Il futuro e la crescita del vino italiano sono legati a doppio filo all’export, stabilmente sopra i 5 miliardi di euro l’anno, grazie principalmente a tre mercati, Germania, Usa e Gran Bretagna, con la Cina nel mirino ed una galassia di Paesi meno strategici, ma con grandi potenzialità. Come l’Australia, Paese produttore che vive di export, ma anche mercato maturo, fatto di consumatori sempre più consapevoli, che nelle produzioni di Francia ed Italia, nonostante una certa marginalità nelle importazioni dal Belpaese (appena 17 milioni nel 2013), ha un termine di paragone quasi irraggiungibile. Come racconta a WineNews uno dei protagonisti del marketing del vino in Australia, Richard Morgan, sales marketing manager di iFavine, con un passato tra cinema (ha studiato al National Institute of Dramatic Art con Cate Blanchett) ed import enoico: “l’Australia, ormai, è un mercato maturo, ed i consumi di fine wines non riguardano tanto le produzioni domestiche quanto i vini di Francia ed Italia”. E negli ultimi anni le cose stanno cambiando, perché “i vini del Belpaese - spiega Morgan - hanno un livello di piacevolezza decisamente maggiore, che ben si presta alla nostra cucina, che è una fusione tra quella europea e quella orientale. La tendenza è quella di premiare sempre più i vini italiani, a scapito di quelli francesi”.
Proprio la cucina, ambasciatrice del made in Italy nel mondo, capace di veicolare i consumi di vino negli Stati Uniti per decenni, non sembra avere troppa prese dall’altra parte del mondo. “Quella che arriva in Australia - racconta Richard Morgan - non è tanto la cucina di livello italiana, quanto quella delle seconde e terze generazioni di migranti, che di italiano ha più la suggestione che la qualità raggiunta negli ultimi decenni”. Eppure, il vino continua a crescere, “perché a differenza dei francesi, che puntano tutto su acidità e complessità, tanti vini italiani hanno nella semplicità ed in un residuo zuccherino maggiore la loro forza: incontrano alla perfezione la cucina australiana, di forte matrice orientale”.
Se proprio bisogna trovare un limite, è nella comunicazione, troppo complessa, legata inevitabilmente alla ricchezza di vitigni e denominazioni: “i consumatori australiani non hanno bisogno di complicazioni eccessive, sanno giudicare un vino ed apprezzare la ricchezza varietale dell’Italia. Un Chianti, ad esempio, che sia Classico, Riserva o Rufina, verrà giudicato per ciò che è, e spesso vince la semplicità”. E che i vini ed i vitigni italiani non siano affatto astrusi ai wine lover d’Australia lo dimostra il fatto che “sempre più produttori stanno piantando varietà autoctone del Belpaese, dal Sangiovese al Nebbiolo, tra i più apprezzati dai consumatori, insieme al Montepulciano d’Abruzzo, al Pinot Grigio e, ovviamente, al Prosecco (Glera)”.
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