Il vino naturale? Non esiste. Almeno secondo Attilio Scienza e Vincenzo Gerbi, professori ordinari di Enologia, rispettivamente, all’Università di Milano e di Torino che, dal dibattito organizzato da Eataly e Padiglione Italia “Proviamo a definire il vino naturale e ... innaturale”, di scena all’Expo di Milano, mettono i puntini sulle “i” su una definizione che, da un punto di vista prettamente scientifico, non ha ragion d’essere. Diverso il punto di vista del mondo produttivo, con Anelo Gaja e Walter Massa che nella scelta della naturalità vedono la possibilità di una svolta per l’intero comparto.
“Naturale - spiega il professor Scienza nel suo intervento, introdotto, dal patron di Eataly Oscar Farinetti, che ha fatto gli onori di casa - è tutto ciò che nasce e si sviluppa senza l’intervento dell’uomo. Nel caso del vino, l’unica cosa che esiste di naturale è l’antica pratica, sopravvissuta in alcune zone della Maremma, di raccogliere le uve selvatiche alla nascita del primogenito, e produrre vino da fermentazione spontanea che poi viene bevuto al raggiungimento del diciottesimo anno d’età. Tutto il resto, non si può considerare vino naturale, perché, come diceva Platone, un tavolo esiste già in una foresta, ma senza la tecnica non può esistere. Stessa cosa vale per il vino, dove la tecnica - continua il professor Scienza - è tutto. Eppure, facciamo ancora fatica ad attraversare la “porta stretta”, termine caro, in pedagogia, a Freud, delle produzioni biologica e biodinamica. Nel resto del mondo, le filiere produttive fanno sistema, puntando forte su ricerca ed innovazione: succede in Francia con il latte, in Germania con il maiale, in Spagna con il comparto ortofrutticolo: il vino sembra aspettare solo noi. Ma per farlo davvero bisogna tornare ad investire in ricerca, senza paura. A partire sulla resistenza della vite, campo nel quale non si fanno passi avanti da decenni, anche a causa di certi pregiudizi sugli studi di genetica. La vite europea, infatti, ha almeno 500 geni deputati alla resistenza delle malattie, ma senza ricerca certe potenzialità non si possono esprimere. Eppure - approfondisce il professor Scienza - proprio come per il superamento dell’anemia mediterranea, basterebbe modificare due basi, una cosa che non porterebbe alcun disequilibrio nel Dna della vite, per rendere la pianta resistente praticamente a qualsiasi malattia della vite. È la cosiddetta “correzione del genoma”, con cui, nel giro di poco tempo, potremmo avere 50 varietà resistenti, senza apportare alcun cambiamento alla struttura genetica della vite. Per fare tutto ciò - chiosa l’ordinario di Enologia all’Università di Milano - ci vorrebbero sia una struttura che dei fondi, che andrebbero a finanziare i giovani ricercatori. Non è così difficile: produciamo 2 miliardi di bottiglie all’anno, se ogni produttore si auto tassasse di 2 centesimi a bottiglia potremmo contare su 40 milioni di euro l’anno ...”.
Anche Vincenzo Gerbi, ordinario di Enologia all’Università di Torino, non crede che sia l’espressione giusta: “il vino - spiega - non è un prodotto naturale, ed affidarsi alle fermentazioni spontanee è un modo poco sicuro di fare il vino. Giusto usare i propri lieviti, ma a patto che siano buoni, perché nella produzione enoica non ci si può affidare al caso, dobbiamo lavorare nella consapevolezza di produrre un buon prodotto, che sappia stare sul mercato. Poi - conclude Gerbi - se parliamo di impatto sull’ambiente allora un senso la definizione di naturale ce l’ha. Anzi, è una nostra grande responsabilità quella di restituire all’ambiente acqua pulita alla fine del processo produttivo, puntando ad un vino italiano totalmente sostenibile, che abbia rispetto per terra, acqua e aria”.
Diverso l’approccio del mondo produttivo, per cui il vini naturale non è semplicemente un punto d’arrivo, quanto un percorso lungo, una strada da imboccare per raggiungere al meglio tanti altri obiettivi, come spiega Angelo Gaja: “naturale è uno dei termini più belli che esistano, ed i consumatori oggi si aspettano un vino con qualcosa in meno, meno manipolazione, meno chimica. Quella del vino naturale, oggi, è una sfida per tutti i brand del vino, che vivono di riconoscibilità e condivisione: il consumatore compra ciò che lo attrae di più, ed oggi il produttore deve conoscere tanto il saper fare quanto il far sapere, ma chi si mette sulla strada del vino naturale comunque si mette sulla strada giusta, porta con sé la voglia di lavorare meglio in vigna ed in cantina. È questa la strada giusta per riprendere quel percorso che ha portato il vino italiano, tra gli anni ’70 e gli anni ’90, a diventare un brand forte in tutto il mondo, grazie soprattutto al lavoro di piccole e medie imprese, ma serve riprendere in mano l’iniziativa, puntando sulla nostra ricchezza varietale, che fa del nostro vino l’accompagnamento ideale per ogni piatto, di ogni cucina: dobbiamo entrare nella ristorazione internazionale. Sul vino - continua Gaja - c’è molto da fare: ottima l’idea del professor Scienza per una tassa di scopo da dedicare alla ricerca, poi c’è da recuperare la legge salva suolo, proposta dall’ex Ministro Catania ed abbandonata dalla De Girolamo, ma è sulla ricerca che si gioca la sfida più importante, a partire da un confronto franco sugli Ogm e sul riscaldamento globale, ma anche sui batteri e sulle malattie delle piante. Ma non dimentichiamoci l’importanza della promozione, perché dove non siamo arrivati con la nostra ristorazione, legata ai flussi migratori, come in Cina ed in Russia, servirebbe un investimento importante, di 30-40 milioni di euro, ovviamente a patto che ci sia trasparenza nell’uso del denaro pubblico. Infine, bisogna separare nettamente l’immagine del vino da quella dei superalcolici, perché noi non vendiamo una sostanza dannosa”.
L’approccio di Walter Massa, il riscopritore del Timorasso, è storicamente naturale, perché, come racconta, “il vino è una grande cosa quando si fa in maniera naturale: in una produzione equilibrata dentro al grappolo c’è già tutto, e dietro, per fare un grande vino, ci deve essere un produttore che sappia essere fine biologo e grande comunicatore. Quello che mi preme sottolineare è che il vino è antropologia, come diceva Erasmo da Rotterdam, il vino è riflesso della mente. Per questo non dobbiamo correre, ma vivere la vigna giorno dopo giorno, tornando a parlarci, per crescere tutti insieme ed imparare a gestire la crescita tecnologica. E poi dobbiamo portare democrazia nei Consorzi, umanità, ricordandoci che il vino italiano sta in mezzo tra il Tavernello ed il Tignanello, e tutti hanno ragione di esistere, di cercare la propria dimensione, utilizzando i materiali meno impattanti, le chiusure più utili allo scopo e così via”.
Il vino naturale, insomma, resta difficile da definire, ma ha una sua profonda ragion d’essere, specie se serve ad unire il mondo produttivo ed rispondere ad una domanda del mercato, come sottolineano i due rappresentanti della promozione di Bacco nel mondo, Helmuth Kocher, creatore del Merano Wine Festival, e Stevie Kim, a capo di Vinitaly International. Del resto, come ha chiosato il Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, seduto tra il pubblico, “il vino italiano ha un tratto di originalità che lo contraddistingue dal resto, e la chiave per continuare a crescere nel mondo è legata al rapporto tra ciò che si beve e ciò che si mangia, nel grande tema della condivisione. Dobbiamo tenere in conto - continua Martina - che presto nel mondo la classe media crescerà di 800 milioni di nuove persone, e noi questa tendenza la dobbiamo sfruttare, provando a darci delle linee guida, facendo un lavoro di squadra, imparando a coalizzarci, come in altri Paesi d’Europa succede per le altre filiere”.
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