Nel 2002 la superficie vitata nel mondo era di 7,877 milioni di ettari, e si producevano, nel complesso, 264 milioni di ettolitri di vino. Oggi gli ettari di vigna, nel pianeta (dato 2012) sono scesi a 7,528 milioni (al top ci sono Spagna, con 954.020, Francia con 756.133, e Italia con 650.823, ma tutti in calo sul 2012, ndr). La produzione (stime 2013), al contrario, è in crescita, e dovrebbe attestarsi sui 280 milioni di ettolitri. Sono solo alcuni dei dati più importanti di “Vino in Cifre” 2014, l’annuario statistico del “Corriere Vinicolo”, “l’house organ” di Unione Italiana Vini (www.uiv.it/corriere/), realizzato in collaborazione da Ismea, che ha confrontato e rielaborato diverse e autorevoli fonti statistiche internazionali e nazionali. Da cui emerge che, negli ultimi anni, ad essere aumentata non è solo la produzione di vino, ma anche il consumo, visto che si è passati dai 23,2 miliardi di litri del 2007, ai 24,3 del 2011 (in testa gli Usa, con 3,2 miliardi di litri, la Francia, con 2,9, e l’Italia, con 2,3, sebbene gli States siano in crescita, mentre i due Paesi del vecchio continente in strutturale diminuzione). A crescere, per la gioia di chi fa business nel vino, è anche il valore economico degli scambi internazionali: dai 29,8 miliardi di dollari complessivi del 2008, ai 33,2 del 2012, di cui 23,7 di vini confezionati, 3,9 di sfuso o in formati superiori ai 2 litri, e 5,5 di vini spumanti. La Francia, nel 2012 si conferma leader, in valore, delle esportazioni, con 6,5 miliardi di dollari arrivati dai vini imbottigliati (seguita dall’Italia, con 4,4), e 3,1 dagli spumanti (anche qui il Belpaese è al n. 2 ma decisamente più staccato, con 802 milioni di dollari). Tra i Paesi importatori, invece, la leadership nei vini fermi è degli Stati Uniti, con 3,8 miliardi di dollari, davanti al Regno Unito, con 3,5. Posizioni che si invertono per quanto riguarda gli spumanti, con 825 milioni di dollari per gli anglosassoni, e 778 milioni di dollari per gli americani. Nello sfuso, invece, la leadership delle esportazioni spetta alla Spagna, con 597 milioni di dollari in valore, mentre il Paese che ne ha importato di più, sempre nel 2012, è stata la Germania, per un valore di 610 milioni di dollari. Dati che, ad una prima lettura, dicono chiaramente una cosa: se “the next big thing” del mercato enoico mondiale, è il boom dell’Est Asiatico, il grosso dell’industria vinicola del pianeta, ancora oggi, si muove tra gli Stati Uniti e la Vecchia Europa.
Focus - Il commento di Carlo Flamini, direttore del “Corriere Vinicolo”
““Il Vino in Cifre” è solo un compendio della grande banca dati che ha l’Unione Italiana Vini, e che mettiamo a disposizione del mondo del vino. E i dati, ci dicono che l’Italia sta andando abbastanza bene, nei primi 9 mesi del 2013, soprattutto sulla spumantistica, grazie al fenomeno del Prosecco che sta sparigliando le carte nel segmento. In Inghilterra, per esempio l’Italia è passata dal 3% al 20% della quota del mercato degli spumanti, e ha mangiato tutto quello che era stato guadagnato dal Cava e sta erodendo quote allo Champagne. Senza considerare il movimento che il Prosecco ha generato anche come indotto, soprattutto per il mercato delle macchine, in Italia. Un fenomeno che se ben gestito come stanno facendo i diversi consorzi che sovrintendo alle diverse declinazioni del Prosecco, può continuare a dare grande risultati come sta avvenendo in Uk, Usa, Canada e non solo, dove i numeri stanno crescendo bene”. Così Carlo Flamini, direttore del “Corriere Vinicolo”, commenta a WineNews i dati de “Il Vino in Cifre” 2014.
“Per il resto delle produzioni che esportiamo - aggiunge - andiamo bene, la quantità è in leggero calo, ma siamo in crescita nei valori, si vende a qualche centesimo in più. Ma dobbiamo guardare in prospettiva però, e pensare che il nostro competitor vero dei prossimi anni è la Spagna: ha volumi, ha prodotto, ha un serbatoio importante di sfuso che manda fuori, e quello che spedisce in bottiglia lo vende a prezzi da saldo. Se nei prossimi 10 anni, il sistema vino spagnolo metterà a posto alcuni tasselli, può essere l’avversario. In Cina per esempio, gli spagnoli ci hanno già superato, sul valore delle esportazioni nel Paese asiatico sono più avanti di noi. È un campanellino d’allarme che suona, e da guardare in ottica più generale.
L’Italia, in questo senso dovrebbe darsi delle priorità, dotarsi di un piano strategico nazionale, come abbiamo già scritto altre volte, che faccia perno su quello che sono le produzioni che fanno il valore del made in Italy nel mondo. Che, in volumi, poi, è fatto in larga parte da poche denominazioni e vitigni importanti, come possono essere per esempio, oltre allo stesso Prosecco, il Pinot Grigio, l’Asti, la Valpolicella, il Soave, la Toscana, soprattutto con Chianti, Chianti Classico e Toscana Igt, o ancora la Sicilia, e la produzione pugliese a varietà, quindi soprattutto Primitivo e Negromaro, solo per fare degli esempi. Che è quello che trovano 2 volte su 3 i consumatori sui mercati del mondo quando fanno la spesa, e quindi, laicamente, come diciamo sempre, è quello che l’Italia dovrebbe portare in giro come ambasciatore, come “apripista”, facendo una scelta coraggioso, e investire questi player del ruolo di portare il brand Italia nel mondo, in un lavoro di cui beneficeranno anche le altre piccole denominazioni che ci sono nel Belpaese, e che magari non hanno la forza per andare all’estero da sole. Invitando questi grandi ambasciatori a parlare dell’Italia come Paese produttore di vino, ad esempio in Cina, dove ci conosco a malapena, e dove non ci hanno messo a fuoco. Bisogna, in poche parole, aver il coraggio di fare delle scelte.
Il 70% del vino fermo in bottiglia è concentrato in Usa, Canada, Uk, Germania, Svizzera e Giappone. La Cina ha un ruolo ancora molto piccolo, ma abbiamo la necessità di aprirci nuovi mercati, e dovremmo puntare in maniera organica su “un apriscatole” comune, fare un lavoro che altri stanno facendo, ad Est. Come l’Australia, che sembrava dover spaccare il mondo tra gli anni ’90 e i primi del 2000, e che poi si è trovata con l’Inghilterra che gli pagava il vino sempre meno, il 50-60% del loro vino a marchio va in giro praticamente sfuso, imbottigliato in loco per risparmiare su costi di trasporto e così via. E allora ha individuato nell’Est Asiatico, Cina e Hong Kong in primis, l’area su cui puntare per i vini di alta gamma nei prossimi 10 anni, e ci stanno puntando anche come comunicazione e promozione, così come stanno facendo i cileni, con dei piani strategici nazionali, focalizzandosi su aree precise con prodotti specifici, e prima o poi dovremmo farlo anche noi. Lo dicono i numeri. Che dicono anche che il linguaggio che abbiamo usato fino ad oggi, a Oriente, non è stato il più efficace”.
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