Anche il vino toscano ha il suo 68’: proprio con questa vendemmia “sessantottina” nasce un’etichetta come il Sassicaia, destinata a rivoluzionare l’universo del vino rosso non solo toscano, ma nazionale. La sua novità non era tanto o solo nell’introduzione del cabernet sauvignon ma nell’introduzione di una estrema libertà creativa, senza più vincoli e disciplinari. Si mette così in discussione la concezione stessa del vino di qualità che si aveva in Italia. Fino ad allora infatti i nostri migliori vini storici come il Chianti Classico, il Brunello, il Nobile (e fuori della Toscana lo stesso Barolo e Barbaresco) si presentavano con pronunciati caratteri di evoluzione sin dalle tonalità aranciate dei colori. Il grande rosso italiano aveva profumi molto austeri e maturi che già viaggiavano verso le note terziarie (quando non maderizzate) per i lunghi anni trascorsi nelle grandi botti. Quello era il gusto dominante sino ad allora, poi la qualità e il gusto non passano più solo attraverso le etichette Doc e Docg. I nuovi vini si presentava con un profondo colore rubino ad indice di giovinezza e con profumi di pieno frutto. La ricetta dunque non era nel semplice passaggio al vitigno bordolese, ma in una diversa concezione estetica del vino che fosse importante, ma al tempo stesso concentrato, giovane, cremoso e quindi di estrema piacevolezza. Una nuova filosofia che partiva dalle basse produzioni di uva in vigna, vinificazioni più attente alle temperature, fermentazioni più brevi per evitare eccessi di tannini e amaritudini, uso delle piccole botti nuove per non più di 12-18 mesi ed, infine, lungo affinamento in bottiglia. Di lì a poco il Tignanello ‘71 proponeva la medesima metodologia, partendo però da una base di uve che al 75% di sangiovese aggiungeva un 25% di cabernet sauvignon. Anche dunque le nostre uve autoctone erano in grado di esprimere la stessa giovinezza importante ed una freschezza di frutto con connotati aromatici di totale modernità e gradevolezza. Proprio perché nascevano in tutto o in parte da nuovi vitigni, per le libertà quasi sperimentali che si concedevano sui tempi di cantina e di legno, questi due vini non erano Doc, ma venivano classificati come vini “da tavola”. Hanno inizio da qui un formidabile rinnovamento enologico in tutta la Toscana ed in una continua ricerca verso nuovi vini dalla maggiore concentrazione, ricchezza aromatica e complessità. Salutari nei migliori produttori toscani saranno lo studio e le selezioni delle vigne, in un processo che vede il territorio del Chianti classico nel pieno di vera e propria avanguardia. E questo sia per essere da sempre l’area più avanzata nella produzione di rossi importanti, sia per la crisi di identità che vive nella prima metà degli anni 70 il Chianti classico come vino e la necessità quindi di riscriverlo. Lo stesso fenomeno, tuttavia, sia pure in modo meno vistoso, decolla anche nelle altre importanti aree della Toscana, da Montalcino a Montepulciano, a San Gimignano, a Carmignano (dove comunque la presenza del cabernet sauvignon è davvero storica). Nel decennio successivo avremo così un continuo, importante affermarsi di nuove etichette “da tavola”, vini in molti casi di grande fascino ed importanza che è possibile suddividere in alcune categorie ben definite. La prima vede la sinergia sangiovese-cabernet sauvignon, tipologia sicuramente più diffusa, visto che consente di aggiungere ad un’uva storica e quindi presente nelle vigne come il sangiovese, i primi risultati che si ottengono dai nuovi impianti di vitigni bordolesi, ottenendo nello stesso tempo vini di diversa struttura e cromatura aromatica. L’altra, meno numerosa, è costituita da vini che vedono l’uso esclusivo dei vitigni francesi, cabernet sauvignon inizialmente, poi merlot e syrah. Assai importante sul piano della strategia futura e dell’originalità gusto-olfattiva dei vini da proporre sul mercato mondiale è infine una terza categoria di vini ottenuti unicamente da sangiovese. Non va infatti dimenticato come l’introduzione e lo studio dei vitigni bordolesi diventino anche una fondamentale scuola a produrre grande qualità. E la lezione quindi delle bassissime rese in vigna, delle piccole botti nuove, inevitabilmente si apre anche al sangiovese e a come sia possibile ottenere da questo nostro vitigno uve e vini superiori. Proprio la scarsa qualità che molti Chianti classico denotavano in quegli anni, porterà inoltre numerosi produttori a proporre il loro miglior sangiovese come vino “da tavola”. E la inidoneità di questa dicitura, che confonde il vino di infimo ordine con quello di livello altissimo (solo ultimamente la contraddizione è stata parzialmente risolta con il passaggio di questi vini ad Igt), porterà la stampa americana a coniare il felice neologismo di ‘Supertuscans’ ad indicare le etichette della massima espressione qualitativa toscana, anche per quella condizione di estrema libertà creativa, senza né vincoli, né Disciplinari da dover rispettare. Va menzionata, infine, l’ultima pattuglia dei vini Supertuscans bianchi, esigua nel numero, ma agguerrita qualitativamente, attraverso l’introduzione nelle vigne principalmente dello chardonnay, ma anche del sauvignon blanc e del pinot bianco. La lezione di questi vini è stata tanto importante e profonda nel tempo da rinnovare e sprovincializzare l’intera enologia italiana. Concetti come la ricchezza di frutto, la giovinezza complessiva e al tempo stesso la cremosa grassezza e quindi la godibilità di un grande vino sono oramai un patrimonio comune e acquisito. Negli ultimi due decenni si va progressivamente modificando i Disciplinari, proprio per consentire ai produttori più libertà e più sperimentazione.
Mariangela Galgani
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