Si fa sempre più pressante in questi ultimi anni la discussione tra chi considera le doc e le docg, così come oggi vengono concepite, uno strumento un po’ obsoleto per rispondere adeguatamente ai consumatori di oggi. WineNews ha sentito, a questo riguardo, Riccardo Ricci Curbastro, presidente della Federdoc, la federazione che riunisce i consorzi di tutela dei vini.
Presidente Curbastro, quale è lo stato attuale delle denominazioni d’origine in Italia?
Secondo i dati aggiornati al 1999, le doc italiane sono 308 e 21 le docg, di queste, 152 hanno un consorzio di tutela (25 con incarico di vigilanza), mentre 156 ne sono ancora sprovviste. Nel ’93, le doc e le docg rappresentavano circa 8 milioni di ettolitri pari al 12,8% della produzione da tavola. Nel ’99 i vini doc e docg hanno raggiunto una produzione di circa 11,3 milioni di ettolitri rappresentando il 19,3% del totale. Di questi 11 milioni, 8,5 (il 75,5%) sono rappresentati da consorzi. Senza consorzio di tutela rimangono, quindi, 2,7 milioni di ettolitri che rappresentano il 24,5% dei vqprd nazionali. Da questo quadro emerge, quindi, una realtà delle doc e docg italiane ben strutturata. Il 56% dei vqprd italiani, infatti, è rappresentato da un consorzio e questi rappresentano il 75% della produzione italiana. Ciò significa che le doc maggiormente rivendicate e tutelate sono anche quelle che producono di più. Ciò non significa che siamo contenti. E’ chiaro, infatti, che quelle 156 doc senza Consorzio non possono non preoccupare. Noi le consideriamo addirittura doc irreali. Proprio per questa ragione da tempo chiediamo al Ministero per le Politiche Agricole di attivarsi per sanare questa situazione. Ciò, però, non può far nascondere che le denominazioni d’origine in Italia hanno registrato una forte crescita negli anni e denotano evidente vitalità.
La sensazione è che nel nostro Paese vi sia oggi una divisione tra liberisti, contrari a disciplinari delle denominazioni troppo rigidi, e tradizionalisti che vedono, invece, proprio nelle regole ferree e vincolanti il successo dei nostri vini. In quale schieramento si pone il presidente della Federdoc ?
Io intanto credo che non siano gli schieramenti citati nella domanda le due alternative per il nostro settore vitivinicolo. Oggi, infatti, sono due le scuole di pensiero e non interessano solo il nostro Paese ma tutta la vitivinicoltura a livello mondiale: la politica del nome del vitigno e quella del nome delle denominazioni. Lo scontro reale è quindi tra i vini vitigno e i vini denominazione. L’Italia, con le caratteristiche della sua vitivinicoltura (grande panorama varietale, diversificazione qualitativa, elevati costi di produzione) non poteva non scegliere la via delle denominazioni legate al territorio e non al nome del vitigno. Inutile ripetere, infatti, che per noi una lotta con i Paesi vitivinicoli del nuovo mondo sulla base dei costi di produzione sarebbe persa in partenza. Per l’Italia, quindi, non esiste oggi una alternativa alle denominazioni anche per l’importante valorizzazione del territorio. E questo è dimostrato anche dalle scelte dei grandi gruppi industriali del vino italiano che, soprattutto negli ultimi anni, hanno investito notevolmente nelle aree maggiormente vocate delle nostre denominazioni. Una liberalizzazione eccessiva, quindi, sarebbe controproducente per la nostra enologia e le regole devono essere fatte dalla base. E oggi è la base, oltre i 2/3 dei produttori (intesa come produzione quantitativa), che ha deciso di scegliere le doc così come sono concepite e quindi la liberalizzazione è un falso problema.
E’ difficile parlare di docg come unico denominatore comune di produzioni molto diverse tra loro. Basti pensare alle diversità esistenti tra una docg come l’Asti e una come quella del Brunello di Montalcino. Quali sono, in questo caso, gli eventuali punti di incontro e come si riesce quindi a conciliare un’unica strategia per produzioni così diverse?
E’ evidente che è difficile mettere in relazione produzioni così diverse. Con le docg, quindi, noi non pretendiamo l’univocità di immagine ma quella delle regole. Quello che è base comune, quindi, sono le norme di controllo, le certificazioni, il rispetto delle regole attraverso il controllo pubblico, il Consorzio e, soprattutto l’autocontrollo.
Dalla letttura delle richieste dei disciplinari di produzione si sta spingendo verso una maggiore liberalizzazione in vigneto o in cantina ?
Difficile rispondere a questa domanda. Quello però che appare più evidente è che le denominazione di successo stanno restringendo con i nuovi disciplinare sempre più i limiti soprattutto a livello di vigneto (produzioni ettaro, sistemi di allevamento, periodo di raccolta, ecc.). Ciò dimostra inequivocabilemte che oggi si è finalmente coscienti che il successo di un vino nasce in vigna.
Quanta influenza hanno i grandi produttori, i cosiddetti marchi storici, nel successo e nei limiti allo sviluppo di una denominazione d’origine?
Un grande nome svolge sempre un’azione trainante. E’ interessante però chiedersi anche quanti danni può causare un produttore maldestro ad un nome storico? Un problema di questo genere si riduce chiaramente quando si è in presenza di un consorzio attivo e ben efficace.
Il tanto decantato modello francese, rappresentato da denominazioni allargate con una miriade di diversificazioni al proprio interno, potrebbe essere esportato anche nel nostro Paese?
Io credo sia molto difficile applicare il modello francese anche per la nostra vitivinicoltura che è caratterizzata da zone piccole molto eterogenee tra loro. Le stesse doc regionali nel nostro Paese si sono dimostrare poco funzionali. Per questa ragione ritengo che per l’enologia italiana il modello a piramide proposto dal professor Mario Fregoni, con i diversi livelli qualitativi, rimanga la scelta ideale per il nostro Paese e consente notevoli libertà per il viticoltore che di anno in anno opta per la denominazione ritenuta più idonea. Poi credo vada anche sottolineato che lo stesso modello francese non è certo flessibile come molti erroneamente pensano. Basti pensare che il disciplinare del Bordeaux risale a metà dell’800 e fino ad oggi non ha avuto particolari modifiche.
Recentemente il professor Mario Fregoni ha rilevato come nessuna delle docg italiane rivendica il 100% della produzione e che l’istituto della revoca previsto dalla 164/92 per le docg che hanno un utilizzo inferiore al 35% per 5 anni consecutivi, non viene mai applicato. Sempre secondo Fregoni, l’indice di vitalità è al limite per una docg e tre docg sono al di sotto del 35% previsto dalla legge. Lei cosa ne pensa?
Che la legge 164 sia a tuttoggi solo parzialmente applicata è un dato a tutti noto. Dai dati in nostro possesso, però, risulta che in questi ultimi anni le docg sono cresciute come pure il numero di produttori che le rivendicano. Solo per l’Albana di Romagna abbiamo un tasso di rivendicazione dei produttori del 34% che sale però quasi al 50% se si considera la superficie. L’altra docg a basso tasso di rivendicazione è il Taurasi, che arriva comunque al 42% e quindi superiore al minimo di legge. Ma nel ’98 i dati per il Taurasi erano circa la metà e questa sta a denotare che siamo in presenza di una docg giovane in forte crescita. Tutte le altre docg sono ben al di sopra del 35% e la maggioranza si colloca tra il 70-80% di rivendicazione. Se poi andiamo ad analizzare i dati relativi alla superficie rivendicata le percentuali salgono ancora di più. Per quanto riguarda, comunque, i produttori non interessati alla docg ritengo che sia un loro diritto mantenerla anche se scelgono di vendere vini da tavola. Ritengo, quindi, che non si possa fare un attacco generico alle docg, anche se sono d’accordo sulla necessità di applicare in toto la 164. Il vero attacco, casomai, va fatto a quelle 156 doc che ancora non hanno un Consorzio di tutela.
Fregoni ha anche recentemente evidenziato che le produzioni delle docg in questi anni sono aumentate anche quando la produzione generale è diminuita per ragioni congiunturali, ambientali ..., mettendo così in dubbio anche i controlli pubblici sulla produzione. Diversamente gli organismi responsabili non potrebbero chiedere un numero di contrassegni quasi sempre corrispondente al massimo della produzione possibile, indipendentemente dalle malattie, dalla grandine ... Quale il suo pensiero a riguardo?
Se si va a guardare ci si accorge che le rese potenziali ad ettaro sono sempre di gran lunga superiore a quelle medie e di conseguenza non si arriva mai al 100% nemmeno per le fascette.
Sempre Fregoni ha indicato che un altro articolo della 164 disatteso, secondo i dati in suo possesso, da 11 docg su 21, è il 10 che obbliga l’indicazione della densità minima di piantagione, un parametro che condiziona moltissimo la qualità. Lei cosa ne pensa?
Penso che esiste un Comitato Nazionale Doc che è preposto alla verifica di tutti questi aspetti e oggi, con il catasto viticolo credo emergeranno chiaramente tutte le eventuali scorrettezze.
Fabio Piccoli
Copyright © 2000/2025
Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit
Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2025