Se c’è un momento dell’anno in cui la tradizione culinaria resiste al passare del tempo, in tutta la sua ricchezza ed in tutte le sue diversità, quello è il Natale. Festa religiosa e familiare, come la definiva Mario Soldati nel documentario Rai “Il pranzo di Natale - cibi genuini” del 1958, oggi diventata qualcos’altro, specchio di una società fondata su valori ben diversi da quelli di sessant’anni fa, ma comunque momento di convivio e gioia, almeno nelle intenzioni. L’opera di Soldati, perché tale si può definire, è invece un breve viaggio nelle tradizioni gastronomiche del Belpaese di allora, in una Roma nel pieno del boom economico ma con il ricordo della Seconda Guerra Mondiale ancora intatto. La narrazione prende le mosse dalla definizione stessa del Pranzo di Natale, che in alcuni casi è la cena della Vigilia, e quindi inevitabilmente di magro, in altri diventa un cenone da gustare dopo la messa di mezzanotte, ed allora diventa di grasso, ma il fil rouge è quello di una ricerca quasi spasmodica delle radici, dei legami e delle tradizioni, in una grande città dove, ieri ancora più di oggi, si incontravano persone da ogni angolo d’Italia, migrate dal Nord e dal Sud, dalle città e dalle campagne.
Il risultato è una storia del Paese attraverso la cucina, che parte da Luzzano, in provincia di Reggio Emilia, da dove arriva la famiglia Zavattini, che in tavola porta i tortelli di zucca mantovana, il cefalo fritto del Po e la Spongata, tutto innaffiato dal Lambrusco di Sorbara, perché il vino ha da sempre, e forse prima più di ora, un ruolo centrale. Mario Soldati ci porta quindi dal calzolaio di Primo Carnera e di quelli che oggi chiameremmo vip, Angelo Gatto, arrivato da Pachino negli anni Dieci, e che a Roma ritrova le proprie radici nel pastizzo, una torta salata tra due dischi di pasta ripiena di verdure, salsiccia e formaggio, ma anche in una ricca carrellata di dolci, dalla gnoccata alla mostarda col mosto. Dal canavese, e quindi dal Piemonte, raccontato da Soldati come e meglio di un insegnate di geografia, arriva Lorenzo Bergardi, che nel lontano 1958 festeggiava il Natale come la stragrande maggioranza dei piemontesi lo festeggiano ancora oggi: agnolotti, magari con il tartufo bianco di Alba, già allora eccellenza per veri gourmet (“si parla della televisione a colori, ma per il futuro ci sarebbe bisogno della televisione olfattiva”, dice un profetico Soldati) e cappone, con il Passito di Caluso da Erbaluce considerato “meglio del Porto e dello Sherry di Jerez”.
La Baronessa Aurelia Ricci Michetti, Mestolo d’Oro della cucina italiana, porta quindi i telespettatori nella ricca cucina abruzzese, dove a tavola è un trionfo di opulenza, simbolo dell’Italia che, forse per la prima volta, non doveva più fare i conti con la fame: crustoli, spaghetti con le alici, broccoletti in padella, lumache, baccalà al pomodoro, fagioli all’olio, capitone allo spiedo, insalata, noci, castagne e torrone, di tutto, ma rigorosamente di magro. Infine, l’ultima tappa è nella trattoria toscana di Mario, alla scoperta di quella cucina che Soldati definisce “compendio della tradizione culinaria italiana”, in cui, in una considerazione assolutamente attuale, il prodotto conta più della sua trasformazione, In questo senso, i fegatelli di maiale diventano un “cibo logico”, e la conserva di more una “risposta definitiva ai denigratori dei piaceri della mensa”. Perché ieri come oggi, almeno nella visione alta, a tratti altissima, di Mario Soldati, la cucina era qualcosa di estremamente serio, capace di offrire una chiave di lettura della realtà, e della diversità, impossibile per qualsiasi altro mondo.
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