Un “Rinascimento”, o meglio una rivoluzione, quella del vino italiano, nata in maniera quasi repentina, che in poche decadi ha visto cambiare tutto, perchè c’è stato il coraggio di mettere tutto in discussione, in primis l’orientamento dalla quantità alla qualità, e che ora è davanti ad un nuovo step, dove l’obiettivo di tutti deve essere di raccontare quanto di buono e di eccellente ha fatto l’Italia enoica. Con la coscienza che, come in ogni campo, l’unica vera costante è il cambiamento. É il messaggio del convegno, nel Simposio Internazionale Masters of Wine, che ha visto sul palco protagonisti importanti del panorama del vino italiano, da Piero Antinori, alla guida di uno dei più importanti e storici marchi dell’enologia del Belpaese, ad Alberto Tasca, di Tasca d’Almerita, tra i protagonisti del rilancio dell’enologia siciliana, da Gaia Gaja, figlia di quell’Angelo Gaja che ha fatto crescere uno dei brand più prestigiosi del panorama enoico tricolore, a Maurizio Zanella, presidente del Consorzio del Franciacorta (e di una delle griffe del territorio, Ca’ del Bosco), denominazione nata proprio insieme a questa rivoluzione enologica.
“Io ho vissuto tutta la pre-rivoluzione e la rivoluzione del vino italiano - ha detto Piero Antinori - e ora sto vivendo il “post”. È stata davvero una rivoluzione: per dirlo in poche parole, per tanti secoli, l’industria vinicola in Italia si è concentrata sulla quantità, tanto vino e a basso prezzo, salvo poche eccezioni, e anche i consumatori volevano questo. La domanda al ristorante era solo “bianco o rosso“, e anche l’esportazione era così, l’Italia era “pizza, fiasco e mandolino”.
Poi, per tanti motivi - sottolinea Antinori - ci sono stati cambiamenti profondi in un tempo breve, e adesso siamo in un mondo totalmente diverso. C’è voluto poco perché cambiasse tanto: si è passati ad una viticoltura più scientifica, con più tecnologia e più scienza, con più informazioni e conoscenze nella vinificazione. È stato un periodo di grande emozioni ed entusiasmo - ha aggiunto Antinori - un periodo avventuroso e di ricerca, di visioni per il futuro. Ci siamo resi conto di avere un potenziale enorme in Italia, di cui non c’era coscienza prima. Sono stato fortunato in questo periodo dove ci sono stati tutti questi cambiamenti. Abbiamo fatto tanti cambiamenti: la Germania, per esempio, che è un mercato fondamentale, era dominata da francesi, i nostri vini andavano al massimo in bottiglioni da due litri, e non era importati da specialisti, ma da chi portava nel Paese anche pasta, pomodoro e prodotti italiani in generale.
Poi l’immagine dei vini italiani è migliorata in tutto il mondo, oggi godiamo del rispetto che si merita. Oggi abbiamo nuovi obiettivi e ambizioni: ci sono molte cose che potremmo fare per migliorare, a partire dal fatto che in Italia abbiamo ancora il 20% di vigneti non efficienti, non orientati al mercato, che dobbiamo indirizzare a produzioni di alta qualità. Una sfida che può essere facilitata anche dai fondi per gli investimenti Che ci concedere l’Europa. Altra cosa che potremmo fare è impegnarci a comunicare meglio la bellezza e la qualità delle nostre varietà di uve e di vini, e le loro potenzialità. Ci sono tante Regioni che non sono conosciute come meritano fuori dall’Italia, come la Puglia, che ha tante varietà di uva e di vino straordinarie, ma anche tanti tesori del cibo, dell’arte e dell’architettura, e andrebbe valorizzata di più, come successo per la Sicilia”.
Sicilia che è stata una delle Regioni-simbolo del Rinascimento enologico dell’Italia del vino, come ha spiegato Alberto Tasca: “c’è chi sostiene che l’Italia è un paese troppo complicato, con troppa storie, culture e tradizioni. Ed è vero anche nel vino: abbiamo centinaia di denominazioni, molte delle quali non si conoscono e non stanno sul mercato. Nel 1996, quando ho iniziato a lavorare, non c’era grande reputazione dei vini siciliani, il più conosciuto era il Marsala, il mercato era fatto di vino sfuso, solo il 5% era imbottigliato, era una situazione difficile. Abbiamo capito che non potevamo andare avanti così, anche se cambiare il mercato, cambiare la visione della nostra viticoltura era difficile. Ma ce l’abbiamo fatta. Abbiamo incrociato varietà autoctone con altre internazionali, abbiamo conquistato mercato, anche se c’era ancora confusione, con vini simbolo come il Nero d’Avola, per esempio, che si trovavano e si trovano di qualità completamente diverse. Ma questo - ha detto Tasca - ha permesso alle persone di capire che in Sicilia c’è tanta varietà di territori, di paesaggi che vanno dal mare alla montagna. E poi abbiamo messo insieme le forze, per esempio costituendo AssoVini, per fare sperimentazione ed andare avanti in questo cambiamento. Dobbiamo continuare a lavorare insieme, oggi c’è una nuova generazione di giovani creativi che hanno energie di cui abbiamo bisogno. È difficile vedere chiaramente quale sarà il futuro quando ci sono tante ide, ci vuole tempo. Ma siamo orgogliosi di far parte di questo progetto di Sicilia, che è uno specchio del made in Italy. Noi siamo interessati al mercato ma non in modo speculativo, dobbiamo guardare alla sostenibilità dei nostri progetti, per lasciare alla prossima generazione un mondo migliore. Dobbiamo lanciare messaggi molto semplici ed efficaci, ma non è facile. Persone come Piero Antinori e Angelo Gaja ci hanno insegnato come si fa a portare il nostro vino nel mondo. Ora noi dobbiamo continuare”.
E se la Sicilia è senza dubbio una delle Regioni che è cresciuta e cambiata di più, negli ultimi decenni, anche il Piemonte, uno dei territorio più importanti del vino mondiale, ha vissuto profondi cambiamenti. “Ma per spiegarli - spiega Gaia Gaja, figlia di Angelo, affianco del quale guida uno dei brand più pregiati del Belpaese - è necessario fare un confronto con quanto successo in Toscana.
Terra dove c’è sempre stata l’abitudine a mescolare il Sangiovese con altre varietà, canaiolo, colorino, trebbiano. Per cui quanto il Trebbiamo è stato tolto dal Sangiovese, per esempio, il vino è subito cambiato e migliorato, il mercato ha percepito subito il cambiamento, ha interpretato il prodotto come qualcosa di maggiore qualità, questo ha spinto tutti a migliorare.
In Piemonte questo non è successo, si era abituati a fare vini da una sola varietà, come tutti quelli fatti con il Nebbiolo per esempio, e si fa ancora così. Quindi la percezione del miglioramento della qualità del vino è stata più lenta, c’è voluto tempo, abbiamo dovuto fare altri tipi di investimenti. Negli anni 70, per esempio, c’era tanta variabilità nella qualità anche dentro lo stesso vigneto, c’è stato bisogno di fare tanta selezione, di ridurre le quantità, e poi abbiamo dovuto cambiare anche le cose in cantina, seguire meglio le fermentazioni per evitare interruzioni o rifermentazioni in bottiglia, e così via. Il cambiamento in Piemonte è stata una messa in discussione di tutti i metodi di vinificazione, di tecnologia da usare, e questo ci ha aiutato a migliorare. La modernità ha portato chiarezza, pulizia, vini che esprimono meglio varietà ed origine, chiaramente è stato un processo doloroso. Ma è stato fondamentale il confronto con altri produttori, perchè prima niente era in discussione. L’integrazione tra tradizione e modernità è stata difficile, ma poi ha trovato un punto di equilibrio, e oggi tutto il Piemonte può offrire altissima qualità. Ma il cambiamento non si ferma - aggiunge Gaia Gaja - ora per esempio c’è la tendenza del bio, dell’organico, è qualcosa di nuovo che ha fatto partire dibattito nel mondo della produzione. E anche qui c’è conflitto, di sono discussioni che a volte superano anche il limite, ma in ogni caso il dibattito è positivo, allarga i confini. Succede in tutta Italia, non solo in Piemonte. È un paese che ha risorse pazzesche, e oggi non si può che essere ottimisti per il vino italiano, abbiamo solo bisogno di raccontare meglio al mondo le nostre tante risorse”.
Ma se quelle di Antinori, Tasca e Gaja sono storie di territori di tradizione vinicola, come Toscana, Sicilia e Piemonte, c’è anche chi, come territorio è nato proprio negli anni di quel “rinascimento”.
“La Franciacorta - spiega Maurizio Zanella, presidente del Consorzio del Franciacorta e patron di una delle griffe del territorio, Ca’ del Bosco - non ha una lunga tradizione, non ha dovuto vivere il cambiamento da una viticoltura di quantità ad una di qualità. Quando abbiamo iniziato, 50 anni fa, puntare sulla qualità era già la strada segnata, non c’era nulla da trasformare. Naturalmente ci manca questa tradizione, abbiamo bisogno di anni per costruirla, perché è necessaria per raggiungere il top. Abbiamo soltanto 45-50 vendemmie alle spalle, ma stiamo andando in questa direzione ed i risultati sono buoni”.
Copyright © 2000/2025
Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit
Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2025