Al netto di convinzioni e visioni diverse, e tutte legittime, c’è un dato di fatto: nel mondo, in ogni ambito, la ricerca va avanti, nuove conoscenze e tecnologie vengono messe in campo, e, in alcune aree del mondo, sono già realtà nei processi produttivi. Anche per questo, il grande dibattito sull’avanzata delle genetica nel settore del vino, appoggiata da alcuni e vista come strumento principe per la lotta alle malattie e al cambiamento climatico, e avversata e vista come un rischio da altri, ma tema sempre più sotto i riflettori in questi ultimi mesi, è sempre più un dibattito anche sul futuro del vino italiano e sulla sua competitività.
Ma è una questione assai articolata, tra tecniche genetiche diverse, normative europee e italiane, e visioni diverse, sulle priorità da affrontare, anche all’interno della stessa comunità scientifica “pro genetica”, per semplificare. Come emerso nel dibattito sui “nuovi modelli di viticoltura alla luce delle moderne tecnologie genetiche e delle politiche europee”, andato in scena oggi, in forma di webinar, dall’Alleanza delle Cooperative, con autorità in materia di ricerca genetica applicata alla vitivinicoltura come i professori Attilio Scienza dell’Università di Milano, Michele Morgante dell’Università di Udine e Mario Pezzotti della Fondazione Edmund Mach di San Michele Adige, oltra a Paolo De Castro, eurodeputato e membro della Commissione per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale del Parlamento Europeo, e Stefano Vaccari, direttore Crea. Chiamati a fare luce su un tema fondamentale perchè, come ricordato da Luca Rigotti, alla guida del Settore Vino dell’Alleanza delle Cooperative, ma anche del Copa-Cogeca e presidente di Mezzacorona (una delle migliori cooperative vinicole italiane ed internazionali, ndr), “non possiamo sottrarci all’avanzamento tecnologico del settore vitivinicolo. Anche alla luce dei nuovi dettami della “Farm to Gork” ed al ruolo che ha nella società e per la sostenibilità ambientale. Dobbiamo mettere a sistema nel più breve tempo possibile tecnologia e sistema normativo per garantire competitività al vino italiano, per centrare gli obiettivi fissati dalle politiche Ue, ma anche per lavorare sempre più con etica, e garantire sempre più la salubrità sia dei prodotti che dei territori in cui lavoriamo”.
Il tutto, per l’Italia, si muove, ovviamente, nel quadro europeo. E proprio dall’Europa, è arrivato, a fine anno, il via libera all’utilizzo dei cosiddetti “vitigni resistenti” autorizzati anche nei vini Dop e Igp. Una rivoluzione, per molti, anche se sarà tutt’altro che rapida e dovrà, comunque, passare al vaglio dei disciplinari, e quindi dei Consorzi, che sono espressione dei produttori. A tracciare lo stato dell’arte, al livello europeo, è stato Paolo de Castro: “la nuova Pac, dall’1 gennaio 2023 porterà la novità importante dei Piani Strategici, con la flessibilità data agli Stati Membri di costruire piani nazionali che li trasformino in azioni concrete. Per il vino, una delle novità rilevanti sarà il rafforzamento del ruolo dei Consorzi all’interno dell’Ocm, insieme a nuovi strumenti per la gestione del rischio e ad altre novità. Che, in generale - spiega De Castro - combinano la dimensione ambientale, rafforzata dagli eco-schemi, con quella economica e con l’obiettivo di rendere le nostre imprese più forti sul mercato. Inoltre, la Pac (Politica Agricola Comune) è vincolata al rispetto dei diritti dei lavoratori. Le risorse ci sono, più o meno simili alla precedente programmazione, ma saranno distribuite in maniera diversa: ci sarà chi perde e chi guadagna, e questo renderà l’applicazione della nuova Pac molto articolata. Tutto questo sarà graduale fino al 2026.
Ma uno degli aspetti più importanti è che in virtù della strategia “Farm to Fork”, si sottolinea la spinta verso la riduzione della chimica. Ed in questo senso, uno degli strumenti più interessanti è quello delle Tea, le Tecniche di Evoluzione Assistita, che non sono Ogm, e stanno dando risultati straordinari proprio nel campo della riduzione della chimica mettendo in campo varietà resistenti a malattie come peronospora e oidio. Ci aspettiamo che la Commissaria alla Salute Stella Kyriakides possa chiarire la differenza tra i vecchi Ogm (modifiche genetiche tra specie) rispetto a queste tecnologie di miglioramento genetico. Fondamentale in questo senso - sottolinea De Castro - lo studio della Commissione Digital Tech, che ha sottolineato differenza tra Ogm e Tea, che ha sgombrato il campo dalle ambiguità, creando le condizioni affinché la Commissione possa chiarire a livello giuridico che queste sono tecnologie di miglioramento “tradizionale”. Come Parlamento faremo di tutto per accelerare, è uno strumento concreto per raggiungere l’obiettivo della riduzione della chimica. Le malattie ci sono, dobbiamo fornire ai nostri agricoltori gli strumenti per combatterle: l’agricoltura di precisione ma anche, appunto, le tecnologie di miglioramento genetico. Entro il 2022 aspettiamo nuova regolamentazione comunitaria, ma occorre lavorare per sottolineare quanto sia importante ribadire questa differenza con gli Ogm, che hanno una legislazione ad hoc e sono vietati in ben 16 Paesi Ue”. Un percorso normativo tutt’altro che semplice, e che però è importante quanto l’aspetto scientifico.
“Io credo che quando si affronta il tema della genetica - ha spiegato il professor Attilio Scienza (Università di Milano) - le parole chiave siano “territorio” e “resistenza”. Il “Green Deal” Europeo ci dice che da qui al 2050 in agricoltura va ridotto del -50% l’utilizzo di pesticidi chimici e di antibiotici, del -20% quello dei fertilizzati, che il 25% della superficie dovrà essere a biologico. E allora la domanda è: andiamo avanti con la chimica o con il miglioramento genetico? Storicamente i viticoltori italiani ed europei hanno poca propensione all’innovazione genetica. Varietà che derivano da incroci come Muller Thurgau, Manzoni Bianco, Albarossa, Merlese, Rebo e così via non arrivano a 2000 ettari sui 660.000 del vigneto italiano. Eppure, ci sono stati grandi progressi, e in Italia, per esempio, nel 2020 sono state registrare 20 varietà dei cosiddetti vitigni Piwi. E le ricerche di Università come quella di Udine o quella tedesca di Geisenheim, hanno mostrato che i vini da vitigni restistenti, così come quelli da varietà tradizionali da vitis vinifera, sono fortemente influenzati dall’annata, hanno una buona stabilità metabolica e così via. Oggi in Italia tante regioni nel Nord Italia sperimentano, ma ci saranno si e no 1.050 ettari, di cui 700 curati dall’Università di Udine con vitigni resistenti. Questo anche per il quadro normativo. Perchè anche se l’Unione Europea ha dato il via libera per il loro utilizzo nei vini Dop e Igp, in Italia molti vitigni ottenuti da incroci, soprattutto se si tratta di ibridi interspecifici tra vitis vinifera e specie americane o asiatiche, sono registrati con limitazioni a margine, e quindi non utilizzabili per i vini a denominazione. In Francia, per esempio, alcune varietà resistenti come Artaba, Vidoc, Floreal e Voltis, sono già utilizzabili per produrre Champagne e Bordeaux. La ricerca francese sta spingendo molto, è una priorità per la filiera, l’obiettivo è fare della Francia il punto di riferimento per la produzione di vino a basso impatto ambientale. I francesi hanno un progetto nazionale per valorizzare le loro varietà autoctone con i vitigni resistenti, noi no, se non apriamo una ricerca diffusa, anche se si sta facendo molto. L’obiettivo fondamentale - spiega ancora Scienza - è fare vini di assoluta qualità, coniugare tradizione e innovazioni, permettere una riduzione tangibile dei trattamenti (e dei costi) e consentire la realizzazione di vigneti ad alta sostenibilità ambientale. Ma in Italia, come sempre, abbiamo una lentezza burocratica che ci penalizza. E alcune cose si potrebbero fare rapidamente. Sarebbe importante, per esempio, aprire all’utilizzo dei vitigni resistenti per i vini Igt, con la possibilità di rivendicare il vitigno in etichetta. Così come introdurre la mutualità di autorizzazione alla coltivazione tra Regioni confinanti. E poi c’è tutto i tema della comunicazione, perchè va conquistato il consumatore. E qui - spiega Scienza - bisogna continuare a parlare di terroir, di vitigni autoctoni ma in termini moderni, svecchiando il concetto di autoctono, e considerando tale un vitigno che in un determinato luogo esprime in un luogo il meglio delle sue potenzialità genetiche: pensiamo al Sangiovese che è nato al Sud ma il meglio lo sviluppa in Toscana. E va spiegato bene ai consumatori il ruolo della genetica per la sostenibilità, e anche nei confronti de cambiamento climatico. Ancora, guardando ai nuovi vitigni resistenti, serve una nuova enologia varietale. E poi andrebbe sviluppato anche un approfondimento sulla nutraceutica, ovvero su quello che possono portare all’alimentazione le nuove varietà resistenti”.
Ma, se da un lato, la creazione di nuove varietà di uva da vino è una strada per il futuro, un’altra via, non in opposizione, ma parallela, è quella del miglioramento delle varietà resistenti, tanto più importante quando si parla di vitigni storici che sono alla base stessa di denominazioni importanti come lo è il Nebbiolo per il Barolo o il Sangiovese per il Brunello di Montalcino, ha spiegato il professor Michele Morgante dell’Università di Udine. “Senza dubbio, l’innovazione genetica è fondamentale per ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura. Le varietà di vite - ha detto Morgante - hanno per lo più 100/200 anni di età, e lo sfruttamento della variabilità genetica si è limitato a utilizzare la selezione clonale all’interno delle stesse varietà. Delle nuove varietà resistenti sono già state brevettate, sono disponibili, ma nel mondo del vino bisogna superare quel concetto di “purezza” della razza che richiama periodi cupi della nostra storia. Inoltre, abbiamo caratterizzato queste varietà analizzando il loro genoma: il Dna di vitis vinifera oggi è oltre il 90% del totale, sono varietà che sono ormai quasi vitis vinifera, guardando ai 19 cromosomi che compongono il cromosoma della vite. Detto questo, è difficile pensare che oggi chi fa Barolo o Brunello possa sostituire Nebbiolo e Sangiovese, vanno trovate soluzioni sostenibili, e anche qui si può usare la genomica, si possono modificare in modo mirato i geni singoli responsabili di una resistenza alla malattia, per esempio. È una tecnologia che consente di evolvere la tradizione”. Come noto, sono due le tecnologie possibili, ha aggunto Morgante, ovvero “la cisgnesi, intervento di ingegneria genetica in cui inserisco un gene dalla stessa specie o da una specie compatibile, quindi analoga alla modificazione che farei per incrocio tradizionale, me in tempo molto più brevi. L’altra è il “Genoma Editing”, una sorta di “forbici molecolari” che fanno tagliare il Dna per ottenere la mutazione genetica che voglio ottenere, e che sarà indistinguibile da mutazioni spontanee o indotte. Per esempio, inattivando un gene “di suscettibilità” che il patogeno utilizza per penetrare nelle cellule della pianta, rendono impossibile al patogeno il poter contagiare la pianta. Sono tutte cose fattibili - ha aggiunto Morgante - ma non basta la ricerca, e neanche un sistema che consente di passare dalla ricerca alla produzione. Serve un set di regole adeguato e aggiornato agli sviluppi tecnologici e attuali, e poi l’accettazione da parte del consumatore. Ci sono problemi normativi: queste tecnologie sono ancora trattate come transgnenesi, nonostante l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare abbia già detto più volte che i prodotti ottenuti così sono molto simili ai prodotti ottenuti da miglioramento genetico tradizionale. Poi, in ogni caso, va convito il consumatore, vanno raccontate le cose in maniera diversa, bisogna spiegare che siamo all’inizio di una rivoluzione in agricoltura che passerà attraverso Tea, agricoltura di precisione, digitalizzazione, e se abbracceremo queste innovazioni centreremo gli obiettivi del “Farm To Fork”, Ma bisogna anche spiegare che l’innovazione è fondamentale per preservare le varietà tradizionali ed il patrimonio dell’enologia italiana che abbiamo”.
In ogni caso, ha aggiunto il professor Mario Pezzotti, “dobbiamo essere laici nel dibattito, vanno immaginati percorsi diversi per varietà resistenti nuove, e per varietà tradizionali con resistenze. Ma serve molto tempo, tra incroci, selezioni che partono da serre e arrivano in pieno campo. Sono processi attuabili, ma hanno tempi tecnici che vanno tra i 10-15 anni e richiedono investimenti importanti sia economici, di risorse umane che di terreni e serre. Lo scenario è interessante e in evoluzione, anche grazie a studi italiani è stato sequenziato il genoma della vite, e oggi si possono individuare i geni e intervenire in maniera sottile, su più fronti. Ora per esempio ci stiamo concentrando sulla resistenza alle malattie, ma si lavora anche sulla resilienza ai cambiamenti climatici, che è un altro grande tema”.
Per progredire davvero, però, è fondamentale che le “tecniche di evoluzione assistita siano sperimentate in campo, i produttori devono capire che alcune di queste varietà frutto di ricerca andranno inserite nei disciplinari, per fare vini sempre migliori, con le stesse varietà, magari con agricoltura più biologica e con meno trattamenti”, ha aggiunto Stefano Vaccari, direttore Crea, “ma serve anche la consapevolezza del valore del vino, e la volontà di investirci. Per sperimentare in campo - ha aggiunto Vaccari - non serve aspettare l’Europa. Abbiamo già presentato, insieme al presidente della Commissione Agricoltura alla Camera dei Deputati, Filippo Gallinella, un disegno di legge per una procedura semplificata che consenta di avere le autorizzazioni in 2 mesi, e non in due anni come adesso. Speriamo che sia approvato presto. Ci sono Paesi come Usa e Cina che già mettono in commercio, nel mondo, prodotti ottenuti con le tecniche di evoluzione assistita, mentre noi non possiamo neanche sperimentarli in campo. È una sfida gigantesca, dobbiamo farci trovare pronti. E sulle risorse non dobbiamo aspettare il Pnrr: abbiamo la Pac, che compie 60 anni, ed il cui primo obiettivo è quello di migliorare la produzione agricola attraverso l’innovazione”.
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