 minuti sono quelli in cui tu crei le condizioni per far crescere la spesa: una buona accoglienza, accompagnare il cliente al tavolo, far trovare il cameriere subito presente. Se tutto questo funziona nel mondo giusto, si creano le condizioni per lavorare meglio. E anche per vendere più vino, o bottiglie di maggior pregio, perchè il cliente è a suo agio ed è disposto a premiarsi e a premiare l’esperienza che sta vivendo”.
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