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AL “TEMPIO DEL BRUNELLO”

“A vite ad vitam”: il vino accompagna il cammino dell’umanità e unisce popoli e religioni

Dialogo interreligioso tra Ebraismo e Cristianesimo sul senso della vite nei secoli per il Rabbino Gadi Piperno e il Cardinale Augusto Paolo Lojudice

Nei suoi 10 anni di pontificato, che si celebrano in questi giorni, Papa Francesco è stato testimone e modello del dialogo interreligioso, nella profonda consapevolezza della fratellanza di tutti gli esseri umani. E un “piccolo grande” contributo può arrivare anche dal vino, che ha accompagnato il cammino dell’umanità, unendo popoli e religioni da una parte all’altra della Terra. A partire dalle origini stesse della vite, 200 milioni di anni fa, testimoniate dai ritrovamenti di fossili nel Caucaso, nei riti pagani in onore del Dioniso greco e del Bacco romano come in quelli liturgici, ricordando la “sobrietà” nel berlo raccomandata da San Paolo, dal Medioevo, quando si produceva in conventi e abbazie, al Rinascimento che lo celebra raffigurandolo nell’arte, fino alla selezione dei vitigni per produrlo con la massima qualità, che ci porta fino ai giorni nostri. Facendoci sentire, tutti, più consapevoli e sereni nell’accostarsi ad un suo calice come un “dono di Dio” e un simbolo di vita e gioia, con la moderazione indicata nella Bibbia cristiana come nella Torah ebraica. È emerso nell’incontro “Il vino nei secoli tra due religioni: Ebraismo e Cristianesimo” (promosso, tra gli altri, dall’Arcidiocesi di Siena-Colle di Val D’Elsa-Montalcino, con Aiab-Associazione Italiana di Agricoltura Biologica, Opera Laboratori, Comune di Montalcino), nei giorni scorsi, al “Tempio del Brunello”, a Montalcino, con il professor Gadi Piperno, Rabbino capo di Firenze-Siena, e il Cardinale Augusto Paolo Lojudice, Arcivescovo di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino e Vescovo di Montepulciano-Chiusi-Pienza, che hanno spiegato come il vino, seppur in forme e maniere diverse, accomuna le due religioni, simbolo forte ed elemento che scandisce tutta la liturgia ebraica, sangue di Cristo versato sulla croce e “bevanda di salvezza” per la cristianità. “Hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento” canta il Salmo 4, indicando che l’incontro con il Signore dà molta più gioia, ma quando c’è la loro abbondanza c’è gioia per tutti.
Vino per il quale, ha sottolineato il Rabbino Gadi Piperno, “non conta avere un bollino di qualità. La vera qualità, che vuol dire affidabilità, si vede nel ciclo di vita, e non è solo una questione di soddisfazione del cliente, ma per farla bisogna crederci veramente. Che vuol dire saper investire nel produrre bene, non in quello che fa vendere di più, anche se alla lunga le due cose coincidono. Quando alziamo un calice di vino noi ebrei diciamo “L’Chaim”, che vuol dire “alla vita”. Dopo Noè, primo uomo a piantare la vite, il secondo passaggio biblico che riguarda il vino è legato alla figura di Melchisedek, che significa “re di giustizia”, e che è re di Salem, l’antica Gerusalemme, e sacerdote, e che porta con sé del pane e del vino con i quali benedice Abramo al Dio supremo Creatore del cielo e della terra, e Abramo a sua volta gli consegna un decimo di ciò che possiede, e che è il primo inizio di una società. Vino che è causa di maledizione per Cam, figlio di Noè, ma anche per Lot, nipote di Abramo, che rifugiatosi in una grotta scappando da Sodoma distrutta, tutte le notti beve vino e si ubriaca e le figlie, che credevano di essere rimaste gli unici esseri umani al mondo, commettono incesto per avere una discendenza, dalla quale nascono due popoli. Il vino può essere dunque il più sacro degli alimenti, ma può portare anche ai gesti più bassi. Nella Torah lo troviamo legato ad ogni atto di culto del Santuario e come oggetto di benedizione, come quella data da Giocobbe al figlio Giuda. Nel Deuteronomio ci sono anche delle regole che riguardano i viticoltori, che nel raccogliere l’uva dovranno lasciarne sempre una parte per lo straniero, per l’orfano e per la vedova, e tra quelle che valevano per la terra di Israele bisognava lasciare un angolo del campo a disposizione dei poveri che vi potevano prendere anche i grappoli caduti. Nell’Ottocento, quando la famiglia Rothschild acquistò un terreno in Palestina e iniziò a produrvi vino secondo tutte le regole della Torah, inviandolo alla comunità rabbinica più importante dell’epoca, anche il Nazir (colui che, nella Bibbia ebraica, si dedica a Dio per un determinato periodo di tempo, nel quale si impegna a rimanere in uno stato di purezza, ndr), si presentò per assaggiarlo per la spiritualità e la storia che portava con sé. C’è poi la Cantica che il Signore fa scrivere a Mosè il giorno prima della sua morte, e che racconta la storia del popolo ebraico, dal deserto alla Terra Promessa dove non può mancare il vino, ma che può essere anche motivo di idolatria. Quello che emerge è che il vino non è un alimento come gli altri: è molto importante, è legato al culto, può elevarci ma anche ridurci in situazioni difficili. E questo porta al fatto che nell’ebraismo al vino bisogna porre molta attenzione. Le regole del vino kosher (che si produce anche a Montalcino, nell’unica azienda, Tassi, ndr) sono complicate e tantissime, e riguardano la sua natura, ma anche la sua qualità e l’intenzione con cui viene prodotto. Un vino ottimo, ma prodotto per farne un vino per un culto idolatrico non è bevibile per noi, e non solo per una questione di ebrezza ma per la spiritualità che ha. Il vino di qualità per noi ha un livello spirituale talmente alto che deve essere prodotto al massimo livello e solo ed esclusivamente per scopi alti. Tanto che nella sua produzione nessuno può metterci mano se non ebrei particolarmente osservanti. Nella nostra storia siamo arrivati anche a proibirne la comunione con altri, ma durò poco poiché anche Rahi, il più grande commentatore del Talmud nell’anno Mille, era un commerciante di vini. Più tardi, tra Cinquecento e Seicento, anche il Rabbino italiano Joseph Pardo, dal quale discendo, si scagliò contro i vini italiani, ma in Italia, per la cultura del vino che c’è, sono rimaste regole meno stringenti. Tra le pratiche scaramantiche proibite dal Talmud, c’è quella di leggere nei fondi dei bicchieri di vino per trarne un auspicio positivo, e un altro mio discendente dice che lo si fa per se stessi, e che non si fa, perché la benedizione viene dal Signore ed è qualcosa che si trasmette. Ma io posso alzare un calice di vino e dire che sia di benedizione per qualcun altro: noi il vino lo utilizziamo in tutte le cerimonie più importanti, dallo Shabbat ai matrimoni, dalle circoncisioni al Purim e alla Pèsach, la pasqua ebraica che ricorda la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dall’Egitto, in cui beviamo quattro bicchieri di buon vino per comprendere il senso della libertà. E quando alziamo il calice diciamo “Savri Maranan” che vuol dire ponete attenzione, e tutti gli altri rispondono “L’Chaim””.
Per il Cardinale Augusto Paolo Lojudice, Arcivescovo di una Diocesi e Vescovo di territori che sono tra i più famosi della Toscana del vino, tanto che “qualcuno mi chiama “il vescovo del vino””, come ha detto nell’incontro su “Il senso della vite. Il vino tra storia e sostenibilità” “nella Bibbia il vino è citato più di 200 volte, da Mosè al Deuteronomio, dai Profeti al fatto che se Israele si converte Dio manifesta la sua generosità ai pentiti con un nuovo raccolto di uva, dai monti che stilleranno mosti e le colline saranno coltivate quando Yahweh ricostruirà la capanna di David secondo Amos a Isaia che descrive il banchetto di Dio ai fedeli con vini prelibati, dal “Cantico dei Cantici” in cui lo sposo entra nel giardino dell’amata e beve il vino nell’attesa della gioia sconfinata, all’attenzione che la Scrittura pone rispetto all’uso smodato, perché come per tutte le cose importanti se sono usate in un certo modo possono essere una salvezza o una devastazione. In particolare, sono tre le citazioni dei Vangeli che non solo raccontano di vino, ma ne fanno un elemento simbolico, a partire dalle Nozze di Cana, il primo dei miracoli di Gesù che tramuta l’acqua in vino, nel Vangelo secondo Giovanni. Attorno al vino ruotano molteplici significati, dall’entusiasmo alla semplicità, dalla scioltezza interiore alla caduta delle inibizioni e delle paure che impediscono una comunicazione reciproca, e nella Bibbia è il segno di una vita che si sgomitola, che si apre, che si mette in gioco, che si espande, che si spiega e che si vive, della gioia per la festa e dell’amicizia. La sua mancanza, invece, chiude, irrigidisce, crea sospetto, tristezza, permalosità, suscettibilità, litigiosità, malumore, pessimismo, critica corrosiva e indica la debolezza di una condizione umana in cui la gioia si è perduta e regna la tristezza. Le Nozze di Cana ci dicono che il rischio della vita è la mancanza della gioia nella nostra vita, rivelandoci che Gesù la riporta dove umanamente si è offuscata o è scomparsa. Che il vino venga a mancare significa che si inaridisce la sorgente della gioia, e si perde il gusto di fare la festa, di celebrare la vita, di fare le cose belle. Un brano che ci aiuta a riflettere su noi stessi e al guardare con ottimismo alla vita, nonostante quello che accade, perché non possiamo non avere una visione ottimistica della vita perché il mondo è nelle mani di Dio, e la Redenzione l’ha già operata Gesù con la sua morte e Resurrezione. Da qui dobbiamo partire. L’episodio di Cana è un itinerario di fede, è un percorso di fede e un cammino sinodale, e ci ricorda anche la centralità di Maria, madre di Gesù che lo invita a compiere il miracolo, nella fede cristiana, nell’intercettare il bisogno. Ma ricordo anche le parole di Gesù, sempre nel Vangelo di Giovanni, “io sono la vite e voi siete i tralci”, citando un meccanismo della natura che lui stesso guarda ed osserva, utilizzando spessissimo immagini semplici tratte dalla vita agricola, dalla coltivazione come nel caso dei semi, e dai pascoli se si pensa all’agnello. Il terzo topos dove il vino è al centro, è ciò che per noi cristiani fa la differenza, quando Gesù nella cena ebraica con i suoi discepoli, nel momento in cui nel rituale si prevedeva di mangiare e condividere sia il pane azzimo che i calici di vino, lo cambia aggiungendo che “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, fate questo in memoria di me”. È da quel momento che la nostra fede è diventata un tutt’uno con l’esperienza della Messa, che non è solo un precetto, un obbligo o un rito, ma l’incontro personale e profondo con il Signore risorto, presente nel pane e nel vino con il suo corpo e il suo sangue. Vino che è dunque fondamentale, e senza il quale non si può fare la Messa. Per noi l’Eucarestia è un segno spirituale, simbolico ma anche reale con cui Gesù ha scelto nel modo più alto di manifestarci la sua presenza, non solo spirituale e simbolica, attraverso l’azione più umana che è quella di mangiare insieme. Facendo delle ricerche ho trovato una lettera pastorale del Vescovo di Pitigliano sul vino che ne sottolinea l’uso e l’abuso, e che ci ricorda come il Creato nella Genesi è messo a disposizione dell’essere umano a patto di non toccare l’albero della conoscenza del bene e del male, e come tutto ciò che è usato nel modo giusto salva, nel modo sbagliato distrugge”.
Ma dall’Ebraismo al Cristianesimo, all’Islam, per abbracciare con uno sguardo lungo le principali religioni monoteiste, “possiamo citare anche qualche Sura tratta dal Corano - ha detto Renato Rossi, direttore del Servizio per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso dell’Arcidiocesi di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino - e in modo particolare dove si dice che in verità col vino e il gioco d’azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio, allontanando dal ricordo di Dio e dall’orazione, e per questo “ve ne asterrete”, e che indica come l’astenersi è finalizzato ad un incontro con il Signore che va oltre ed è sublime e ci supera. Ma c’è anche il giardino del Paradiso in cui ci saranno ruscelli di acqua mai malsana, ruscelli di latte dal gusto inalterabile, ruscelli di vino delizioso a bersi, ruscelli di miele purificato, e ci sarà frutta e soprattutto il perdono del Signore”.
“Tutta la Scrittura è una tavola imbandita di pane e vino citando il biblista Alonso Schökel - ha sottolineato Stefano Di Bello, cultural manager di Opera Laboratori - e con questo incontro vogliamo “leggere” questo luogo, l’antico complesso del Convento di Sant’Agostino oggi Museo Civico e Diocesano e “Tempio del Brunello”, questo territorio, Montalcino, e la vite, la vigna e il vino in una chiave profonda, fatta non solo di produzioni, che sono anche il miele, l’olio, lo zafferano ed i cereali, gli “Ori di Montalcino”, ma anche del lavoro dell’uomo che è qui è molto forte ed ha portato grandi mutazioni. Dio aspetta i frutti della sua vigna da coloro che ha inviato a lavorarla, e da tutti noi. Papa Francesco dice che proprio l’immagine della vigna è molto chiara, e rappresenta il popolo che il Signore si è scelto ed ha formato con tanta cura”.
Perché “il vino è uno degli “inchiostri” con cui è stata scritta la storia dell’umanità - ha spiegato Pino Di Blasio, capo redattore “La Nazione” - e possiamo raccontare la sua storia “in acini” cercando un tralice che li tenga insieme. Il primo è che negli anni Settanta del Novecento in Italia un italiano medio beveva 110 litri di vino all’anno, e nonostante che, senza Doc e Docg, non fosse di qualità come oggi, e forse solo in Toscana o in Piemonte eravamo più fortunati. Negli anni Ottanta avvengono tre “acini” decisivi: lo scandalo del metanolo, che mette a nudo il fatto che non si può continuare a produrre vino senza regole; contemporaneamente a Montalcino, arrivano i “barbari”, la famiglia italo-americana Mariani fondatrice di Banfi, una parola bellissima ed onomatopeica che vuol dire “balbuziente”, e con la quale gli antichi greci indicavano gli stranieri chi non parlavano la loro lingua; nel 1988, invece, Jacopo Biondi Santi porta in dono al Presidente della Repubblica italiana Francesco Cossiga la prima bottiglia di Brunello della storia, annata 1888, nel centenario celebrato dalla Tenuta Greppo dove è nato. Intanto, in Umbria, a Montefalco, Marco Caprai, giovane imprenditore, rampollo di una famiglia di merlettai, si è messo in testa di dare dignità al vitigno Sagrantino, e ci riesce, dando inizio in Italia ad una sorta di “caccia” ai vitigni diversi, dal Primitivo di Manduria in Puglia ai vini dell’Etna in Sicilia, oggi sulla cresta dell’onda. Ma nasce anche una nuova generazione di persone che Alessandro Regoli, fondatore di WineNews con Irene Chiari, chiama per la prima volta “enonauti” (poi ripresa nell’Enciclopedia Treccani, ndr), un’altra parola bellissima per indicare gli “esploratori del vino”, e dalla quale si capisce che il vino è diventato popolare, raggiungendo tutte le fasce di età, pur bevendone meno, 50 litri di vino a testa per ogni italiano nel 2010. Nel frattempo, proprio nel primo decennio del Duemila, una classifica giapponese dimostra che, in un piccolo lembo di terra tra Firenze e Siena, tra Chianti e Chianti Classico e a partire dal Duecento e Trecento, esistono nel vino le aziende familiari più longeve della storia, da Barone Ricasoli a Frescobaldi, da Antinori a Mazzei, che avevano mercato, ma molto più ristretto ed elitario di oggi. Nel 1966, l’americano Robert Mondavi voleva riassaggiare quel vino che bevve da soldato nella liberazione della Francia con lo sbarco in Normandia, e per produrlo lui stesso fondò la Napa Valley, in California, quel vino americano che Alessandro Baricco nel suo libro “I barbari” chiamò “hollywoodiano” e che volle far assaggiare a tutto il mondo e ci riuscì. E che è stato come la “Madeleine di Proust”, accendendo le papille gustative al mondo, che inizia ad interrogarsi, a partire dagli americani, come i pionieri Mariani, e in territori come la Francia, Montalcino o il Chianti Classico, per citarne alcuni in cui si è scritta la storia del vino, sul perché accontentarsi di un vino “ruffiano”, invece di “assaggiarvi” la storia. Per questo non dobbiamo piangere se consumiamo meno vino, perché oggi è un prodotto planetario che si beve in tutto il mondo. All’inizio del nuovo Millennio, l’investimento più redditizio al mondo, più di oro e diamanti, era rivendere nel 2000 un ettaro di Brunello comprato negli anni Sessanta. Concludo questa storia “in acini”, citando, tra tante storie, poesie e passi della Bibbia, la domanda più bella sul vino che canta Fabrizio De André nella ballata “Non al denaro non all’amore né al cielo”, mettendola in bocca al suonatore Jones, a cui piace bere, e che al mercante di liquore chiede: “tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?””.

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