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IL TALK BY “CIVILTÀ DEL BERE”

La “Resistenza” del vino, oggi: individuare errori passati e sintonizzare il brand in ottica futura

A “VinoVip Cortina”, le strategie del presidente Oiv Luigi Moio, del Master of Wine Andrea Lonardi, Giovanni Bigot e del professor Eugenio Pomarici

Tendenze, mercati, cambi di paradigma e cambiamenti climatici. Il tempo scorre e il vino deve adattarsi al mondo che cambia, pena la sopravvivenza. Se per Charles Darwin la specie più forte è quella che riesce meglio a conformarsi con l’ambiente circostante, lo stesso vale per il settore vitivinicolo alle prese, oggi, con una vera e propria “Resistenza”. Se ne è parlato, ieri, a “VinoVip Cortina 2024”, edizione n. 14 del summit organizzato dalla storica rivista “Civiltà del Bere” guidata da Alessandro Torcoli, con i grandi nomi del vino italiano a confronto sul futuro del settore nella “perla” delle Dolomiti (come racconteremo dalle loro voci, con audio e video, nei prossimi giorni su WineNews, ndr).
Che cosa è cambiato negli anni passati? Che cosa succederà nel futuro? Quali sono le nuove sfide? Su questi interrogativi si sono susseguiti gli interventi, a partire da Luigi Moio, presidente Oiv-Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino, professore di Enologia all’Università degli Studi di Napoli Federico II e produttore ed enologo della Cantina Quintodecimo, che ha sottolineato come sia necessario resistere agli attacchi culturali di chi non considera il vino un baluardo di civiltà, ma lo identifica in modo semplicistico con l’alcol. “In tempi recenti il vino ha avuto una grandissima accelerazione: tanti si sono avvicinati a questo mondo perché era di tendenza e tanti si sono ritrovati a fare vino, ma senza verificare le scienze agrarie e senza una forte competenza. Questa grande attenzione ha reso il vino sempre più oggetto di campagne proibizioniste e a volte, per difenderlo, abbiamo rischiato di fare dei gravi danni di comunicazione. Il vino è una delle invenzioni più belle dell’uomo, ma l’alcool è nocivo. Questo ormai è assodato ed è necessario essere trasparenti e dirlo in modo chiaro e semplice, incentivando un consumo consapevole alla base, senza arrivare a demonizzare l’intero prodotto. Tra i primi anni Novanta e il Duemila abbiamo vissuto una completa ubriacatura da vino”, ha riflettuto Moio , ma non un’ubriacatura fisica, bensì “di onnipotenza. Tutti eravamo felici e dal 2010 tanti si sono gettati nel mondo del vino. Anche quelli senza professionalità. È bello avere il proprio nome sull’etichetta, ma per piantare le vigne servono competenze di scienze agrarie”. Moio individua in questa sorta di “approssimazione” dei produttori una delle problematiche del vino oggi, a cui il professore associa anche il tema delle strategie di comunicazione: “non è stata la cultura del vino ad essere diffusa, è stato diffuso l’interesse sul vino verso i consumatori. Un esempio: vanno bene i corsi di sommelier, ma non è la sola cosa che bisogna(va) fare. L’accelerazione del progresso tecnologico, inoltre, ha creato disorientamento tra consumatori e produttori. I primi chiedono novità: storicamente la novità è la nuova annata, ma ora non basta più. Serve altro, ma non qualsiasi trovata che, spesso, non ha nessuna idea progettuale”. Una crisi di identità che mette a repentaglio la transizione generazionale: “le famiglie non mangiano più insieme, non viene più messa la bottiglia in tavola e spiegata ai figli. Prima sul vino c’era un processo educativo: in Italia, Francia e Spagna ci salviamo perché siamo nati conoscendo il vino, ma negli altri Paesi? Non sanno neanche come è fatta l’uva. Il vino rischia sempre di più di essere visto come una bevuta solo da grandi”.
Per recuperare l’identità e il controllo del brand, secondo il Master of Wine e ceo Marilisa Allegrini, Andrea Lonardi, “bisogna individuare i bicchieri in cui vogliamo versare il vino - ha detto - il cambiamento climatico si riflette sull’agricoltura, ma è un tema inflazionato. Il grande cambiamento oggi è la velocità con cui cambiano le cose. I consumi sono mutati e il brand del vino deve modificare la propria leadership, il modello di vendita e il tema generazionale: non tramandando tra padre e figlio, ma come vision aziendale. Il vero problema non è il cambio dei consumi, ma la crisi della “satisfaction edonistica” nel momento in cui bere vino non diventa più di moda. Bisogna individuare il nostro cliente: chi beveva vino per cultura continuerà, mentre chi beveva vino per moda cercherà altre mode”. Oggi, ha aggiunto, “la politica del marketing è quella del mix, fatta di metodo, preparazione e tempo. Dobbiamo approfondire i cambiamenti, senza limitarci a parlare di quello climatico o nelle preferenze dei consumatori. Oggi si parla sempre più di vocazionalità e di monovitigno, viviamo una crisi della soddisfazione edonistica del vino perché non è più di moda, i vini bianchi di collina e di montagna lasciano il passo ai vini bianchi del mare, i vini rossi di qualità devono essere consumati a temperatura diversa, le bolle di qualità diventano sempre più gastronomiche. La verità è che ciò che cambia oggi è la velocità dei cambiamenti e per questo occorre essere alternativi e contemporanei e avere il coraggio di auto-valutarsi in maniera intima per sintonizzarci con il presente e con il futuro”. Lonardi ha dettato quella che secondo lui è l’agenda per il settore a livello di sintonizzazione del marchio sul mercato: “il brand è dire cosa siamo senza dover parlare. Dobbiamo essere riconoscibili e per farlo serve coerenza nel modello produttivo e di comunicazione. Serve la consistenza, essere continuativi con strategie, produzione e tendenze, e infine dobbiamo saper misurare tutte ciò che ci circonda: la “legacy” è il vero obiettivo finale. Viviamo oggi un momento di transizione, e io sono positivo perché dal cambiamento possono nascere grandi opportunità. Sono fiducioso anche perché l’Italia ha grande resilienza, storia e tradizione a cui però va fatta una iniezione di metodo. Raggiungere grandi risultati senza cambiare non è possibile”.
E dunque da dove ripartire? “Dal terreno”, secondo l’agronomo, consulente e ricercatore esperto in viticoltura biologica, ideatore dell’indice Bigot, Giovanni Bigot, che si è focalizzato sulla forza della biodiversità e sulla necessità di preservare la genetica dei vitigni che si sono adattati ad un particolare terroir. “Oggi va trasmessa una cultura viticola che ponga il terreno al centro di tutto. Quando un vitigno si adatta a un diverso terroir, questa capacità viene trasferita alla progenie: adattamento del vitigno permette di organizzare al meglio il patrimonio viticolo internazionale. Non possiamo pensare di perdere questo bagaglio di gran valore”. Bigot punta il dito anche contro l’eccessiva burocrazia: “veniamo da 30 anni di semplificazione vitivinicola. Se vogliamo gestire un vigneto dobbiamo puntare al miglioramento continuo, ma questo non può andare d’accordo con la standardizzazione - ha spiegato - il suolo è il punto di partenza e di fine: se è vitale, è perfetto per il vitigno, altrimenti devo pensare ad una soluzione con un adattamento. L’agricoltura standardizzata è una complessità che ci troviamo ad affrontare, va semplificato il processo di produzione dell’uva”. Occorre dunque una strategia di gestione: “se posso pianificare prima saprò mettere in atto eventuali imprevisti, posso operare il controllo e stabilire una definizione finale”, ha concluso.
L’intervento di Eugenio Pomarici, professore di Economia all’Università degli Studi di Padova, esperto italiano all’Oiv e coordinatore Laurea magistrale Viticoltura Enologia e Mercati Vitivinicoli, si è concentrato, infine, sui distretti viticoli: “per distretto si intende un’area industriale caratterizzata da piccole e medie aziende con propensione ad agire sinergico. Ci si è lamentati spesso della piccola dimensione delle aziende, mentre questa struttura frammentata è stato elemento di forza: la grande azienda capitalistica, di fronte alle difficoltà, taglia tutto e se ne va, mentre il piccolo resiste e mantiene la vigna. Poi, le cooperative hanno consentito competitività alimentando un sistema a imbottigliatori”, sostiene Pomarici, sottolineando comunque come sia fiducioso verso il futuro, essendo l’Italia leader nel mondo non solo per le tecnologie enologiche e nelle macchine agricole, ma anche per i commercial premium e seconda per i fine wine. “La resilienza è la capacità di assorbire i disturbi dei cambiamenti, ma anche di fronteggiare la crisi e apprendere nuovi metodi per andare avanti. L’Italia è una delle protagoniste mondiali del vino, ma le condizioni strutturali non sono favorevoli. Però abbiamo la fortuna di avere una grande domanda interna, una superficie in ettari molto ampia, una buona policy, grandi risorse naturali e tante industrie di supporto”. 
In chiusura la consegna del “Premio Khail” 2024, che viene attribuito dalla rivista “Civiltà del Bere” alle figure che si sono distinte per l’impegno nella promozione del vino italiano nel mondo, e che quest’anno è stato assegnato a Marina Cvetic, amministratore unico di Masciarelli Tenute Agricole.

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