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L’espresso

Il tesoro nell’uva … La crisi è alle spalle, le case vinicole vedono rosa. Volano le quotazioni delle bottiglie, l’export e il costo dei vigneti. Che in alcune zone si vendono al metro quadrato, come la seta … Il 2010 è stato l’anno della svolta, dopo il disastroso 2009. E il 2011 si è aperto con segnali incoraggianti di ulteriore ripresa. Per il vino italiano adesso l’obiettivo è tenere i calici alzati in mezzo alla tempesta della crisi, fare squadra e pensare a crescere. Partiamo dai numeri: nel mondo vengono prodotti ogni anno 300 milioni di ettolitri di vino (40 miliardi di bottiglie), il 60 per cento dei quali nell’Unione europea. L’Italia - 17 per cento della produzione globale, 30 per cento di quella europea - lo scorso anno ha realizzato 46,7 milioni di ettolitri (la media decennale è di 47,6 milioni), circa i due terzi dei quali Doc, Docg o Igt. Ogni 12 mesi, il giro di affari riconducibile al mercato del vino è stimabile attorno ai 13,5 miliardi, a cui si aggiungono circa due miliardi di indotto. Secondo l’ultimo rapporto sul settore elaborato dall’Ufficio Studi Mediobanca sui grandi gruppi italiani del vino - quelli sopra i 25 milioni di fatturato annuo, che rappresentano più della metà della produzione made in Italy - il fatturato delle prime 103 società italiane produttrici divino lo scorso anno è cresciuto del 5 per cento: da 4,2 miliardi di euro a 4,4 miliardi, record per questo paniere. Le previsioni per quest’anno, raccolte fra gli operatori, so no positive. Il 53 per cento delle aziende si dichiara ottimista, con stime di crescita del fatturato superiori al 3 per cento, il 41 per cento esprime aspettative stabili (variazione delle vendite compresa tra zero e +3 per cento), mentre solo il 6 per cento formula previsioni leggermente ribassiste. Nessuno ha dichiarato tendenze negative al di sotto del -3 per cento. Particolare ottimismo si respira tra i produttori di bollicine, nessuno dei quali si attende contrazioni di volume d’affari: quattro su dieci si aspettano una forte crescita del fatturato, gli altri sei un leggero aumento. Le aziende, comunque brindano soprattutto all’estero: nel 2010 il nostro export ha fatto registrare un incremento medio (valore e volume) dell’11,5 per cento. Gli ultimi dati disponibili elaborati da Assoenologi, relativi al primo semestre 2011, indicano un ulteriore aumento rispetto allo stesso periodo del 2010: +14,1 per cento in valore e +15,4 per cento in volume. Una crescita che in parte compensa il calo dei consumi interin, attestati nel 2010 a 43 litri pro capite contro i 47 del 2007. Sul fronte dei prezzi delle bottiglie, il settore vitivinicolo è in recupero con un +9 per cento registrato nei primi mesi del 2011 come evidenzia l’Mps Wine Index, l’indice di competitività elaborato dal Monte dei Paschi di Siena. L’istituto bancario, inoltre, ha attivato un osservatorio sul vino italiano raccogliendo informazioni presso la rete di vendita del gruppo. Dalle risposte ai questionari inviati a oltre cento aziende clienti della banca emergono aspettative positive per il fatturato 2011: oltre il 70 per cento del campione prevede un aumento, per la maggior parte su livelli superiori al +5 per cento. L’evoluzione delle vendite sarà trainata proprio dall’export, visto in crescita da quasi il 90 per cento delle imprese. A crescere sono i mercati tradizionali, come Stati Uniti e Germania, ma a brillare per le potenzialità più promettenti risulta la Cina. Qui l’Italia è quarta nella graduatoria dei fornitori locali, seguita da India, Russia e America Latina. Il vino italiano, dunque, resiste bene alla crisi e si conferma come uno dei pochi settori ancora in crescita nonostante gli scossoni all’economia reale. Per cantare vittoria, però, gli operatori devono tenere sotto controllo le criticità gestionali e risolvere alcune contraddizioni che caratterizzano il comparto. A cominciare dal rapporto fra costi e ricavi, reso difficile dall’elevata concorrenza, senza trascurare la frammentazione della struttura produttiva e la debolezza in fase di commercializzazione. “Il settore ha un sistema di vendita basato su agenti, nessuno ha una rete commerciale propria, il che comporta un rischio di standardizzazione del mercato”, sottolinea Stefano Cordero di Montezemolo, direttore accademico della European School of Economics e docente di Finanza strategica del master per aziende vitivinicole dell’Università di Firenze. Non solo. “Il settore del vino è capitalizzato e può contare su mezzi propri. Tuttavia, rispetto agli attivi è fortemente indebitato e questo deprime gli investimenti. Senza dimenticare l’eccessiva frammentazione: 200 aziende in Italia fanno il 50 per cento del mercato. Mentre negli Stati Uniti, ad esempio, tre aziende fanno il 70 per cento. L’unica forma di aggregazione passa per le cooperative che possono contare anche su rapporti storici con la grande distribuzione. Sarebbe opportuno separare la parte di fornitura da quella dell’industria. Ci sono produttori, anche nella fascia compresa tra 500 mila e 3 milioni di euro di fatturato, che dovrebbero convertirsi alla fornitura di qualità. Non ha senso che facciano gli imbottigliatori, devono trasformarsi e prendere esempio dal modello Prosecco, organizzato secondo logiche industriali”. Morale: siamo ancora i numeri uno al mondo nella fascia media (in quella alta la Francia è imbattibile), ma il nostro modello produttivo rischia di essere troppo artigianale. E, soprattutto, siamo bravissimi a fare il vino eppure siamo l’unico Paese a non avere una società vitivinicola quotata in Borsa. “Bisogna fare attenzione alle fragilità di una crescita impetuosa che fa leva esclusivamente sul prezzo. Anche se in risalita, è ancora inferiore a quello di un anno fa”, sottolinea il direttore generale di Assoenologi Giuseppe Martelli, che cita anche altre criticità del settore. Nel 1980 la superficie di uva da vino in Italia era di 1.230.000 ettari, dieci anni più tardi era scesa a 970 mila ettari e oggi è di 684 mila. “In pratica, negli ultimi vent’anni abbiamo perso 286 mila ettari, quanti oggi ne hanno tutti insieme Lombardia, Puglia e Sicilia. E ancora, la superficie media vigneto-azienda è passata da 0,7 ettari degli anni Novanta ai tre ettari attuali, mentre in Francia la superficie media vigneto-azienda è di 10 ettari, in Australia e Cile di 300 ettari, di cui il 70 per cento meccanizzata”. Ma quanto costa impiantare una vigna in Italia? Un’indagine sulle quotazioni dei vigneti condotta da Confagricoltura tra i suoi associati in tutta Italia dimostra come, in alcune zone, i super Cru si vendono al metro, come la seta. In media, negli ultimi tre anni il prezzo a ettaro è diminuito di diversi punti percentuali, in assenza pressoché totale di transazioni. Dallo studio emergono, inoltre, quotazioni e situazioni completamente diverse tra le zone più vocate e quelle che hanno cercato di affermarsi più faticosamente nel panorama enologico nazionale. Così si passa dai 30-50 mila euro a ettaro (-50 per cento rispetto al 2008) della Basilicata, dai 30-45 mila della Puglia e dai SO mila euro delle Doc laziali ai 400-500 mila della zona di Bolgheri in Toscana e ai 400 mila della Franciacorta, con le sue bollicine che non conoscono la parola crisi. Fino ai livelli stratosferici del Barolo, in Piemonte, dove bisogna spendere tra i 600 e i 700 mila euro. Situazione a macchia di leopardo in Sicilia, dove i vigneti oscillano da 20 mila a 70 mila euro per ogni ettaro, con l’area dell’Etna in testa alla classifica, ultima ad essere stata valorizzata, ma attualmente in grande auge. Idem in Abruzzo, dove la Docg più pregiata, Colline Teramane, arriva a quotazioni che sfiorano anche i 100 mila euro. Tiene la zona di Loreto Prutino, mentre nel resto della regione ci sono quotazioni molto basse. Andamento altalenante per il Chianti toscano, le cui quotazioni sono scese fortemente negli ultimi tre anni e ora variano da 70 a 130 mila euro ad ettaro. Cinquanta, 70 mila euro per un ettaro del famoso Sagrantino in Umbria, che tiene il prezzo, pur con un leggero calo, 90-95 mila per la stessa superficie di Verdicchio nelle Marche (in crescita), 90 mila per il Rosso Conero, piccola nicchia di grande qualità. È completamente fermo, invece, il mercato in Sardegna, dove il prezzo medio è 40 mila euro, con l’unica eccezione del Vermentino Doc, che spunta 50-60 mila euro. Così come in Calabria dove il Cirò quota 60-70 mila euro, il resto 40-50 mila. Tutto vero ma soltanto sulla carta, asseriscono i produttori di Confagricoltura. Perché poi vale un’altra regola: sia al Nord sia al Sud, sostengono, nelle zone in cui i prezzi scendono nessuno compra e dove salgono nessuno vende. Un po’ come accade nel mercato immobiliare: è vero che i prezzi sono diminuiti, ma se vuoi acquistare una casa in piazza di Spagna a Roma o in via della Spiga a Milano devi essere pronto a pagarla a peso d’oro, Così si diffonde un nuovo fenomeno, la vendita del marchio: il prezzo di un’azienda non dipende esclusivamente dalle quotazioni del vigneto in quella zona ma dalla sua storicità, dalla qualità dei vini e dalla cantina. Nelle terre del Brunello di Montalcino e dell’Amarone, in effetti, dove i prezzi medi sono rispettivamente di 350-400 mila euro e 500 mila per ettaro, le poche transazioni avvengono sulla base di parametri del tutto diversi. Tengono bene, inoltre, i prezzi dei vigneti del Soave, in Veneto (300 mila euro a ettaro), del Friuli Venezia Giulia (70-80 mila euro nei terreni di pianura, 100-150 mila nel Collio), della zona del Morellino, nella Maremma toscana (150-200 mila), dell’Asti (70-100 mila) e del Lambrusco (100 mila). Stabile anche la Campania, con quotazioni tra i 50 e i 75 mila euro per le Docg della provincia di Avellino, 30 mila nel Beneventano e 20 mila nel resto del territorio regionale. Altra musica, infine, in Trentino e in Alto Adige, dove la terra e la vite si vendono al metro quadrato. Beni talmente preziosi da costare rispettivamente 20-40 euro (50 nella zona delle celebri bollicine) e tra 60 e 90 al metro quadrato. Moltiplicando per 10 mila, non è difficile calcolare quanto costa un ettaro. Un tesoro nel bicchiere per brindare alla fine della crisi.


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