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“UN SORSO DOPO L’ALTRO” (VOLPATO), “SBILENCHE SIMMETRIE” (DI BAIA), “INCHIOSTRO” (MENNA): ECCO IL PODIO DI “LETTI IN SORSO”, CONCORSO LETTERARIO TUTTO DA DEGUSTARE DI SANTA MARGHERITA … ED ANCORA GLI ENO-RACCONTI DI AGNELLO HORNBY, CACUCCI E SERRA

“Un sorso dopo l’altro” di Anna Maria Volpato, “Sbilenche simmetrie” di Maria Dolores Di Baia, “Inchiostro” di Antonio Menna: sono i tre racconti che tra gli oltre 1.700 arrivati alla redazione del Concorso “Letti in un sorso”, organizzato dall’azienda vinicola Santa Margherita, hanno guadagnato il podio e l’esclusivo privilegio di essere pubblicati nel “lato b” dei tre vini “best sellers” di Santa Margherita: Pinot Grigio, Muller Thurgau Frizzante e Chardonnay Trentino.
Le retroetichette dei tre vini, infatti, ospiteranno per intero i tre racconti inediti più brillanti del concorso eno-letterario, scelti da una giuria d’eccezione (Fabrizio Carrera, Daniele Cernilli, Giovanni Franco, Enzo Vizzari, Giulia Maldifassi, Alberto Rollo, Paolo Soraci della Feltrinelli e da Alessandro Alì di Santa Margherita), presieduta dal giornalista-inviato per la cultura del “Corriere della Sera”, Ranieri Polese).
A deliziare le degustazioni dei vini dell’azienda, direttamente dal “lato b” delle bottiglie saranno anche tre racconti “d’autore”.
L’edizione 2007, infatti, ha visto la partecipazione, fuori concorso, di tre grandi penne del panorama letterario italiano: Simonetta Agnello Hornby, Pino Cacucci e Michele Serra.

Le grandi penne scrivono di vino … Simonetta Agnello Hornby, Pino Cacucci e Michele Serra
Il puma delle Langhe
Ho visto un puma nelle Langhe, e nessuno mi crede. Ma io l’ho visto per davvero. E che cosa volete che vi dica, che sto raccontando una frottola, che me lo sono sognato, che ero brillo? Fossi matto: sono cose che capitano una volta nella vita, vedere un puma nelle Langhe è come vedere un dromedario sul raccordo anulare, o uno struzzo a San Siro. E così da quel giorno lo ripeto a tutti: io ho visto un puma nelle Langhe. Era l’autunno del 2006, dalle parti di Monforte. Stavo camminando con Gigi, Maria, Flavio e Giovanna lungo un crinale, tra i filari di nebbiolo che digradavano sui due lati. Lo avessi visto in mezzo alla vigna, avrei anche potuto sbagliarmi. La vigna inganna, è una sequenza di quinte vegetali che mentre mostra nasconde, e mentre nasconde mostra. La vigna non è fatta per vedere, piuttosto è fatta per ascoltare non visti, in inglese dire che si è saputa una cosa nella vigna è come dire, da noi, “me lo ha detto l’uccellino”, voci captate, persone intraviste, spifferi di frasi che guizzano tra i tralci. A proposito: occhio, quando siete in vigna, a non parlare ad alta voce, magari per dire cose sconvenienti o fare pettegolezzi. Due o tre filari più in là, c’è sempre qualcuno che vi ascolta. Si possono fare delle gaffe spaventose, nella vigna. Tipo dire “quel gran coglione di Ugo” senza rendervi conto che Ugo è a due metri da voi, appena dietro il filare. Invece il mio puma era proprio in mezzo a una spianata bella larga, un prato grande quasi come un campo di calcio. Duecento metri più a valle rispetto a noi. Io lo vedevo di tre quarti. Stava fermo. In piedi. Guardava in là, verso la macchia. Era giallino, di quel giallo ocra che può capitare solo a certi cani molto avariati, oppure alle leonesse o ai puma. Ma non era una leonessa: troppo piccolo. Neanche un gatto: troppo grande. Restava l’ipotesi di un cane avariato, ma la testa era molto rotonda e le orecchie piccole, e la coda, soprattutto la coda, non aveva un movimento canino. La coda dei cani è ritmica, o batte o penzola inerte, e quando batte è frenetica, confidente, schietta, il cane è un passionale, un emotivo, si fa accorgere subito di essere un cane. Quello lì, invece, muoveva la coda sinuosamente, un po’ a serpente, da persona infida, con il piumino finale che disegnava mezze spirali. Come i gatti. Solo che un gatto giallo lungo un metro e mezzo io non l’ho mai visto. E neanche un cane giallo che fa imitazioni così professionali di altri animali. Insomma: secondo me era precisamente un puma. Ho detto ai miei amici: lo so che può sembrarvi strano, ma quello là sotto pare proprio un puma. I miei amici sono stati evasivi. Diciamo che non erano preparati all’ipotesi di un puma a Monforte, oppure che non avevano voglia di confrontarsi con un così evidente incidente spazio-temporale, oppure che avevano bevuto qualcosa più di me. Fatto sta che hanno detto qualcosa tipo “mi sembra improbabile”, oppure “ci sono cani stranissimi, da queste parti”, o addirittura “sarà anche un puma, ma noi che cosa ci possiamo fare?”. Così, dopo un paio di minuti, ci siamo allontanati. Il puma invece è rimasto lì, e io devo ammettere che non me la sono sentita di scendere a chiedergli chi era, e che cosa ci faceva lì. Mesi dopo Flavio (che era il capo di quella comitiva) mi ha detto che effettivamente aveva sentito dire, almeno gli pareva, che in quel periodo era stato segnalato un puma, da qualche parte nelle Langhe. Ma forse voleva solo essere gentile con me.
Michele Serra

Il pittore di Locri

Agosto a Palermo: basole infuocate e mura abbaglianti. Ma nei chiostri del Museo archeologico, attorno alle fontane di marmo, permane un’ombrosa frescura. Giro svagata per le sale e mi fermo davanti a un satiro vendemmiante. Era lavoro di masculi svacantare ceste d’uva e manovrare il torchio sotto lo sguardo di vecchi e bambini inebriati dall’odore acre del mosto e da quello pungente delle vinacce. Appollaiato sul muretto del catoio in cui da anni viveva recluso, zu’ Pepi sorseggiava il mosto spumoso, lo odorava, discorreva della vinificazione e azzardava previsioni sul futuro vino: acitu - scadente -, si bivi liscio liscio - leggero e gradevole -, bell’impostatu - corposo. Gli altri lo ascoltavano in ammirato silenzio: lui di vino ne sapeva assai. La sera raccontava, sorseggiando il vino dell’anno precedente. Figlio di puvirazzi, era fiero di aver lavorato da caruso con i tombaroli. Estraeva anfore e vasi dalla terra senza scalfirli, ricomponeva frammenti con maestria. E aveva imparato a conoscere il mondo antico attraverso le decorazioni delle anfore. “Troppo belle erano.” Poi, la Grande guerra: lui ci perse tutti i fratelli, ma il comandante, che gli voleva bene assai, lo salvò destinandolo alle cucine degli ufficiali. Lì imparò a conoscere i buoni vini. Dopo il congedo non trovò lavoro in paese: bisognava calare la testa e trovarsi un “amico”. Decise di raggiungere uno zio in America. Conobbe la vera paura quando si imbarcò per Novaiorche. Si sapeva che, un viaggio sì e uno no, il proprietario della nave faceva gettare i passeggeri in alto mare; poi il bastimento vuoto ritornava leggiu leggiu in porto e ripartiva con un altro carico di emigranti. Così quello svergognato s’era arricchito presto. Zu’ Pepi si cacava addosso per la paura di morire e si tenne in salute bevendosi tutto il vino destinato ai parenti americani. “Binidittu u vinu e cu l’inventò,” diceva, e citava storie bibliche ed evangeliche. “Vino, non acqua, vulì u Signuruzzu p’a santa Missa, e ragione avia!” Ma a Novaiorche ci arrivò e lì incominciò a lavorare in un ristorante; sperava di essere messo in regola e diventare americano; si studiò perfino la Costituzione. Poi venne il proibizionismo: era illegale bere, produrre e vendere alcolici. Un sopruso. Lui sapeva che la libertà dell’individuo è sacra e credeva fermamente di avere il diritto di farsi il vino a casa propria, per consumarlo da solo o con i cugini. E così fece. Indagato dalla polizia, scappò in Sicilia prima di essere arrestato. Tornò in paese nudo e crudo, come l’aveva lasciato. Trovò un posto come cuciniere in una locanda. Si faceva i fatti suoi; non era interessato alle fimmine, e nemmeno al fascismo. Lo chiamavano garrusu. Venne bastonato e minacciato di morte. Un pestaggio particolarmente brutale lo traumatizzò: si nascose in casa di un nipote contadino e ci rimase. Si buscava il pane intrecciando cavagne per la ricotta, e non lasciò più il baglio, nemmeno dopo la sconfitta del fascismo. Vero era che Mussolini non c’era più, ma quelli che lo volevano morto assai potenti erano rimasti. Non era una brutta vita, la sua, il vino gli faceva compagnia. “U vinuzzu rallegra; bisogna conoscerlo e arrispittarlo: cose maravigliose capitano quando si beve, basta taliare i vasi antichi,” diceva zu’ Pepi, e si dilungava in grafiche descrizioni di feste dionisiache, riti propiziatori e storie mitologiche, abbellite dalla sua fervida immaginazione. Favorita era la storia dell’anfora trovata in cocci e incollata da lui così bene da renderla indistinguibile dalla sua gemella, esposta intatta nel museo di Palermo: l’aveva vista con i suoi occhi, dapprima aveva persino creduto che fosse la sua! Eccola, l’anfora lucana su cui il Pittore di Locri dipinse un ciclo dionisiaco: donne che si imbellettano in attesa dell’amato, giovani baldanzosi rinvigoriti dal nettare afrodisiaco, orge, ebbrezza, solidarietà e poesia in un contesto di prorompente sensualità e al tempo stesso religioso - tale e quale l’aveva descritto zu’ Pepi. Come gli antichi Greci, aveva capito che il vino ben dosato esalta l’uomo, ne sublima sensi e intelletto e lo avvicina alla divinità.
Simonetta Agnello

La resurezzione della vite
Padre e figlio salirono a bordo del piroscafo tra gli ultimi. Bastià si voltò a guardare verso il molo, scorse i parenti della moglie, emigrati in Cile una decina d’anni prima, che lo salutavano commossi. Fece appena un cenno, e poi andò a cercarsi un posto sul ponte, dove sistemare Tonino al riparo dal sole e soprattutto il sacco di tela con dentro tutte le loro speranze. Quando sciolsero gli ormeggi e il piroscafo iniziò lentamente a staccarsi dal porto, Bastià osservò l’assolata Valparaíso nel pieno dell’estate australe, e pensò: “Da noi starà nevicando, adesso… Bene, almeno sarà il freddo, a proteggere le mie povere viti superstiti”. Il Capodanno del 1900 lo trascorsero doppiando Capo Horn. Là dove il Pacifico e l’Atlantico si scontrano, in un’incessante lotta che scatena tempeste, Tonino andò spesso a rigettare fuoribordo quel poco di cibo dovuto ai passeggeri in coperta, e Bastià gli teneva la testa, raccontando per distrarlo: “Sai, c’è una leggenda: sotto questi abissi, il diavolo è rimasto incatenato, e tenta di liberarsi, per questo il mare è sempre agitato”. Poi tornava nell’angolo al riparo di una scialuppa, dove ogni tanto spruzzava con le dita un po’ d’acqua sui fagottini di pezza da cui spuntavano piccoli ceppi di radici contorte. Lì dentro c’erano i suoi preziosi “portainnesti”, avvolti in grumi di terra, quella terra sabbiosa delle Americhe, arena compatta del Sud alla fine del mondo, capace di renderli immuni alla filossera. “Buon anno, papà”, gli disse Tonino pulendosi la bocca. Intanto, i passeggeri delle cabine, “i signori”, festeggiavano stappando champagne, e Bastià sentiva ancora in bocca il sapore dell’ultima bottiglia di barbera, anzi, la “penultima”, perché ce n’era ancora una, nella sua cantina, e l’aveva tenuta per celebrare la speranza ritrovata, la resurrezione delle sue viti. “Chissà”, si chiese, e subito scacciò l’ombra dello scoramento, dicendosi: “I francesi l’hanno capito per primi, la soluzione è questa”, e accarezzò il sacco con dentro il futuro. Mar del Plata, Montevideo, Rio de Janeiro, e poi la grande traversata dell’oceano, primo scalo a Capo Verde e quindi alle Canarie, e finalmente… lo stretto di Gibilterra. Mesi di navigazione con un unico pensiero in testa: i portainnesti da tenere in vita. E Tonino da tenere a bada quando in ogni porto aveva chiesto perché tutti scendevano tranne loro… “Non posso lasciarli qui e neanche portarmeli in spalla, potrebbero morirmi”, era stata sempre la risposta di Bastià, indicando il sacco umido. Quando sbarcarono a Genova, Tonino era euforico, e Bastià cupo e teso: ora veniva il peggio, secondo lui. Le ore di treno lo preoccupavano. I portainnesti, le radici della nuova vita, avrebbero potuto subire traumi irreparabili. Il giorno dopo, erano a casa. I racconti delle meraviglie li lasciò tutti a Tonino, lui abbracciò la moglie in lacrime, strinse a sé le due bimbe piccole, e poi si precipitò nelle vigne, a tentare di compiere il miracolo… Era stato un piroscafo a vapore, a diffondere la peste. Nel 1869 da chissà quale stiva sbarcò anche un insettino pressoché invisibile, un pidocchietto, un afide. La filossera, creatura americana, che alle viti portate dai Conquistadores spagnoli non aveva potuto fare grossi danni grazie alla terra sabbiosa, in Europa divenne un flagello, provocò una carestia, corrose le radici e uccise tutti i vigneti partendo dalla Francia ed estendendosi al resto del continente. Non c’era veleno che la potesse debellare. Nel giro di pochi anni molti vitigni originali erano scomparsi per sempre. In Italia la peste della filossera era arrivata più tardi, ma con effetti altrettanto devastanti. Il vino sembrava dover diventare un ricordo del passato. Ma i francesi scoprirono la cura: il cammino a ritroso della vite. Importare radici dal Sudamerica dove le piante avevano sviluppato le difese diventando immuni alla filossera, le viti discendenti da quelle che tre o quattro secoli addietro avevano varcato l’Atlantico su caravelle e galeoni avrebbero ridato vita alle lontane progenitrici. Da lì in avanti, tutto il vino d’Europa avrebbe avuto origine dalle viti sudamericane. Funzionava. E Bastià ci provò. Passò la primavera, con la famiglia intera che scrutava le ferite degli innesti e i deboli germogli, poi in estate le poche foglie e qualche tralcio misero, e infine un altro lungo inverno, a pregare e a fissare quell’ultima bottiglia di barbera. Ma all’arrivo della nuova estate, Bastià le tirò il collo: brindarono alla resurrezione. In settembre, i grappoli non furono molti, ma sani. Il dannato pidocchietto si era rotto i denti contro i portainnesti del lontano Cile. Che strana la vita, pensava Bastià, e che strana la vite: dopo tanti secoli a dire che laggiù potevano al massimo fare un po’ d’aceto, e adesso, guarda qua, se abbiamo ripreso a vendemmiare e a pigiare l’uva sotto i piedi scalzi, lo dobbiamo agli emigranti.
Pino Cacucci

Ecco i tre racconti che hanno vinto Letti in un sorso ...

Un sorso dopo l’altro
Per quella sera avevo organizzato un cena a casa. Una cena in piedi, che non ho tante sedie e che se per caso qualcuno si aggiunge all’ultimo momento va bene lo stesso. E quando sto a lungo davanti ai fornelli, mi piace sorseggiare del vino. Mi piace il vino e mi piace l’immagine di me che bevo, dando ritmo ai gesti dei preparativi. Così alle volte mi imbambolo e penso che se fossi un uomo mi innamorerei di quella donna lì, che, nel caos della piccola cucina ingombra e disordinata, ogni tanto si ferma, pulisce le mani sul grembiule, beve un sorso di vino, un sorso piccolo, e sorride. Per primo chiamò Dario. Lui e Cristina non potevano venire, disse, per via di un impegno improvviso. Si scusavano molto. Peccato, pensai. Mi feci un sorso, un sorso piccolo, e sorrisi. Poi fu la volta di Paolo e Valeria. La baby sitter aveva l’influenza, dissero, non sappiamo a chi lasciare i bambini. Portarli ? No, finisce che non ci divertiamo noi. Peccato, pensai, che poi i bambini che fastidio danno? Mi feci un sorso, un sorso piccolo, e sorrisi. E poi Francesca e Renato. Una rogna sul lavoro, dissero. Peccato, pensai. Mi feci un sorso, un sorso piccolo, e sorrisi. E poi ancora Leyla, Marco e Giusi, Marcello, Emilio… e che è questa sera, pensai, una congiura. Mi feci un sorso, un sorso piccolo, e sorrisi. Il pentolone dell’acqua a bollire per gli spaghetti. Il sugo cozze e vongole per un esercito. Le tartine per l’antipasto. Due branzini enormi nel forno. Le patate, l’insalata, il formaggio, il tiramisù… Ci mangio per un mese, pensai, due lacrime a gonfiare gli occhi. Ma mi feci un sorso, un sorso piccolo, e sorrisi. Che, è vero, c’era poco da ridere, ma la bottiglia era quasi finita ed io ero bellissima e se fossi stata un uomo mi sarei innamorata di quella donna lì, che, tolto il grembiule, spenti i fornelli, beveva un sorso, un bel sorso, e, con il pianto in agguato, comunque sorrideva. Così è, restare col vino …
Anna Maria Volpato

Sbilenche simmetrie
“Gloria!” Non ha mai capito che mi chiamavo Lori: era un po’ duro d’orecchi e in più sono sicura che per lui - che aveva chiamato le sue figlie Maria, Angela, Teresa, Immacolata, Costanza, Annunziata e Assunta - quel nome femminile che finiva per “i” non aveva alcun senso. “Gloria, bevi un po’ di vino!” Mi tendeva la bottiglia di vetro spesso tenendola per il collo, fra il pollice e un indice storto e lucido come un taralluccio spezzato. Era stata la guerra, mi aveva raccontato mio padre. “No, grazie nonno!” Il vino puzza, non lo berrò mai! Ma questo non glielo dicevo per non fargli dispiacere, perché il vino lo faceva lui e la gente veniva fin dai paesi vicini a comprarlo nel suo bar. “Solo un goccino, Gloria!” Il bello poi è che non mi chiamavo davvero né Gloria né Lori ma, come la nonna, Addolorata, anzi Maria Dolores, ché mia madre aveva avuto la prontezza di addolcire in un tocco d’esotico quel nome dall’incerto auspicio. “Grazie no, davvero, nonno”. Sedeva sul lato lungo dell’immenso tavolo di marmo su cui aveva sfamato quattordici figli, sette maschi e sette femmine. Mangiava lentamente, aggiungendo a tutti i cibi un po’ di sale, come se insieme all’udito gli si fosse indurito con l’età anche il senso del gusto. A ora di pranzo il sole esaltava i chiaroscuri della grande cucina a piano strada. “Filippo, bevilo tu un poco di vino!” Mio fratello, che aveva occhi brillanti e un sorriso cui tutto si perdona, alzava dal piatto il suo sguardo felice. “Il vino puzza, non lo berrò mai!” Nonno si riempiva il bicchiere. “Andatevi a prendere un’aranciata nel bar, allora.” Filippo saltava giù dalla sedia e io lo seguivo mentre imboccava veloce l’uscita che conduceva, attraverso un passaggio interno, al bar che si apriva sull’altro lato del palazzo. Spingevamo guardinghi la porta sul retro. Entrando nel locale, a quell’ora deserto come una città fantasma, sentivo un brivido breve: da grande farò l’archeologa, pensavo. Dietro il bancone una scritta obliqua diceva: “Bevete vini di Ettore”. Mio fratello accostava una sedia al frigorifero, ci saliva su, sollevava il coperchio, tirava fuori una dietro l’altra due bottiglie di Fanta color arancio vivo e me le porgeva. Poi rimettevamo a posto tutto e tornavamo a tavola. Finivamo di mangiare in silenzio, impazienti di tornare a giocare. “Amore!” Per tutto il liceo mi ha chiamato Maria Dolores, pronunciandolo senza fretta, come una piccola provocazione alla prima della classe. Ha preso a chiamarmi amore senza passare per Lori, ventidue anni dopo, nel breve volgere dei nostri primi incontri trepidi e stupiti. “Amore, brindiamo?” Sul tavolo in cucina ci sono una bottiglia, il cavatappi e due calici panciuti. Prende la bottiglia, scarta la capsula azzurra, poi toglie con il cavatappi il tappo. Versa il vino nei bicchieri. Guardo le sue mani grandi, la leggera peluria bionda sul dorso, sulle nocche.
Maria Dolores Di Baia

Inchiostro
«Questo è vino nero» mi dici, «nero come il sangue». Sorridi. Prendi la cassetta di bottiglie di vetro, messe a sgocciolare dopo il lavaggio, e la porti a terra. Le bottiglie sono allineate sottosopra, appoggiate come birilli su un foglio di giornale. «Ci vuole il paginone centrale del quotidiano», racconti, «lo uso come termometro. Quando la carta cambia colore e si scurisce, le bottiglie sono pronte. Per questo uso il quotidiano». Mi chiedi di aiutarti a portare la damigiana da 54 litri sul tavolino. «Una volta ce la facevo da solo», chiarisci, «ma erano altri tempi». Al mio tre. Via. Ti sistemi su uno sgabello di legno e tiri via le bottiglie dalla cassetta. Le allinei ai tuoi piedi. Infili una cannula marrone, sostenuta da una bacchetta di bambù, nella damigiana. Poi fai scivolare un imbuto nel collo della prima bottiglia. Mi guardi e mi sorridi di nuovo. Tiri il fiato nel petto, ti gonfi come un salvagente, metti la cannula in bocca e schiocchi un risucchio deciso. Vedo il vino correre nella pompa opaca, come il medicinale di una flebo. Ti arriva in bocca, tu sfili rapido la canna e la metti nell’imbuto. Il vino si fionda nella bottiglia e la colora, la pressione è imponente come una fontana aperta al massimo. «E’ proprio nero», dici, «quest’anno è un inchiostro». Sono trentacinque anni che lo dici. Tutti gli anni, da trentacinque anni, dopo il primo fiotto, il vino è un inchiostro. Tutti gli anni, da trentacinque anni, ti metti qui su questo balconcino di tre metri, in questo appartamento di ottanta metri, al sesto piano di uno dei duecento palazzi di questo quartiere periferico, e prepari le sessanta bottiglie da tre quarti per l’inverno. La damigiana di aglianico dei costoni di Monte di Procida te la fai arrivare direttamente da lì. Poi compri sessanta bottiglie nuove nel negozio sotto casa, compri settanta (dieci in più, non si può mai sapere) tappi di plastica con la scalanatura in una ferramenta di Pozzuoli e settanta gabbiette di metallo con la chiusura a chiavetta. «Quest’anno è inchiostro», ribadisci, mentre riempi la decima bottiglia, «inchiostro vero» e fai una smorfia di piacere con la bocca rigirandoti sulla lingua il sapore del primo sorso. «Mio padre», dici, «ne aveva tre filari in un costone, nel fossato sulla panoramica. L’uva la premeva con i suoi piedi». Sai bene che non sono un bevitore di vino. Con me la bottiglia buona è sprecata. Quando prendo un sorso di vino sento la lingua che mi pizzica come punta dal cacao amaro, poi mi stringe la gola come un singhiozzo e poi scende nell’allegria e mi bacia la pancia dal di dentro. Come un solletico, lo stesso che da bambino mi faceva la tua barba ruvida sulla mia guancia, le rare volte che mi davi un bacio, per un bel voto o per un tuo, improvviso, momento di gioia, che ti fioriva negli occhi, come adesso che la ventesima bottiglia è piena e decidi di fare una pausa. Stacchi la pompa. Dici che sei stanco ma in realtà vuoi solo risentire l’emozione, e lo sbuffo di vino in bocca, del flusso che si riavvia. Resto qui a guardarti. Lo faccio sempre quando imbottigli, da trentacinque anni. Non me lo hai mai chiesto ma so che te lo aspetti. Sei felice di avermi lì, a guardare quel gioco meccanico e antico. «Questo vino è raro», dici, «raro e nero, come il sangue». E sorridi ancora di quest’idea corposa e densa del sangue. Il sangue nero di vena, mica quello slavato delle feritine. Potresti comprare le sessanta bottiglie già belle e imbottigliate. E invece vuoi battere col martelletto sul tappo e poi vuoi chiudere le gabbiette con le tue mani fino a piagarti le dita. Guardandoti, in questo rito dell’imbottigliamento, capisco il tempo, e che cos’è la memoria, e dove si depositano i ricordi, e dove ti conserverò, papà, quando non ci sarai più.
Antonio Menna

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