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CONSUMI CHE CAMBIANO

AAA “vino da tavola” cercasi. Riflessioni sul ruolo di una categoria di prodotto “estinta”

Sparita anche dalla statistica, che parla di “vini varietali” o “generici”, per molti potrebbe avere un ruolo nuovo nella quotidianità del consumo
ANNATA, CONSUMO QUOTIDIANO, DENOMINAZIONI, VINO DA TAVOLA, VITIGNO, Italia
AAA “vino da tavola” cercasi. Riflessioni sul ruolo una categoria di prodotto “estinta”

AAA “vino da tavola” cercasi. Perché se è vero come dicono tutti i dati di consumo che il vino sta sparendo, lentamente, dalla tavola quotidiana di molte persone, per i motivi più diversi (questioni economiche, salutismo, cambiamento degli stili di vita e così via) - con solo un italiano adulto su due che consuma vino, per 29,3 milioni di persone, di cui solo 1 su 3 beve almeno un bicchiere ogni giorno, secondo i dati Istat analizzati da WineNews - forse è anche perché è sparito il “vino da tavola”. Di cui di fatto non si fa più menzione nel sistema del vino italiano, neanche a livello statistico, visto che, per citare le parole di “Cantina Italia”, il bollettino che monitora le giacenze, “il 56,3% del vino detenuto è a Dop, il 25,2% a Igp, i vini varietali costituiscono appena l’1,5% del totale. Il 17,0% è rappresentato da altri vini”.
Con l’espressione “vino da tavola”, o “vino generico”, che in Italia, tra gli addetti ai lavori, ma non solo, è diventata quasi dispregiativa, quasi sinonimo di vino scadente, nel sentire comune (a differenza, per esempio, del mondo anglo-americano, dove “table wine” indica in sostanza tutti i vini che non sono spumanti o fortificati, ndr). Eppure, quella del vino da tavola, o generico, è una categoria che, in primis, dovrebbe rappresentare la base della piramide qualitativa italiana, se valorizzata ed anche normata meglio di quanto non sia oggi, e poi potrebbe essere una tipologia di vini di qualità accessibile a tutti, utile a presidiare la quotidianità, appunto, e che servirebbe ai produttori anche per esprimere la propria creatività, potendo, però, comunicare bene quello che fanno.
Perché ad oggi, oltre alla comunicazione, anche la normativa di etichettatura sembra penalizzare e non poco il vino da tavola. Una riflessione che abbiamo raccolto, in questi mesi, dalla voce di tanti produttori di vino italiano, piccoli e grandi, artigiani e “industriali”, che compongono il variegato mosaico del vino italiano,
settore fondamentale non solo per l’economia, ma anche per il valore simbolico e culturale che il vino rappresenta, dall’Alto Adige alla Sicilia, dal Marche alla Toscana, e per il grande lavoro che i viticoltori fanno nella tutela del paesaggio del Belpaese. E che fa i conti, ora che il mercato non tira più come un tempo, con il “governo del limite produttivo”, che diventa un tema centrale, perché se Doc e Docg, e anche le Igp, hanno dei limiti circoscritti e fissati dai disciplinari di produzione (anche questi, secondo molti, da rivedere strutturalmente al ribasso in tanti casi, ndr), per i vini senza Indicazione geografica, il massimale è enorme, di 300 quintali per ettaro (che può, con deroghe regionali, arrivare fino a 400).
Ma al di là di questo aspetto pur importante, produrre vini generici, secondo alcuni, ad oggi è penalizzante da un punto di vista normativo comunicativo. Per esempio, sebbene i vini generici si possano produrre anche con varietà autoctone, annata e vitigno - che sono elementi importanti per raccontare e scegliere un vino - possono essere indicati solo per quelli ottenuti da varietà internazionali, come per esempio Merlot o Cabernet Sauvignon, mentre per gli altri né l’una e né l’altro. Ed, inoltre, oltre a questa differenza che in qualche modo discrimina chi sceglie un vitigno rispetto ad un altro nella stessa categoria di prodotto, è forse da rivedere anche la norma che prevede che in etichetta le menzioni che debbano essere evidenziate graficamente siano quelle generiche di “Vino Rosso” o “Vino Bianco”.
La questione, ovviamente, è delicata, e chiama in campo un impianto normativo complicatissimo come quello del vino, che risponde a norme europee, italiane, regionali, a disciplinari locali e, a volte, va detto, a logiche “di campanile” o di categoria, difficilmente comprensibili ai consumatori. Perché se un produttore fa un buon vino senza denominazione, con un vitigno storico del suo territorio, per esempio, non può nominare quel vitigno in etichetta se non va sotto Dop o Igp.
Da più parti, insomma, si avverte l’esigenza di una riflessione su quello che “fu” il vino da tavola. Tenendo ben presente che è sì vero che il vino da tavola rappresenta il gradino più basso della piramide qualitativa produttiva (con al vertice le Docg, poi le Doc ed infine le Igp, che, in ogni caso, sono primariamente garanzie dell’origine dei prodotti e non della loro bontà tout court, ricordando che, in alcuni casi, la materia prima per i vini Igp, peraltro, può essere presa da fuori regione, o dalla zona di produzione, con un massimo del 15%, ndr), ma che non per questo va svilito, ma anzi, semmai rivalorizzato in modo corretto, con un progetto organico e di visione che, ovviamente, non è semplice da calibrare e da realizzare. Ma che riguarderebbe, oggi, dati alla mano, quasi 1 litro di vino su 5 di quelli prodotti in Italia.

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