“Per comprendere bene il presente, bisogna conoscere il passato e capire bene le ragioni dei cambiamenti. È questo forse il miglior modo per ispirarci ed orientarci nel futuro. Dobbiamo ricostruire gli eventi che hanno portato nei millenni al vino moderno, in cui la ricerca del legame stretto con i luoghi di origine ha determinato la nascita di una vera e propria estetica olfattiva e gustativa del vino, per poi fornire una visione logica dell’enologia del futuro. Un futuro che deve essere analizzato alla luce dell’attuale scenario mondiale fortemente condizionato dalle indifferibili strategie di sviluppo sostenibile a causa dei cambiamenti climatici, dalle considerevoli apprensioni di rispetto e custodia dell’ambiente, e dalla pressante richiesta di trasparenza, sicurezza e salubrità del vino da parte dei consumatori”. È la “Lectio Magistralis” di Luigi Moio, presidente dell’Oiv-Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino, professore di Enologia all’Università Federico II di Napoli e produttore, nel “Convivium” di studiosi - da Attilio Scienza, tra i massimi esperti di viticoltura al mondo, all’archeologo e antropologo David Lordkipanidze - nei giorni scorsi, nel Parco Archeologico di Pompei, dedicato all’“Antichità della vitae e del vino”, dalla Georgia, “culla” della viticoltura mondiale, alla Campania, da dove la produzione di vino si è diffusa nel mondo allora conosciuto, attraverso 8.000 anni di storia, e che hanno così stretto un “gemellaggio”.
“I decori nelle tombe dell’Antico Egitto, quelli di epoca romana e tutte le rappresentazioni della vendemmia nei millenni, mostrano che sostanzialmente il modo di fare vino non è mai cambiato - ha ricordato Moio - in quanto in origine era percepito come un prodotto che doveva presentare poche caratteristiche essenziali tra cui la più importante era la conservabilità. È a partire dal XIX secolo che è stato dato un impulso importante al miglioramento dell’intera filiera vitivinicola. Il vino si rivelò un formidabile modello naturale di studio per la comprensione di fenomeni biochimici fondamentali come la fermentazione alcolica, dando nel 1789 un contributo fondamentale a Lavoisier nella comprensione del principio di conservazione di massa e successivamente nel 1866 a Pasteur nel confutare la teoria della generazione spontanea, dimostrando che la fermentazione alcolica era un fenomeno collegato alla vita in quanto condotta da lieviti. Si è sviluppata così una vera e propria “scienza del vino” per migliorare la sua produzione. Gli uomini hanno sempre cercato di migliorarne le caratteristiche sensoriali, fino a giungere ai nostri giorni in cui il vino è diventato un vero e proprio bene culturale ed emozionale, risultato del controllo di profonde conoscenze dei fenomeni biologici e biochimici naturali. Tutto ciò ha reso possibile l’ottenimento di vini con caratteristiche sensoriali direttamente collegate alla varietà d’uva e a luoghi di origine. Una diversità sensoriale che non è mai stata così evidente come negli ultimi decenni, dando un’infinità di vini espressivi dei loro luoghi di produzione. Ma il cambiamento climatico rischia di indebolire la diversità sensoriale dei vini e il suo stretto collegamento con il concetto di “terroir”, oltre ad influenzarne negativamente la longevità e la stabilità aromatica del vino. È fondamentale riconsiderare un principio agronomico primario forse un po’ trascurato negli anni recenti: favorire il perfetto adattamento tra il genotipo e l’ambiente, coltivando la pianta che maggiormente si adatta al contesto pedoclimatico in cui si opera. Con la perfetta sintonia di una specifica cultivar di vite con l’ambiente pedoclimatico in cui vegeta, la possibilità che i grappoli abbiano tutti i parametri in equilibrio è molto più elevata. Di conseguenza il vino che si otterrà, oltre ad essere più sostenibile, sarà armonico in tutti i suoi componenti e il suo equilibrio sarà principalmente dovuto alla perfetta combinazione tra pianta suolo e clima che insieme all’uomo costituiscono la base del concetto di “terroir”, altrimenti l’uomo deve intervenire molto di più per ricomporre quell’equilibrio. In tal caso non è possibile creare le condizioni che in seno all’Oiv (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino) amo definire di “enologia leggera”, ovvero che necessita di un numero di interventi minimi da parte dell’uomo, e di conseguenza attuale rispetto ai temi ambientali e di salute del consumatore. Oltre alla produzione di vini più “sostenibili” gli altri punti critici fondamentali che coinvolgono la filiera del vino nei prossimi anni sono gli approcci biologici con la riduzione di prodotti chimici di sintesi, le strategie agronomiche ecocompatibili di precisione, i programmi di miglioramento genetico per aumentare la resistenza delle piante alla pressione dei patogeni, i principi alla base dei cosiddetti suoli viventi, e infine l’etichettatura verso la pressante richiesta di trasparenza sicurezza e salubrità del vino da parte dei consumatori”.
“La scienza, così come l’arte, è uno strumento fondamentale per diffondere i valori e per la diplomazia, e può essere un meccanismo chiave per impegnarsi in discussioni più ampie come l’identità nazionale di un Paese - ha detto l’archeologo e antropologo David Lordkipanidze, direttore del Georgian National Museum di Tbilisi - e cercare l’identità è un processo evolutivo naturale, e la sua formazione è influenzata da fattori geografici, politici, culturali, religiosi, antropologici e tecnologici. L’identità nazionale dei georgiani è strettamente legata al culto del vino che ha una storia lunga ed interrotta nella regione risalendo ad 8.000 anni fa. Ma usare le scoperte archeologiche per scopi nazionalistici, tuttavia, è una pratica comune e molti Paesi affermano di essere la “culla” e questo a volte si manifesta come una forma di competizione. Le varietà e le forme di piante coltivate che hanno avuto origine nel Caucaso hanno però dimostrato che l’area era davvero un antico centro per l’addomesticamento e la diversificazione delle specie di piante di alimentari. Dovremmo allontanarci dalle contese su chi è il “primo enologo” e andare verso una ricerca multidisciplinare sulla storia del vino e di altri alimenti coltivati. L’inizio dell’agricoltura è un periodo chiave nella storia umana e offre un’opportunità unica per i ricercatori di sviluppare una collaborazione interdisciplinare internazionale di alto livello. Questa era la nostra intenzione, nel 2014, quando io il Museo Nazionale della Georgia abbiamo preso la guida scientifica di un progetto multidisciplinare internazionale sulla ricerca della cultura dell’uva e del vino georgiano sotto la supervisione della Georgia Wine Association, l’Agenzia nazionale del vino. La teoria che la Georgia sia la culla del vino era già apparsa nella letteratura internazionale nel libro “The Story Of Wayne” del 1989 del famoso scrittore Hugh Johnson 1989, e ribadita dal professore Patrick McGovern dell’Università della Pennsylvania in “Ancient Wine”. Il nostro progetto ha coinvolto scienziati e ricercatori georgiani delle Università di Pennsylvania, Montpellier, Milano, Copenaghen, Toronto, il Weizmann Institute of Science (Israele) e il National Institute for agricultural Research - Montpellier Center (Inra), e i suoi risultati hanno confermato che le tribù che abitano questa zona producevano vino già 8.000 anni fa, grazie agli antichi reperti archeologici ed ai dati archeo botanici. La comunità scientifica globale riconosce che le più antiche indicazioni di vinificazione sono state scoperte su quello che oggi è il territorio della Georgia, da dove le pratiche si sono diffuse in tutto il mondo con un impatto significativo sull’agricoltura, la cultura umana, la biologia, la medicina e lo sviluppo delle civiltà. I grandi vasi noti come qvevri sono ancora oggi usati per produrre vino in Georgia, e questa è una forte indicazione di come la cultura del vino della regione ha profonde radici storiche e una solida continuità”.
Una prima convergenza tra la viticoltura georgiana e quella italiana, ha spiegato Attilio Scienza, tra i massimi esperti di viticoltura al mondo, professore alla Facoltà di Agraria dell’Università di Milano, “è di carattere umano: nel corso della famosa quarta migrazione che ha portato la gran parte dei vitigni da Oriente ad Occidente, e che coincide con il diluvio storico, moltissimi caucasici sono arrivati in Italia, e il Dna delle popolazioni di una zona importante del Sud Italia ha manifestato questa presenza di sequenze caucasiche ancora presenti. Sono arrivati con quello che avevano in termini di varietà e consuetudini e ci sono alcune che sono molto evidenti: la prima è un contenitore che viene utilizzato come cesta per raccogliere l’uva nelle zone dell’Asprinio che è identica a quella usata sul Mar Nero, tanto che sembrano fatte dalla stessa mano. Un altro elemento importante riguarda la vasca di legno utilizzata per la pigiatura con i piedi che si chiama navi ed è ancora in uso in Georgia, e in Italia e in Campania si chiama nave, è fatta nello stesso modo e anche qui è ancora presente. Poi c’è l’anfora: a Pompei c’è una cantina con le anfore interrate con il coperchio che sono esattamente identiche a quelle di una cantina georgiana, dalle dimensioni alla distanza tra l’una e l’altra e al modo di coprirle. Le grotte sul mare dell’isola di Ischia, invece, che in passato erano cantine, si trovano in una località che si chiama Maronti, e in Georgia la cantina si chiama maroni. Ma ci sono anche alcuni sostrati linguistici ad Ischia che sono georgiani, con moltissime parole nel dialetto ischitano che sono di matrice caucasica. Non abbiamo riscontri varietali, perché non abbiamo trovato analogie genetiche tra i vitigni coltivati in Campania e i campioni della Georgia, perché probabilmente nel viaggio da Oriente ad Occidente, tutte le varie selezioni, gli incroci e contaminazioni hanno modificato sostanzialmente i profili molecolari delle varietà”.
“Le continue scoperte archeologiche rinnovano l’interesse internazionale sulla storia e sulla cultura della vite e del vino nei millenni dalle regioni del Caucaso a Pompei, dalla Georgia, “culla” del primo vino rinvenuto nelle anfore, alla Campania e alla grande rete del commercio del Mediterraneo creata dai romani - ha ricordato Dante Stefano Del Vecchio, ad MisteryApple, che ha organizzato il “Convivio”, condiviso con le Ambasciate di Georgia, Grecia e Cipro e con il contributo dell’Ambasciata Italiana a Tbilisi - una linea di continuità collega il Caucaso e la Georgia con la Campania con le prime rudimentali tecniche di coltivazione della vite, dei primi processi che si possono definire di vinificazione, fino a Pompei. Sarà la grande eredità venuta dalla cultura greca a fare del vino un elemento tra mito e sacralità e della condivisione con il Simposio, ripreso dai romani nel Convivio. Rappresentato da Dioniso, il vino diventa leggendaria narrazione, aprendo un mondo letterario, dalla tragedia alla magia, dalla guerra all’esoterismo e all’eros. Ma riprendendo le rotte antiche dal Caucaso al Libano, da Israele all’Anatolia, dall’Egitto a Cipro, dalla Grecia all’Italia, il vino rappresenta un bene irrinunciabile per i popoli fino ai romani, quando subisce una forte trasformazione commerciale dalle grandi dimensioni dominando i traffici dal Medio Oriente al Mediterraneo e valicando le Alpi. Pompei rappresenta questa antica realtà sociale ed economica legata al vino e fatta di sapere saggezza e conoscenze intrecciate alla geopolitica dell’Impero. La Georgia e la Campania sono strettamente collegate dalla cultura del vino a partire da testimonianze chiarissime come le anfore interrate per la vinificazione che i romani introdussero proprio nella nostra regione e l’alberata, la famosa vite maritata con il pioppo, come quella dell’Asprinio di Aversa, già presente in Georgia. E se dai siti archeologici recenti emergono questi elementi, oggi in Georgia è iniziata una lunga corsa per il recupero della sua immensa e antica biodiversità, e nell’azienda di Stato sono stati recuperati e impiantati ben 525 vitigni, un panorama viticolo completamente estraneo alla vite occidentale, ma di queste solo poche decine possono dare grandi buoni risultati per vinificare vini eccellenti come dimostrano gli studi dell’Università di Agraria di Milano e dell’Istituto di San Michele all’Adige. Vitigni che hanno mostrato una particolare specificità e come molti di essi siano naturalmente resistenti ad alcune fitopatie (ioidio e peronospora). Se l’interpretazione del passato ci aiuta a capire in profondità le radici di una pianta, va ricordato e ribadito che è la ricerca scientifica, con la sua capacità di innovare, che permette di affrontare le nuove sfide della vitivinicultura per realizzare vigne adeguate e sostenibili e vini migliori espressione non solo dei territori, ma anche del nostro tempo, del nostro sapere e della nostra modernità”.
In questa ricostruzione storica, Pompei rappresenta un luogo simbolo che l’eruzione del Vesuvio del 79 d.c. ha cristallizzato e consegnato per sempre al Patrimonio Culturale dell’Umanità, e dove il connubio tra vite e territorio è testimoniato dai preziosi reperti archeologici che documentano l’eccellente qualità dei vini locali, noti come “vini degli imperatori”, e come il vino venisse già allora conservato in cantine e anche etichettato. “Oggi anche la rigenerazione ambientale che il Parco Archeologico ha avviato affronta l’impatto dei cambiamenti climatici sul patrimonio culturale e naturale degli oltre 100 ettari di terreni agricoli a corona dei siti archeologici, garantendo una manutenzione sostenibile del territorio e formando un presidio contro l’inurbamento, il consumo di suolo e le criticità climatiche, con coltivazioni esclusivamente biologiche ed effettuate nel rispetto e nell’interpretazione aggiornata delle tecniche e delle modalità colturali del mondo antico - spiega il direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zucktriegel - esempio fondamentale di questa linea è l’attuazione del partenariato per la gestione delle antiche vigne e dell’impianto di nuovi vigneti per l’attivazione del settore vitivinicolo dell’Azienda Agricola Pompei. Il Vivaio della flora pompeiana nella Casa di Panza nella Regio VI, inaugurato nel 2001, salvaguardia le specie rare o endemiche del germoplasma vegetale di varietà antiche con conseguenti caratteristiche di una maggiore biosostenibilità, si configura come centro didattico e sottolinea il rapporto uomo-natura nel mondo antico, il giardino utilitaristico. Plinio il Vecchio, Columella ed altri autori della Roma antica ci insegnano come e cosa coltivare. L’iniziativa è quindi finalizzata alla valorizzazione e fruizione dei beni culturali, con un’accurata attenzione alle scelte delle specie coltivate e riprodotte che non solo tiene conto della vegetazione autoctona vesuviana, ma anche scientificamente inerente al patrimonio vegetale utilizzato 2.000 anni, e con la rinnovata gestione agricola, zootecnica, casearia, di apicoltura e florovivaistica del Parco con la formazione di un’azienda agricola che si basa su tecniche di precisione e l’agroecologia, favorendo anche un turismo rurale sostenibile di eccellenza. Non da ultimo, la rinnovata gestione dei terreni agricoli consentirà un fattivo miglioramento della manutenzione del patrimonio culturale attraverso un più efficace ed efficiente controllo delle specie infestanti”.
Ma è tutta la ricchezza ampelografica della Campania “la testimonianza concreta della centralità di questa regione nelle rotte che hanno attraversato da Oriente ad Occidente e da Sud a Nord tutto il mondo conosciuto delle vite e del vino - ha detto Tommaso Luongo, presidente Ais-Associazione Italiana Sommelier Campania - Aglianico e Piedirosso, Falanghina Beneventana e Falanghina Flegrea, Greco e Fiano, e, ancora, Catalanesca, Caprettone, Coda di Volpe, Sciascinoso, Tintore e Camaiola, Pallagrello Bianco e Pallagrello Nero, Casavecchia e Asprinio, Pepella, Ripoli e Ginestra: potremmo continuare all’infinito e ogni vitigno porterebbe con sé una storia affascinante dal raccontare, non uno storytelling costruito a tavolino, ma il tassello insostituibile di un mosaico variegato e multicolore che descrive la quinta essenza di un territorio dalle condizioni pedoclimatiche uniche che fanno del Vigneto Campania un laboratorio a cielo aperto di sperimentazioni sulle tecniche agronomiche e sui differenti approcci produttivi. Le vigne secolari che hanno resistito all’aggressione della fillossera con i nodosi tralci che mostrano con fierezza le loro rughe, i terrazzamenti a picco sul mare della Costiera Amalfitana, le meravigliose impalcature verdi delle alberate della Piana dell’agro Aversano, i umerosi ceppi di vite a Piede Franco che affollano i cigli dei crateri e puntellano la caldera Flegrea, i filari accarezzati dalle brezze marine dell’isola di Ischia e Capri e il cuore verde incontaminato dell’Irpinia e del Sannio con le distese di vigna a perdita d’occhio, o i vigneti metropolitani di Napoli, i filari che si inerpicano sul Vesuvio: una viticoltura antica e moderna, ancestrale e dinamica, depositaria di sapienza e portatrice di futuribili sviluppi. E la dimensione ideale per celebrare il “gemellaggio virtuoso” tra Campania e Georgia, in un ponte ideale tra passato, presente e futuro tra due enoluoghi di strategica e fondamentale importanza senza i quali il vino che conosciamo oggi non sarebbe quello che è”.
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