Anche l’Italia, dove la qualità lo permette, deve iniziare a puntare in modo convito sulle vecchie annate, soprattutto costruendo “scorte” significative dal punto di vista della qualità e dei volumi, al contrario di quanto avvenuto fino ad oggi, eccezion fatta per alcuni casi virtuosi, ma spesso isolati. Per raccontare una storia, costruire un brand, e anche perché una parte del mercato lo chiede.
Quando si parla di mercato di massa, e di vini dal grande rapporto qualità/prezzo, adatti ad essere bevuti relativamente da giovani, l’Italia è probabilmente il punto di riferimento mondiale. Ma se si guarda ai vini da grande invecchiamento e alle vecchie annate, che poi sono quelle che alimentano il “sogno” legato ai vini top, la differenza con il competitor più importante in questo senso, ovvero la Francia, è evidente. Basta vedere i lotti delle grandi aste internazionali, dove facilmente si incontrano annate precedenti al 1965-70 di grandi Bordeaux, Borgogna e talvolta Champagne, che puntualmente spuntano le migliori quotazioni. Cosa che, per tanti motivi, succede rarissimamente ai vini italiani, eccezion fatta per un pugno di etichette di Barolo e Brunello di Montalcino, o, a partire dagli anni ’70, dei Supertuscan più importanti. Ma senza andare così indietro, in tanti territori celebri e con una lunga storia vinicola alle spalle, anche a causa delle piccole dimensioni e volumi di produzione di molte cantine, anche blasonate, spesso si fatica a trovare annate degli anni Novanta o 2000. E questo, a detta di molti, dalla critica italiana e internazionale ad alcuni produttori più illuminati in questo senso, non tanto perché non ci siano vini italiani con grandi capacità di invecchiamento, ma perché culturalmente, la stragrande maggioranza dei produttori ha sempre pensato a vendere il più possibile, magari ad esaurire la produzione, trascurando di fare una scorta di cantina significativa, anche nei numeri di vecchie annate, che non solo possono diventare, come accade, pezzi da collezione sul mercato, che aiutano a costruire il brand e il mito di un grande vino, ma anche un “database” storico della produzione dell’azienda stessa.
Una lacuna che bisogna iniziare a colmare. Anche perché, le potenzialità, nel vigneto-Italia, ci sono, come dimostrano casi ad oggi, spesso, isolati, e come testimonia, tra l’altro, l’allargamento a tanti territori italiani, nel 2013 della “Vintage Chart” di The “Wine Advocate” una sorta di cronistoria aggiornata ogni anno, con la serie storica delle valutazioni delle annate dei territori più importanti del mondo, dove ai vini e ai territori storicamente più importanti di Toscana (Brunello di Montalcino, Chianti Classico, Maremma e Bolgheri) e Piemonte (Barolo e Barbaresco), si sono affiancate, per la prima volta, anche la Campania, con il Taurasi, il Friuli Venezia Giulia, con i bianchi del Collio, la Sicilia, con l’Etna, il Veneto, con l’Amarone della Valpolicella, e il Trentino Alto Adige, con i vini bianchi. E anche il mercato, in qualche modo, dà segnali incoraggianti in questo senso, come accade in Borgogna dove, anche per le ultime scarse vendemmie 2012-2013, secondo molti wine merchant, in tanti stanno puntando su annate vecchie, più o meno “anziane”, a partire dal 1999 per arrivare al 2011, vendemmia, per altro, relativamente giovane, le cui quotazioni in alcuni casi, come quello del Méo Camuzet’s 2011 Vosne Romanée Les Chaumes, in un mese, secondo il Liv-Ex, sono cresciute del 12% ...
“Quello di costruire una “biblioteca” di vecchie annata è quasi un appello che faccio ai produttori italiani - spiega a WineNews.tv Monica Larner, firma dall’Italia per “The Wine Advocate” - perché è fondamentale raccontare anche all’estero questa capacita del vostro Paese di produrre vini di grande longevità, che esiste, ma che di fatto non è raccontata. È importantissimo, e capisco che tante cantine sono piccole, ma anche queste possono riuscire a tenere da parte 2-300 bottiglie ad annata. Spesso è difficile trovare vecchi millesimi in Italia, anche ora che le abbiamo cercate, per esempio, per i tour che andremo a fare nel mondo, e anche in Asia”. Eppure, sarebbero un formidabile strumento di comunicazione e costruzione del brand. I francesi insegnano.
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