La Nuova Zelanda del vino sta maturando: a partire da un mercato piccolo e rigido, si è distinto come Paese produttore ed esportatore vinicolo di successo, ma allo stesso tempo, nell’ultimo decennio, ha registrato un calo nelle importazioni. Unica eccezione? Il vino italiano, in notevole aumento. Quest’ultimo, nonostante sia in termine di stile molto diverso da quelli locali, ha infatti guadagnato popolarità tra i consumatori neozelandesi e la sua presenza sul mercato è cresciuta costantemente in quantità e valore. A prendersi almeno metà della fetta del mercato è il Prosecco, che si è ritagliato un angolo di gloria fra i cari vini francesi (per lo più Champagne e vini rossi) e gli economici vini bianchi australiani. E che potrebbe crescere ancora, visto che la Nuova Zelanda, in un accordo con l’Ue (ancora da ratificate) ha riconosciuto la Doc, a differenza dell’Australia, che considera il Prosecco un varietale, ma che rischia di vedere il primo mercato del “Prosecco australiani” chiudersi. Ma c’è anche spazio per i vini bianchi e rossi italiani, per farsi conoscere e riuscire a conquistare i palati neozelandesi, tenendo conto dei costi, delle regolamentazioni e delle tempistiche che un mercato così lontano e diverso richiede, a patto di presentarsi preparati e con ottime argomentazioni. Ecco l’analisi dettagliata nel business forum “Wine2Wine 2023” fatta da Marco Nordio, proprietario della distribuzione di vini neozelandese “Sapori d’Italia Import”, supportato da Gill Gordon Smith, enologa australiana e proprietaria di La Madrina wines, wine-educator e Italian Wine Expert.
Il contesto generale, per capire quali sono le opportunità da cogliere, è questo: la Nuova Zelanda ha 5,1 milioni di abitanti concentrati per un terzo nella capitale di Aukland. Una società in crescita del 2% ogni anno e multietnica, formata al 50% da discendenti europei (con una comunità italiana molto ampia, di oltre 65.000 unità), un 30% di asiatici e un 20% di provenienza maori e delle isole pacifiche; con un reddito pro capite di 51.790 dollari statunitensi, simile a quello italiano (ed entrambi sotto la media europea di 54,237 dollari americani). Il Paese sta crescendo in termini di produzione ed esportazione di vino: anche se rappresenta l’1% del vigneto mondiale, oggi possiede 41.860 ettari di vigna (erano 35.510 nel 2014) ed è il sesto esportatore mondiale di vino per un valore di 2,4 miliardi di dollari neozelandesi (dove un dollaro neozelandese vale 0,58 dollari americani, ndr) con caratteristiche molto concentrate: il 75% della produzione è dedicata al Sauvignon Blanc che viene esportato per il 90%; l’85% della produzione totale viene comunque esportata e comprata da soli 3 Paesi: Stati Uniti, Regno Unito e Australia.
Ma mentre le esportazioni - quasi inesistenti nel 1990 - aumentano (passando dai 150 milioni di litri esportati nel 2014 per un valore di 1,5 miliardi di dollari neozelandesi, agli attuali 320 milioni di litri per un valore, appunto, di 2,4 miliardi di dollari neozelandesi) il mercato interno cala - coerentemente al resto del mondo, passando dai 90,6 milioni di litri consumati nel 2014 (il 55% dei quali erano vini nazionali) agli attuali 85,8 milioni di litri nel 2023 (il 50% dei quali sono vini nazionali). È un mercato piccolo - comparabile per numeri a quello Irlandese o polacco - dove il 47% di tutti i vini consumati sono bianchi (in declino del 5% negli ultimi 5 anni), il 30% sono rossi e stabili in classifica, mentre l’11% sono spumanti, in crescita del 23% nello stesso periodo (come i rosati, che però rappresentano una parte irrisoria del mercato interno: circa l’1%). Messi tutti insieme, i neozelandesi ne bevono 17 litri all’anno (che rappresenta il 18% dell’alcol consumato nel paese). Erano 18 litri nel 2021 (il picco nell’ultimo decennio fu di 21 litri nel 2015), quando erano 51,6 litri in Portogallo (nazione ancora oggi col più alto consumo di vino al mondo), 47,3 litri in Francia e 46,8 litri in Italia (in Australia erano 27 litri: ancora oggi il maggior paese consumatore di vino extra Europa).
Per la tipologia di vino consumato in termini di valore, i più comprati sono la fascia premium da 15 a 20 dollari neozelandesi per il 37%, subito seguita dalla fascia standard da 10 a 15 dollari neozelandesi per il 32%, e quindi dalla fascia super premium dai 20 ai 30 dollari neozelandesi per il 18% (seguono la prima fascia - dai 5 ai 10 dollari neozelandesi per il 7% - l’ultra premium - dai 30 ai 50 dollari neozelandesi per il 4% e la fascia prestige - sopra i 50 dollari neozelandesi per l’1%. Essendo il vino un prodotto culturale, riflette fedelmente i cambiamenti che diffusamente avvengono nella società che lo consuma, dove la polarizzazione mondiale sta erodendo la capacità di spesa della borghesia, mentre aumenta per i ceti più benestanti.
In questo contesto - che in parte si rivela coerente con le tendenze riscontrabili in altri paesi, mentre in altre evidenzia le peculiarità della Nuova Zelanda - il vino importato corrisponde al 34% del vino consumato (dati 2023, paragonabili a Stati Uniti e Australia). La maggior parte di esso, non stupisce, va ai bianchi che sono anche in aumento (dal 42% del 2014, all’attuale 49%) con la Spagna in testa, come del resto le bollicine (dal 5% del 2014 all’attuale 11%) con lo Champagne al 4%, talmente apprezzato che nelle statistiche gioca con una sua categoria a parte. I rossi sono in calo (dal 50% del 2014 all’attuale 36%) ma in termini di valore sono la fascia più alta, quasi la metà del totale del valore importato nel 2023.
Scendendo nel dettaglio il vino italiano è la categoria che sta crescendo più velocemente, trainata dal successo delle bollicine che ha ovviamente investito anche l’Oceania. Dal 2014 l’Italia ha guadagnato il 4% (passando dal 2 al 6% del volume di vino importato) superando la Francia, il Sud Africa e l’Argentina, unici 3 paesi a crescere quando gli altri sono in calo (Australia e Cile) o stabili (Spagna). Di vino italiano vengono importati 2,7 milioni di litri (il 6% appunto) per un valore di 25 milioni di dollari neozelandesi, il 9% del valore totale: prima di noi solo l’Australia, con il 50% del valore e il 75% della quantità (i bianchi in testa, poi i rossi e poi gli spumanti), e la Francia, con il 31% del valore e l’8% della quantità (di cui lo Champagne si prende due terzi del valore e quasi metà della quantità, seguita dai rossi, dai bianchi e quindi dai restanti spumanti. L’Italia invece esporta soprattutto spumanti (1,5 milioni di litri per 13,3 milioni di dollari neozelandesi), poi rossi (0,9 milioni di litri per 8 milioni di dollari neozelandesi) infine bianchi (0,3 milioni di litri per 3,6 milioni di dollari neozelandesi). “Gli spumanti importati dall’Italia sono praticamente solo Prosecco: se guardate il catalogo dei distributori di vino in Nuova Zelanda, spesso hanno una sola etichetta di vino italiano ed è, appunto, Prosecco. Presenza che potrebbe addirittura aumentare - spiega Nordio - visto il recente accordo di trade agreement siglato con l’Unione Europea, che impone alla Nuova Zelanda di riconoscere la denominazione del Prosecco italiana: un grosso problema per l’Australia, che non può più importarvi l’81% del Prosecco da lei prodotto; una grossa opportunità per l’Italia che, potenzialmente, potrebbe assumersi l’onore di sostituirlo tutto. Oltre agli spumanti - continua Nordio - restano ancora ampie opportunità inesplorate per il Piemonte e la Toscana, ma anche per altri bianchi nazionali, come il Soave, il Vermentino sardo o il Grillo siciliano, o il Primitivo pugliese e il Montepulciano abruzzese, per citarne alcuni”.
Ma se davvero si vuole penetrare il mercato neozelandese, bisogno essere informati e preparati. I costi, innanzitutto: fra tasse (suddivise in diverse tipologie), costi di trasporto ed etichettatura, un vino da 5 euro franco fabbrica costerà circa 14 dollari neozelandesi in più, esclusa l’imposta su beni e servizi (iva) ed esclusa la percentuale dell’importatore, che si aggira fra il 30 e il 50% del totale (imposta su beni e servizi inclusa). Anche l’etichettatura non è facile: a parte il simbolo di rischio per le gravidanze, bisogna segnalare la “quantità di dose” (standard drink) che contiene sia la bottiglia che il cartone e si calcola a partire dalla quantità di alcol che entrambi contengono; servono poi i dati dell’importatore e l’indicazione geografica, se riconosciuta dalla Nuova Zelanda. Inoltre se sull’etichetta sono segnalate delle varietà, devono essere contenuta almeno per il 75%. I tempi? Bisogna calcolare almeno 3 mesi prima di arrivare sullo scaffale neozelandese. Tutte queste regole valgono solo in parte per gli spirits, il cui consumo è aumentato gradualmente fino al 12% dal 2014 e che, nel 2022, ha toccato i 103 milioni di litri.
L’altro tema è la preparazione: la Nuova Zelanda ha un forte legame con l’Italia, nato ai tempi Seconda Guerra Mondiale, quando il suo esercito fu pesantemente coinvolto nella battaglia di Montecassino (Abbazia, in provincia di Frosinone, nel Lazio meridionale). La comunità italiana che vive laggiù è fra le più grandi fra quelle estere presenti (circa 70000 persone), ma nonostante questo i “kiwis” sono meno avvezzi al gusto del vino italiano rispetto agli australiani. Il Sauvignon Blanc, onnipresente, è stilisticamente molto diverso dal nostro - molto più acido e vegetale: “servono quindi educazione al palato e argomentazioni più geografiche e strategiche, che si possono costruire solo studiando il mercato globale e il loro mercato interno, rispetto ad esempio ai vini presenti e consumati in termini di tipologia e territori. Bisogna insomma creare materiale di marketing - conclude Nordio - e giocare sul soft power della cultura e del life style italiano che tanto ci riconoscono e apprezzano. Se poi c’è lo screwcap, il tappo a vite, tanto meglio”.
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