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La Repubblica

Giovani, ambiziosi e innovativi la carica dei nuovi contadini ... Le aziende sono ancora piccolissime, ma ora governano tutta la produzione dalla semina alla vendita. “L’avanguardia della qualità” rivoluziona la campagna... Roberto ha abbandonato il grano, ha piantato erbe officinali e ha riscoperto il farro. Carlo coltiva riso e lo vende con un suo marchio: “Senza i sacrifici di mio padre non ce l’avrei fatta”. Le famiglie continuano a calare e a invecchiare, ma la popolazione dei campi cresce e ha un’età sempre più bassa. L’eterna caricatura del villano, riapparsa perfino in qualche deprimente reality televisivo. Destino inevitabile. Anzi: progresso. Se il seme non muore la pianta non nasce, dice la Bibbia. “Negli anni Settanta noi giovani studiosi ne eravamo certi”, dice Roberto Fanfani, uno dei nostri maggiori economisti agrari, “addio famiglie, dicevamo, il futuro sarà tutto della grande azienda industrializzata con salariati”. Campi come fabbriche, grandi imprenditori con le scarpe lucide, un po’ di tecnici qualificati, e l’orda dei lumpen-braccianti sempre più extracomunitari: in fondo è finita così. Ma è accaduto anche dell’altro: “La famiglia contadina non s’è estinta. Anzi. Si è fatta flessibile, multifunzionale, pluriattiva, e ha resistito integrando con creatività un reddito ancora inferiore alla media”. Le aziende a conduzione diretta sono persino cresciute in proporzione sulle altre, arrivando a un sorprendente 95 per cento del totale, anche se coltivano solo l’81 per cento del terreno disponibile.
L’Italia non se ne rende conto, eppure è ancora un paese di famiglie contadine. Ma è progresso o arretratezza? Di sicuro non sono più le famiglie di Silone, di Iovine, di Carlo Levi. Non sono i dannati della gleba. Almeno quelle più giovani sono come la famiglia di Carlo Zaccaria, che non s’è fatto scegliere dalla terra: l’ha scelta lui, di sua volontà. Suo fratello Matteo fa il meccanico, sua sorella Antonella la maestra. Anche lui, volendo, poteva andarsene. Lo hanno fatto in tanti: ci sono meno conduttori d’azienda sotto i 35 anni di dieci anni fa, solo le campagne del Portogallo invecchiano più delle nostre. Carlo ha studiato agraria, ma anche questo non lo obbligava a nulla: “Dei diplomati del mio anno, oggi uno fa l’infermiere, l’altro vende computer...”. Poi, la laurea in biologia molecolare: “Se mi andasse male, avrò un altro lavoro”. Per un po’ ha anche insegnato, a Ivrea. I campi sudati di papà, quel centinaio di ettari di risaie nella piana di Salussola, tra Biella e Vercelli, dove la chimica aveva già rimpiazzato le mondine, non era obbligato a prenderli. Potevano finire, come tanti, fagocitati dalle aziende-fabbriche gestite da contoterzisti ingaggiati dagli “agricoltori al telefono” che vivono in città. Nove famiglie contadine su dieci avrebbero eredi, ma cinque aziende su dieci verranno vendute entro i prossimi dieci anni.
Il “tradimento” della terra continua. Carlo dunque ha fatto una scelta controcorrente: una vera scelta di campo. “Ma non l’avrei fatto nelle stesse condizioni dei miei nonni. A nessuno piace sporcarsi di fango, lavorare anche di domenica, non fare vacanze, e se c’è solo questo, non si regge. Io ho cercato di non fare solo il contadino. Ho voluto diventare un produttore”. Spalanca il portone metallico del magazzino: nella frescura condizionata, torri di scatole di riso. Il “suo” riso, l’etichetta verde, elegante, col suo nome, “Riso Zaccaria”, e anche la sua fotografia: “Non voglio più vendere un prodotto anonimo, io ci metto la faccia sul mio lavoro”. Vialone, Baldo, Carnaroli, il pregiato riso nero. Produzione d’eccellenza, tiratura limitata. “Papà all’inizio era perplesso. Lui vendeva ai grossisti. Ora s’è convinto”. Carlo ha fatto debiti, ha comprato altra terra. Ha restaurato il cascinale. Computer portatile sul tavolo della bella cucina nuova: s’è inventato un blog per discutere del suo riso, del suo lavoro, delle sue esperienze. Sposato, un figlio, un altro in arrivo. Sua moglie fa l’avvocato. “Sì, mi sento “ceto medio”: ma senza i sacrifici di mio padre non ce l’avrei fatta. E anche ora non c’è da scialare. Diciamo che mi sono adattato. Ma ai miei figli non mancherà nulla”. Lo dice pensando alla sua infanzia? “No, no, nessun complesso. Non mi sono mai sentito il bifolco che va in città. Al massimo qualcuno mi chiede “davvero guidi il trattore?”, ma è curiosità, non pregiudizio. Non c’è più quel pregiudizio.
Anzi: “Beato te che vivi in campagna”“. C’è un terremoto concettuale nei campi. L’aggettivo rurale ha divorziato dal tradizionale consorte, agricolo. Le famiglie contadine continuano a calare e a invecchiare, ma la popolazione che vive nelle campagne cresce (di mezzo milione negli ultimi dieci anni) e ringiovanisce. Si vive in campagna senza vivere della campagna. Si chiama dis-urbanizzazione. Praticata, o almeno desiderata. Quattro italiani su dieci fanno home-farming in città: orticelli in cortile, perfino vasi in balcone. Voglia di tornare alla terra? Forse un po’ di snobismo “eco-bio” e new-age, forse reale esasperazione, comunque è sufficiente a ribaltare la storica repulsione borghese per il lavoro terroso. Nell’immaginario giovanile c’è sempre meno yuppie e sempre più country: il mensile universitario Campus, qualche anno fa, registrò il sorpasso, tra i sogni di carriera dei laureandi, dell’”aprire un agriturismo” sul “fare il manager di una multinazionale”. Una rivoluzione antropologica. Non un ritorno al passato. Le nuove famiglie contadine, quelle che forse riusciranno a fermare il “tradimento”, non somigliano quasi per nulla alle tradizionali. Investono, rischiano di più. Mescolano redditi agricoli e urbani: c’è sempre un familiare che lavora in città. Perfino nei comportamenti privati s’intravedono indizi di cambiamenti epocali: in campagna ci si sposa sette volte di più, ma la famiglia rurale è ormai meno numerosa di quella urbana (2,6 componenti contro 2,5) e fa meno figli, anche se resta più stabile e meno “divorzista”. Un bel guazzabuglio sociologico. La Chiesa continua a cercare fra i fossi il sacrario dei valori tradizionali, ma sembra anch’essa disorientata, non sa come definire il suo popolo un tempo più fedele: “gente della terra”, “gente delle campagne”, sono i termini prudenti e generici della nota pastorale Cei del 2005. Persino l’identità morale dei nuovi contadini sembra essere diventata scivolosa. Non c’è da meravigliarsi. Per Corrado Barberis, direttore dell’Istituto nazionale di sociologia rurale, è silenziosamente in corso “un rimescolamento di razze. Fine della purezza della stirpe: non fai più il contadino perché sei figlio di contadino, ma perché vuoi farlo. La vera novità è questa: la motivazione. I nuovi contadini hanno trovato un nuovo senso nel lavorare la terra. Questi ragazzi istruiti, consapevoli, hanno riscoperto l’emozione del far nascere la vita, perché si prendono il gusto di farlo integralmente, governando tutto il processo, dalla semina fino al prodotto pronto per il consumo. Quasi volessero dimostrare che sono ancora loro, gli uomini della terra, e non i tecnici del laboratorio, i custodi dei nutrimenti terrestri”.
Sembra funzionare. Mentre le grandi aziende con salariati oscillano sotto i colpi delle “carestie di carta”, le bufere improvvise delle quote comunitarie, gli incentivi che vanno e vengono, mentre perfino le cooperative e i consorzi vacillano e non si sviluppano come si pensava, le nuove aziende familiari “incalzate dal demone dell’efficienza” riescono dove capitalismo e collettivismo agrario si fermano. Del resto, l’ideologia slow-food ha rivalutato la figura del piccolo coltivatore perfino tra l’opinione pubblica di estrema sinistra. E un recente rapporto Cnel s’è permesso di concludere che “Carlo Marx sembra essersi scelto nelle campagne italiane un ben curioso erede testamentario: Paolo Bonomi”, il democristianissimo fondatore della Coldiretti. Ma funziona davvero? Mille chilometri più a sud, nel laboratorio dell’antica masseria “Il Sierro” di Laterza, tra Matera e Taranto, Roberto Barberio sta distillando essenza di elicrisio. Anche lui, come Carlo, ha scelto di tornare alla terra dopo aver studiato agronomia; figlio di un professionista inurbato, ha ripreso i 22 ettari di grano e olivi del nonno, ha rivoluzionato le colture, ha piantato erbe officinali, ha riscoperto il farro, punta all’altissima qualità. Ma sospira: “Solo io e un compagno di scuola da grandi volevano fare i contadini, e l’abbiamo fatto, mentre nessuno è diventato astronauta o calciatore. Ma resisto solo perché non sono ancora sposato. Non riesci a far vivere una famiglia se come me vuoi fare tutto in regola”.
Per ciascuna delle erbe aromatiche che coltivava, Roberto doveva procurarsi un patentino speciale per la trasformazione. Ci ha rinunciato: “Non fai più il coltivatore, la burocrazia ti trasforma in un impiegato Ue”. La sua speranza è l’agriturismo che sta per aprire nel vecchio casale di tufo accuratamente, filologicamente risistemato, lui dice “salvato dalle tapparelle e dagli intonaci gialli della finta modernità” che ha sconvolto il solenne paesaggio antropico del Tavoliere. “Noi coltivatori individuali siamo l’ultimo presidio del territorio, ma siamo in estinzione”. Goccia a goccia, l’olio profumato scende nel matraccio di vetro, “è un esperimento, se riesce potrei provare a venderlo”. Forse Roberto è meno pessimista di quel che vuol mostrare. Però sono vere le cifre allarmanti che fornisce Franco Catapano, vicepresidente della Cia pugliese: “In pochi anni le aziende della nostra regione sono crollate da 130 a 98 mila unità”. La primavera dei giovani contadini è effimera, un nuovo latifondo è dietro l’angolo? Intanto tramonta sulle risaie di Salussola. Carlo spiega i prodigi del nuovo trattore a guida satellitare: “Solchi perfettamente dritti, e non sprechi un solo seme”. Sembra la versione tecnologica del mappamondo che i fratelli Cervi, i sette martiri antifascisti di Reggio Emilia, avevano avvitato sul cofano del loro trattore, per ricordarsi in ogni momento che c’è il campo, ma c’è anche tutto il resto. È questo che fa la differenza, Carlo? La tecnologia, la fine dello scarto tra la campagna e la città? “No”, ci pensa un po’, guardando i campi. “No, se avessi fatto l’insegnante avrei avuto comunque meno problemi, più ferie e più o meno gli stessi soldi in tasca. Non so cosa fa la differenza. Forse le cicogne”. Le cicogne? “Quando prendono il volo all’alba, dall’argine, sono un’emozione che ti ripaga. Come il bacio di una bella donna”.

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