La ricerca della qualità, gli investimenti in sostenibilità, la storia ed il brand familiare come valore aggiunto: quelli che sono i punti di forza della stragrande maggioranza delle aziende del vino italiano, alla resa dei conti, non “rendono” in termini finanziari, creando una vera e propria dicotomia, da cui è difficile, se non impossibile, uscire, come racconta a WineNews il presidente dell’Istituto Grandi Marchi Piero Mastroberardino, produttore e docente di Economia e Gestione delle Imprese. “Il mondo del vino ha delle criticità, ma il paradosso vuole che se si vanno ad analizzare i conti capiremo che produce molto più flusso di cassa un’azienda elastica, che decide di approvvigionarsi sul mercato delle uve, senza fare investimenti agricoli, che non un’azienda che fa il percorso della cura maniacale del dettaglio all’interno della propria vigna. Nell’immaginario collettivo - spiega Mastroberardino - la seconda è un’azienda di qualità, la prima molto meno, ma nell’ottica finanziaria la prima è un’azienda meritevole, la seconda molto meno: il paradosso è che nella retorica o nella poetica del vino bisogna fare uno sforzo per recuperare anche un po’ di sostenibilità economica. È una riflessione non semplicissima, che richiede un approfondimento, credo che non ci sia una ricetta: se la famiglia è forte ed ha all’interno delle risorse attraverso le quali continuare ad alimentare questo processo di sviluppo, con la propria dotazione, è chiaro che può esplorare delle soluzioni che esistono per perpetrare questa condizione familiare; ma se la famiglia ha bisogno di un “inoculo” di risorse esterne - continua il produttore irpino alla guida della griffe Mastroberardino - sia dal punto di vista manageriale sia dal punto di vista finanziario, o patrimoniale, c’è una quantità di strumenti alternativi da mettere a frutto, tenendo conto del mantenimento all’interno dell’impresa dei valori che sono stati fino ad oggi riconosciuti dal mercato”.
Del resto, quello del vino è un settore caratterizzato “da forti investimenti agricoli, rigidi perché proiettati nel lunghissimo termine, e quindi poco agevolmente liquidabili, e la loro rigidità fa incrementare il livello di break even delle aziende, quindi nel momento in cui non si lavora anche sulla dimensione si rischia di penalizzare lo sforzo dell’imprenditore di fare in modo che i suoi conti alla fine siano remunerativi”. Proprio quello della dimensione aziendale, nell’analisi di Piero Mastroberardino è un tema centrale, perché “spesso il piccolo imprenditore non se ne accorge, scegliendo di non remunerare sé stesso, in maniera spesso inconsapevole, ma se mettesse tutti gli oneri figurativi in conto, probabilmente, non si reggerebbe in piedi. Di queste aziende, di dimensioni molto piccole, nella nostra filiera ce ne sono tantissime, quindi una riflessione sul tema della dimensione e del valore va fatto. Non significa gigantismo, ma nemmeno nanismo, piuttosto una dimensione sufficiente a consentire una buona distribuzione dei costi di struttura, mantenendo all’interno la componente agricola, che oggi rimane strategica, perché siamo aziende di filiera, consentirebbe di guardare al futuro: si creano margini che possono essere reinvestiti in una prospettiva di maggiore sviluppo, si creano delle opportunità di potenziamento delle strutture organizzative - spiega Mastroberardino - e questo significa management, che a sua volta vuol dire riduzione del rischio di avere eccessi di familiarità nelle fasi gestionali, che a sua volta vuol dire che l’azienda è gestita con una buona dose di razionalità. Ci sono tante implicazioni, che consigliano di fare una riflessione su quale sia la dimensione ideale per ciascuna azienda in ciascun contesto territoriale”.
Questo, ovviamente, non vuol dire mettere alla berlina il concetto di azienda familiare, che del resto calza a pennello per la stragrande maggioranza dei produttori, ma semplicemente mettere sulla bilancia aspetti positivi ed aspetti negativi. “Il brand familiare - riprende il vignaiolo e professore - è una grandissima risorsa, perché fa appeal sul mercato (sappiamo che il cliente vuole stingere la mano al produttore) ma è anche costrittivo, perché una volta che è stato costruito sull’immagine familiare, nel momento in cui si sceglie una strada alternativa, che possa diminuire il valore di questo brand, si rischia di impattare notevolmente sul valore dell’azienda intera, perché il brand, sinteticamente, è quel valore immateriale che costituisce il differenziale tra un valore di libro di un’azienda e quello che un eventuale acquirente è disposto a pagare, quindi l’appeal di quell’azienda in ottica di mercato. E allora è chiaro che fare una scelta - continua Piero Mastroberardino - è estremamente delicato, in particolare nel nostro settore, perché c’è una fortissima personalizzazione delle imprese con le persone che di generazione in generazione tracciano la strada, hanno la visione del futuro. Questo è, ancora una volta, un punto di forza delle nostre aziende, ma diventa una minaccia se l’azienda ha bisogno di innescare un processo di crescita ma non ha risorse, magari per l’endemica sotto capitalizzazione delle aziende italiane e se ha delle opportunità di mercato da alimentare deve innescare dei processi di crescita sui mercati e per farlo ha bisogno di attingere a nuove risorse: o va in banca a farsi finanziare, mettendo il capitale a garanzia, oppure deve scegliere strade alternative, ma l’apertura del capitale comporta una riflessione attenta sui temi del valore familiare della marca”.
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