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GASTRONOMIA

A “Identità Milano 2023” la rivoluzione in cucina, declinata dagli chef di tutto il mondo

A WineNews i temi caldi della ristorazione mondiale, tra fine dining e abitudini alimentari, e quelli trattati da “Golosi di Identità”

Signore e signori, la rivoluzione è servita”: è così che Identità Milano” n. 18, il Congresso Internazionale di cucina, pasticceria, mixology e servizio di sala, di scena al MiCo, a MIlano, ha voluto raccontare e rappresentare il cambiamento che sta attraversando il settore, facendosi portavoce della necessità di ripensare e mettere in discussione l’esistente. “Tutto quello che è accaduto da tre anni in qua, e che è ancora lontano dall’essere superato, ci obbliga a pensare in maniera assolutamente nuova, a mettere in discussione quanto costruito finora. Nulla sarà come prima dell’autunno-inverno 2019/20, ecco spiegato il tema di Identità Milano 2023: Signore e signori, la rivoluzione è servita”, ha commentato Paolo Marchi.

La kermesse ha segnato il ritorno degli ospiti internazionali, dopo la fine dell’emergenza sanitaria, con chef di primissimo piano, come Luis Aduriz (Mugaritz), Alex Atala (D.O.M.), Chicco Cerea (Da Vittorio), Giorgio Locatelli, Carlo Cracco (Cracco in Galleria), Davide Guidara (I Tenerumi), Cristiano Tomei (L’Imbuto), Andrea Aprea, Giuseppe Iannotti (Krèsios), Cristina Ceraudo (Ristorante Dattilo) e Corrado Assenza (Caffè Sicilia), che, ai microfoni di WineNews, hanno affrontato i grandi temi dell’attualità dai fornelli, come la difficile sostenibilità - economica e sociale - dell’alta cucina, ben testimoniata dall’annunciata chiusura dell’iconico “Noma” di Copenaghen, simbolo della gastronomia Nord Europea che ha saputo reinventarsi e conquistare i palati dei gourmand di tutto il mondo, ma anche i profondi cambiamenti che stanno attraversando la cultura e le abitudini alimentari, a tutte le latitudini, dalla carne sintetica alle tendenze vegan e vegetariane, passando per gli insetti commestibili, destinati a stravolgere anche la cucina.

Tra le novità di Identità Milano 2023” anche “Golosi di Identità”, spazio di incontro e confronto in cui Fondazione Cotarella, in uno spazio ad hoc, ha raccontato i tanti progetti di utilità collettiva - tra vino, formazione e sociale - che sta sviluppando con diversi focus legati al territorio, alla salute, alla formazione e ai disturbi alimentari: “per noi, seconda generazione di Cotarella, il vino è il primo amore, ma anche lo strumento per raggiungere obiettivi diversi”, racconta, a WineNews, Dominga Cotarella, presidente Fondazione Cotarella. Come quello, emerso in “Le identità dei territorio: il sogno nasce dalla terra”, ovvero quello di far emergere le potenzialità dell’Umbria, “che vanta territori straordinari ed eccellenze che le imprese devono saper valorizzare, con il vino assoluto protagonista. Un tema che abbiamo affrontato con aziende come Urbani Tartufi e chef come Ciro Scamardella del ristorante Pipero di Roma”. L’appuntamento più atteso, però, era quello con “A tavola con la scienza: la salute dell’uomo passa anche dal legame con la natura e i suoi prodotti”, dedicato “al vino e all’olio, due prodotti che raccontano l’Italia nel mondo”, continua Dominga Cotarella. “La formazione, nel dibattito con Riccardo Cotarella, Bruno Vespa e tanti altri professionisti, è stata protagonista, anche nell’ottica della polemica sugli health warning che l’Irlanda vuole mettere sulle controetichette del vino e degli altri alcolici. Riteniamo, come raccontano le attività che facciamo con “Intrecci”, che la formazione sia l’unico strumento che abbiamo per indirizzare i giovani verso un consumo corretto ed equilibrato del vino. Se non riusciamo a far capire ai giovani cosa sta dietro un bicchiere di vino, facendoli innamorare, ci sarà una maggiore possibilità che questi vadano verso l’abuso: in questo senso, la Fondazione Cotarella, con il San Raffaele di Milano, sta portando avanti un lavoro molto importante: una ricerca, iniziata un anno fa e che durerà ancora due anni, per dimostrare scientificamente che il vino, in una certa misura, non solo non faccia male ma possa persino portare, in alcuni percorsi, dei benefici”, sottolinea Dominga Cotarella. È questa la portata “rivoluzionaria” del lavoro di Fondazione Cotarella: “affrontare i problemi con i fatti, perché gli imprenditori, a partire da quelli del vino, possono fare la differenza, ma non solo a parole. Se scopriamo che il vino può portare dei benefici, e a dirlo è un ospedale come il San Raffaele, credo che possa fare la differenza”.

Al centro di tutto, allora, resta una parola: “rivoluzione”. Declinata a Milano ad “Identità Golose”, da Davide Rampello, professore universitario, consulente culturale e gestionale per istituzioni nazionali ed internazionali, direttore artistico e curatore: “non possiamo pretendere che le cose cambino, se noi continuiamo a fare le stesse cose”, ha detto Rampello, citando Einstein, e ricordando come la rivoluzione sia “un bel piattino, da non confinare alle manifestazioni politiche. Rivoluzione - spiega Rampello - nasce dal latino revolvere, ovvero riavvolgere. È come il movimento terrestre che torna su se stesso, ma ruota anche intorno al sole in un continuo e costante girare, chiamato appunto moto di rivoluzione”.

In cucina, la rivoluzione è prima di tutto quella dei grandi cuochi del Rinascimento. “L’esaltazione del territorio italiano - continua Rampello - nasce proprio in quegli anni e con quei cuochi che non sapevano solo fare un piatto, ma anche metterlo in scena. Nasce la grande cultura del sapere che si era persa nel Medioevo”. Un nome su tutti, quello di Bartolomeo Scappi, cuoco, nel XVI secolo, d Carlo V e di due Papi, Pio IV e Pio V. Si deve a lui il più importante trattato di cucina dell’epoca, con mille ricette (dalle paste ripiene alle torte), la prima raffigurazione di una forchetta, ingredienti e tecniche importati dalle Americhe ed una citazione del Parmigiano, già allora considerato come il miglior formaggio al mondo. Un’altra rivoluzionaria, in cucina, è stata Caterina de’ Medici, che nello stesso periodo “apparecchia la tavola - racconta Rampello -, annulla l’usanza di servire tutte le portate insieme introducendo invece una sequenza nei piatti, e va a comprare personalmente al mercato i prodotti necessari per le sue pietanze. Era solita andarci indossando una fascia blu, che ispirerà poi il nome dell’associazione Cordon Bleu”.

Oggi, la rivoluzione passa ad esempio per l’imprevedibilità di chef come Andoni Luis Aduriz, anima del basco “Mugaritz”, dove l’esperienza gastronomica trascende il gusto, puntando sul gesto artistico e sulle consistenze. È stato Aduriz a raccontare come esercitare la creatività, ricordando che “la cucina segue i movimenti tellurici che interessano il pianeta, scandendo l’effetto domino planetario che in rapida sequenza ha determinato il Maggio francese (1968), la nascita della Nouvelle cuisine (1972) e dunque l’ingresso di diritto dell’alta cucina basca nell’alta cucina tout court”. Il Mugaritz apre nel 1998, e all’epoca il menu era assolutamente classico: “una sequenza apparentemente canonica di primi piatti-carne-pesce-formaggio-dessert”.

Ci sono voluti pochi anni, però, per abbracciare la rivoluzione. “Il cambio di paradigma è stato quello delle sottigliezze che in un mondo come il nostro, pieno di chiasso e di rumore, non vengono considerate un esercizio sovversivo. È un errore. In quel menu non abbiamo fatto altro che togliere gli spazi fra le portate, col risultato che il menu diventa più lungo e più stretto, intensificando il dialogo fra i prodotti”, e ribaltando il rapporto tra proteine e vegetali. Venticinque anni ricchi di piatti iconici, dall’“Edible stone” al “Michelin Man” passando per il “Veg Carpaccio” di anguria (oggi replicato in tutte le salse), ed una consapevolezza: “una delle cose che ci distingue dal resto degli animali è la capacità tutta umana di anticipare cose che non esistono, immaginare. Chi non si preoccupa del suo futuro non ha futuro”, ha chiosato lo chef basco.

Rivoluzione, come aveva detto Paolo Marchi già in presentazione di Identità Milano” n. 18, vuol dire innanzitutto coraggio, e spesso e volentieri anche rompere le regole è una forma di coraggio. Specie in Tv, dove il racconto del cibo diventa sempre di più racconto di vita: ne hanno parlato, a Identità Talk, Davide Gelb, autore e produttore esecutivo di Chef’s Table, Brian McGinn produttore esecutivo e regista di Chef’s Table, Massimo Bottura, chef dell’Osteria Francescana e protagonista del primo episodio della serie1 di Chef’s Table, e Giorgio Locatelli, chef di Locanda Locatelli e giudice di MasterChef Italia. “In tv la cucina è sempre apparsa sotto forma di competizione; l’intenzione di Chef’s Table, invece, è stata quella di portare l’emozione al centro di tutto, spostando l’attenzione su tutto ciò che circondasse lo chef, dal paesaggio al quale è connesso, alla sfera domestica fino alle sue origini”, racconta David Gelb, che ha dedicato la prima puntata del fortunato format Netflix a Massimo Bottura, convinto dall’idea che “la televisione in qualche modo sia in grado di manipolare le cose, di mostrare qualcosa di diverso rispetto alla realtà. Il messaggio, invece, deve essere quanto più vero e racchiudere qualcosa di importante da comunicare, che oggi raggiunge le nuove generazioni: sono i ragazzi di 15/16 anni ora a prenotare un tavolo per le proprie famiglie”.

Un trampolino che ha portato Massimo Bottura ad “usare” la potenza dei media in maniera sempre più costruttiva, ad esempio prendendo parte alla serie Netflix “Waffle+Mochi”, dedicata all’educazione alimentare e indirizzata ai bambini di tutto il mondo, chiamato dalla ex first lady Usa Michelle Obama, che, ricorda lo chef emiliano “ha sempre avuto a cuore l’educazione dei bambini statunitensi meno privilegiati. Il focus della serie, quindi, era quello di insegnare ai più piccoli a mangiare sano, a mangiare le verdure. Ma c’è ancora una richiesta: portare nella serie un piatto che per Michelle non poteva mancare, “Oops, I dropped the lemon tart”, che era già comparso ovunque. La novità stava nella lettura, assolutamente originale, che del piatto ha saputo dare Michelle Obama: Oops insegna a non aver paura di commettere errori. Tutti possono sbagliare, persino lo chef migliore al mondo”.

Altro pioniere, e rivoluzionario, della narrazione della gastronomia e della cucina sul piccolo schermo è Giorgio Locatelli, che nel 2013 ha condotto la serie “I Buongustai dell’arte” su Sky Arte, un programma “nato assieme al critico d’arte Andrew Graham Dixon: era il tempo della raccolta delle olive in Sud Italia, io ero lì quando mi ritrovo all’improvviso a dialogare con Andrew, in una chiesa, guardando uno splendido dipinto di una Madonna. Nasce un momento magico, siamo trasportati in un’altra dimensione e viene a galla un’idea che proponiamo inizialmente alla BCC: un programma che trattasse di cibo ed arte in pari misura, perfettamente in equilibrio. Dopotutto, in entrambi i casi, parliamo di cultura. In tutto, sei stagioni in un viaggio che parte dalla Sicilia e poi si estende lungo tutto il Belpaese: una grande esperienza, un processo conoscitivo straordinario, a cui si somma la forza che la tv o il cinema hanno di fissare qualcosa nel tempo”.

Chi non ha mai smesso di rivoluzionare continuamente la cucina italiana è Carlo Cracco, tra gli chef più influenti degli ultimi 20 anni, che ha firmato il piatto simbolo diIdentità Milano 2023”, “Avocado, kiwi, coriandolo”, che ricollega, simbolicamente, Cracco a Bartolomeo Scappi. Se nel Cinquecento gli ingredienti importati dalle Americhe rivoluzionarono, letteralmente, la gastronomia dell’epoca, oggi si celebra la “normalità” di prodotti non più così esotici, raccontando così la necessità di affrontare il cambiamento, anche nella ristorazione, “in un arricchimento che segue di pari passo quello della società. È la storia del pomodoro, in fondo: son tutti prodotti che non facevano parte della nostra tradizione, sono stati importati da altri continenti e infine diventano protagonisti anche da noi”, ha raccontato Paolo Marchi. Un viaggio senza fine che, con continui salti in avanti e indietro sulla linea temporale, crea sempre qualcosa di nuovo. Un esempio? Il “Coniglio in royale bianca” che Cracco ha cucinato insieme a Luca Sacchi, executive chef di Cracco in Galleria, omaggio ad una carne spesso dimenticata, e cucinata con “tecniche antiche, tradizionali, portate ai giorni nostri”, come ha spiegato Luca Sacchi.

Se si parla di rivoluzione, però non può certo mancare il contributo di Albert Adrià, che, con il fratello Ferran, da Girona, ha segnato un’epoca, quella della cucina molecolare, della superiorità della tecnica, dell’innovazione e della ricerca continua su qualsiasi altro aspetto. Oggi, al centro dei pensieri dello chef catalano c’è prima di tutto il grande tema della gestione imprenditoriale dei propri ristoranti, messi a dura prova, se non in ginocchio - come testimoniano le chiusure di Tickets, Hoja Santa, Pakta e Bodega 1900 - dai due anni di pandemia. “Non sono rivoluzionario, sono un vecchio cuoco”, ha detto Adrià. “Tutto ciò che è davvero rivoluzionario prima o dopo diventa un classico, e questo è il momento di prendere in mano la concretezza. I miei colleghi dicono spesso di voler fare una cucina semplice, come se noi facessimo o avessimo fatto una cucina complicata: ma non siamo mica tonti. Non esiste la cucina semplice o quella complicata. Esiste solo la cucina buona”, dice ancora Adrià.

E qui si arriva alla questione dei costi, perché uno chef deve “valutare attentamente come deve trasformare i prodotti e valutare quale deve utilizzare, cioè quali sono le caratteristiche organolettiche più adatte allo scopo, e le materie prime dell’alta cucina non possono costare poco, l’alta gastronomia non può essere pop ma, più del food cost in sé, a incidere di più sui costi è la trasformazione”. La corsa dei costi, e lo stop al turismo internazionale, hanno portato alle chiusure ricordate in precedenza, da cui si è salvato il solo Enigma, che ha comunque subito una piccola rivoluzione, che potremmo definire “normalizzazione”, con il menu alla carta che si aggiunge al menu degustazione, e la rinuncia ad una caratteristica fondamentale di Enigma: “non potevamo più portare i clienti a consumare una pietanza da una stanza all’altra. Oggi al nostro ristorante non sono le persone che vanno alla cucina ma è la cucina che va dalle persone. Pensavo che non avrei mai più cucinato perché il futuro sarebbe stato un’altra cosa, e invece oggi sono ogni giorno ai fornelli”, chiosa Albert Adrià.

Se un paio si decenni fa era la Catalogna la culla delle rivoluzione culinaria, oggi la vitalità ai fornelli è più atomizzata, con idee, tecniche, ricette, tradizioni e prodotti riscoperti in ogni angolo del globo, ma in modo particolare nell’Emisfero Sud. Da questa consapevolezza nasce “Identità sud America”, spazio che celebra una terra diventata fucina di idee, specie in termini di sostenibilità ambientale e sociale, come hanno raccontato tre giovani cuochi: Florencia Montes, ex-Mirazur e al debutto con Onice, che aprirà a Nizza assieme al suo compagno, Lorenzo Ragni; Mariano Guardianelli, chef di Abocar due cucine, a Rimini, e Juan Camilo Quintero Merchan, il giovane chef colombiano al timone del Poggio Rosso del Borgo San Felice, resort Relais & Châteaux a Castelnuovo Berardenga. Per Florencia Montes, protagonista sul palco di “Identità Milano 2023”, è la carne, il cui consumo non va demonizzato ma responsabilizzato, in modo da rivelarsi una scelta sostenibile. A Onice, la vera rivoluzione sarà espressa da una sequenza di singole scelte quotidiane che, spesso e volentieri, corrispondono anche alle più naturali e logiche, affidandosi a produttori fidati senza forzarne la produzione, ma regolandosi con quello che offre la stagione, lavorando e trasformando gli ingredienti per preservarli e prevenire gli sprechi. Nella cucina di Mariano Guardianelli, la rivoluzione è un cambiamento lento ma continuo, quasi impercettibile eppure inesorabile. A livello gastronomico, basta un esempio: la patata. Arrivata dalle Americhe, per secoli in Europa non se n’è praticamente fatto uso, ma nell’Ottocento ha salvato gli irlandesi dalla carestia, entrando definitivamente nella dieta del Vecchio Continente. Il cambiamento, in questo senso, va saputo cogliere ed accettare, come siamo chiamati a fare oggi con ingredienti nuovi, ancora una volta dal Sud America, come la yuca, radice argentina che Guardianelli ha introdotto nel suo meno ormai dieci anni fa. Per Jaun Camilo Quintero “rivoluzione è una parola che ha un suo peso, e che ho deciso di declinare in un racconto sincero che si intreccia alla mia storia. Mi piace intitolarla, Dalle Ande agli Appennini, perché questo è nient’altro che il mio viaggio da Bogotà alla Toscana”, che parla di caffè, pepe, pomodoro e mais, ossia ingredienti fondamentali della nostra quotidianità, arrivati tutti da lontano. “La membrana della nostra identità, però, deve essere - dice Quintero - sempre semipermeabile, quindi dobbiamo sì far entrare e uscire prodotti, ma anche conoscenza”.

Restando idealmente in Sud America, c’è da raccontare, infine, l’aspetto forse più rivoluzionario della cucina, ossia la sua capacità di creare ricchezza, e quindi benessere, per un’intera comunità. È la storia della chef colombiana Leonor “Leo” Espinosa, che con il suo lavoro ha acceso un faro sulle 400 comunità indigene che abitano la Colombia, e che vanno protette, perché “conoscono la medicina ancestrale, ricette antichissime, sanno come proteggere le piante e usarle per fini di alimentazione o di benessere. Sono insegnamenti che non possono andare perduti”, come ha ricordato la Espinosa dal palco di Identità Milano. L’Amazzionia appartiene al mondo e il futuro del pianeta dipende dalla sua salvezza, tutti facciamo parte della soluzione”. Lo sforzo della chef colombiana, oggi, è a 360 gradi, e guarda oltre al proprio Paese, con quattro progetti, il primo dei quali è Funleo, fondazione che rivendica l’identità, la cultura e la gastronomia colombiana a partire dalle tradizioni indigene: “avevo appena aperto un ristorante di cucina colombiana e lì ho capito la possibilità di generare benessere grazie alla biodiversità, e da lì abbiamo iniziato a organizzare in territorio colombiano una serie di laboratori gastronomici - ben 14 - per farla conoscere, oltre a 30 workshop con i bambini per sensibilizzarli sul tema della sostenibilità agricola. Queste innovazioni hanno consentito di migliorare i processi alimentari di queste comunità. Purtroppo sono zone con grandi crisi sociali e riuscire a formare cuoche e cuochi sono strumenti di empowerment, soprattutto per le donne”, ha raccontato Espinosa. Nascono poi il progetto Zotea, dove la chef lavora con le comunità africane, portatrici di una enorme ricchezza identitaria, Sucre, che vuole far risaltare nella carta geografica della gastronomia mondiale la città di Cartagena, e Leo, il ristorante che rappresenta la biodiversità della Colombia.

Focus - Identità Milano 2023”: tutti i premi

Alla Famiglia Cerea il premio “Radici nel Futuro”, assegnato da Billecart-Salmon ad “uno chef che ha saputo dimostrare con i suoi piatti l’estremo rispetto delle sue radici raccontando il futuro attraverso la sua cucina. Una storia familiare del ristorante affine alla Maison Billecart, una delle poche in Champagne rimasta di proprietà familiare”.

Ad Andrea Aprea il premio “Identità Nuove Sfide”, perché “non è da tutti lasciare una situazione di assoluto prestigio per iniziare in piena pandemia a pensare di mettersi in proprio senza abbassare l’asticella della qualità”.

A Massimo Bottura il premio “No Waste”, con la motivazione che: “si mangia tutto, guai sprecare cibo. Se c’è un personaggio che di questo ha fatto una stella polare con risultati incredibili in tutto il mondo questa è Massimo Bottura”.

A Enrico Bartolini il premio “Identità di Cottura”, perché “quando si hanno ben oltre la dozzina di locali è innegabile che si affrontino ogni tipo possibile di cottura, panini compresi.

Ad Antonia Klugmann il premio “Identità di Territorio”, perché se la chef friulana “dovesse trasferirsi e aprire un ristorante in Puglia o Toscana, questa straordinaria figura dovrebbe cambiare totalmente materie prime perché le sue radici affondano da sempre in una porzione d’ Italia ben precisa”.

A Riccardo Monco e Alessandro Della Tommasina il premio “Cuoco dell’Anno” by Bellavista, perché “non vi è dubbio che la fama dell’insegna precede la straordinaria bravura di questi chef nel proporre una nuova versione di cucina in una struttura iconica per l’Italia”.

A Richard Abou Zaki e Pierpaolo Ferracuti il premio “Creatività in cucina”, perché “ci sono molti ristoratori e cuochi che nel tempo aprono nuove insegne e nuovi formati. In questo caso tutto è stato fatto subito e abbiamo con noi due giovani talenti le carte vini di più insegne sparse in Italia e all’estero”.

A Davide Guidara il premio “Identità Naturali”, con questa motivazione: “siamo felici di premiare un cuoco che ha imboccato una strada particolarmente difficile nel segno del mondo vegetale convincendo tutti, pubblico e critica”.

A Jessica Rosval il premio “Piatto dell’anno” con “Short ribs forever”, che rappresenta “due culture nello stesso piatto, una arriva da oltre oceano, l’America; l’altra appartiene al mondo vegetale che è sempre più importante nella ristorazione di oggi”.

A Richard Abou Zaki il premio “Vent’anni”, perché “di sicuro non è stato lo stellato più giovane d’ Italia ma lo stesso una delle menti più prolifiche che il panorama nostrano conosca, dai piatti più popolari a nuovi modi di pensare il noto, Asia compresa”.

A Sebastien Ferrara il premio “Identità di Sala”, perché “ci sono diversi esempi di sommelier particolarmente bravi in casa loro ma ce ne sono ben pochi in grado di coordinare le carte vini di più insegne sparse in Italia e all’estero”.

A Denis Lovatel il premio “Identità di Pizza”, con la seguente motivazione: “nel premiato ci ha colpito la capacità di pensare nuove forme di pizza in un territorio che certamente vocato alla stessa non è”.

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