L’esterofilia di cui da sempre soffrono gli italiani sembra stia passando di moda nel mondo della viticoltura: dopo anni in cui i vitigni internazionali hanno fatto la parte del leone, negli ultimi tempi si assiste al grande ritorno dei vitigni di casa nostra. Sarà per quell’allure di tipicità che oggi va per la maggiore, sarà perché il mercato sta mandando segnali di stanchezza verso cabernet o merlot omologati che potrebbero essere nati indifferentemente in California, in Sicilia o in Australia, i vignaioli stanno facendo incetta di barbatelle rigorosamente “made in Italy”. E non sono solo gli italiani a riscoprire le proprie tradizioni: anche gli stranieri sembrano essersi accorti dell’immenso patrimonio di tipicità del nostro Paese, e vengono sempre più spesso a fare shopping nei vivai italiani, tra i più all’avanguardia a livello internazionale.
Come i Vivai Cooperativi Rauscedo, un vero e proprio “colosso” internazionale nella produzione di barbatelle: detiene oltre il 50% del mercato italiano, fattura 65 milioni di euro e produce 54 milioni di piante, di cui il 30% viene venduto all’estero (i principali mercati sono Spagna, Grecia, Portogallo, Francia). Il suo direttore generale, l’agronomo Eugenio Sartori, ci racconta le attuali tendenze del mercato: «Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un incremento costante nella richiesta di vitigni nazionali, quelli che potremmo definire “classici”: sangiovese, montepulciano, barbera (circa il 45% della nostra produzione). Si rileva poi una sostanziale tenuta delle varietà internazionali (come chardonnay, pinot o merlot), che detengono il 35% della nostra produzione. Tutto il resto sono varietà regionali; questa percentuale, 20%, non è cambiata significativamente negli ultimi anni, ma c’è da registrare uno spostamento delle preferenze: ci sono vitigni che stanno riscotendo un successo inaspettato, altri per i quali le richieste si stanno praticamente esaurendo.
Vendiamo sempre più quei vitigni con grande potenziale enologico, mentre quelli da cui si ottengono vini “generici” sono sempre meno amati dai produttori. Un esempio? I “boom” di questi ultimi anni sono stati il sagrantino, il pignolo del Friuli, il greco di Tufo, il fiano e la falanghina. In ascesa vitigni fino a ieri quasi sconosciuti, come pecorino e passerina. Altre varietà invece, come il bombino bianco, la malvasia o il trebbiano non vengono quasi più richieste». Ma chi compra le varietà autoctone? Sono soprattutto quei viticoltori che rispondono alle richieste di tipicità dei consumatori investendo in un preciso territorio, anche se ancora si tratta di mercati di nicchia. «In molti Paesi del Nuovo Mondo, come Cile e California - aggiunge Sartori - si stanno sperimentando da tempo il sangiovese e la barbera. Ultimamente ci chiedono anche vitigni più particolari, come il fiano o l’aglianico, anche se è difficile ottenere in terroir completamente differenti gli stessi risultati che queste varietà esprimono in Italia». Ma come saranno i vini del futuro? «Nuove e sempre più avanzate pratiche enologiche valorizzeranno il grande potenziale di questi vitigni tipici - spiega Sartori - contribuendo ad una sempre maggiore diffusione di vini varietali in purezza. Questo vale in particolare per grandi varietà, come sagrantino o fiano. Ciò non toglie che molti di questi autoctoni possano contribuire, in abbinamento con vitigni internazionali, a creare grandi “blend”».
Il punto di vista di un “addetto ai lavori”
Secondo Carlo De Biasi, responsabile viticolo delle
tenute Zonin: “Occorre puntare sugli autoctoni migliori”
Non tutti gli auctoni sono uguali. A confermare una differenza di valore tra i vitigni tipici del nostro Paese ci sono le parole che a Gorizia, alla tavola rotonda di Ruralia intitolata “I vini autoctoni, una moda momentanea o un investimento per il futuro?”, ha detto Carlo De Biasi, responsabile viticolo delle 11 tenute della famiglia Zonin (1.800 ettari in 7 regioni d’Italia). “I nostri investimenti e la nostra fede nei vitigni autoctoni - spiega De Biasi - sono partiti dalla consapevolezza che essi potevano e possono rappresentare un valore aggiunto importante per la produzione enologica del nostro Paese, tale da diversificarla e caratterizzarla nel mercato mondiale. Indubbiamente la Zonin - sottolinea De Biasi - è stata tra le aziende italiane che più di altre ha investito nei vitigni autoctoni. Basti pensare che solo in Friuli, nella Tenuta di Ca’ Bolani, abbiamo il più grande vigneto friulano di Refosco dal Peduncolo Rosso: 50 ettari totalmente dedicati a questo grande vitigno rosso italiano. Ma anche nella tenuta piemontese sono gli autoctoni, come la Barbera, il Dolcetto, il Grignolino, a formare la “spina dorsale” dell’azienda. Senza dimenticare che anche gli investimenti nel Sud Italia sono stati impostati partendo proprio dalla rivalutazione dei grandi vitigni autoctoni del nostro Mezzogiorno, come il Nero d’Avola in Sicilia (che rappresenta il 60% del vigneto del Feudo Principi di Butera), e il Primitivo e il Negroamaro in Puglia (che rappresentano l’80% della superficie vitata delle Masserie Conte Martini Carissimo). Ma allo stesso tempo - evidenzia De Biasi - siamo sempre stati convinti che non basta produrre un vino autoctono per avere successo e che non tutti i vitigni del nostro Paese hanno le potenzialità per trovare consenso tra i consumatori. Per questa ragione - continua De Biasi - il nostro lavoro sugli autoctoni si svolge parallelamente sia sul piano tecnico che su quello di mercato. A nostro parere, infatti, non si può scindere la valutazione tecnica da quella di mercato. E’ quindi necessario concentrare gli sforzi nei vitigni autoctoni capaci di conciliare originalità di aromi e sapori e, al tempo stesso assecondare i gusti dei consumatori del mercato attuale e del futuro. Come pure - conclude De Biasi - nella individuazione e nella valorizzazione degli autoctoni, sono necessarie sinergie tra i diversi produttori. In taluni casi può anche essere un’azienda a fare da traino ma per imporre un vino autoctono sul mercato è necessaria una concentrazione di sforzi tra più aziende”.
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