Alla ricerca di una terra perduta: Strongoli
Non ho mai conosciuto mio nonno Capalbo, nonostante io abbia sempre portato il suo nome. È stato una figura misteriosa nella mia vita, senza volto, senza storie: è morto giovane e mio padre non me ne ha mai parlato. Fino a poco tempo fa non sapevo nemmeno dov’era nato, immaginavo quel lato della mia provenienza come la scultura del Bernini a Piazza Navona: il fiume Nilo, la cui fonte era ignota, ha la testa avvolta in un telo ed è invisibile. Così era per mio nonno.
Giuseppe Capalbo è stato uno dei milioni di Italiani che hanno lasciato il Mezzogiorno prima della Prima guerra mondiale, per non tornarci mai più. Fortunatamente recentemente è cambiato qualcosa per gli americani, figli o nipoti di questi immigrati. Ellis Island ha aperto un sito internet affascinante, sulla quale è possibile rintracciare tutti i movimenti dei nostri nonni - si può vedere non solo il nome della nave che li ha portati in America, ma anche la lista degli altri passeggeri - e con un po’ di lavoro da detective sono riuscita ad identificare il suo paese natale: Strongoli, nella provincia di Crotone, in Calabria.
Ci sono stata a Strongoli, in questi giorni. Un viaggio curioso, alla scoperta di una persona alla quale sono direttamente legata, ma della quale non ho mai saputo niente. Un viaggio dell’intuizione, alla ricerca di un segno, un’immagine, un profumo al quale radicare questa figura eterea del nonno e anche me stessa. Ed è stata una scoperta dolce amara, quella di Strongoli: nel cuore della Magna Grecia, in una posizione che comanda uno dei più commoventi panorami che ho mai visto (in questo assomiglia a certe zone interne della Sicilia) fatto di alte dune piantate con olivi secolari, abitate solo da grandi vacche bianche e lente, che cercano un po’ di ombra sotto immense querce calabresi. Un paesaggio anch’esso secolare, immutabile, esattamente come mio nonno l’avrà sicuramente ricordato.
Su, nel paese, uno scempio di abusivismo inimmaginabile: come si può costruire davanti all’ingresso di una fortezza millenaria una torre dell’acqua di cemento armato alta tre piani? La povertà, la disgregazione sociale e l’abbandono si sentivano in ogni vicolo, nonostante le chiese importanti e ben curate. Però ancora adesso, in piccolissimi dettagli di balaustrate barocche, o nelle proporzioni delle finestre di un palazzo ora inabitato si percepiscono la nobiltà di un’epoca lontana, di una felicità maggiore. E l’ottimismo si ritrova anche nell’immensa generosità della gente della strada, quando si chiede informazioni, nei sorrisi delle tre ragazzine che ci hanno mostrato la chiesa madre (avrebbero potuto essere le mie cuginette?), nei profumi dei peperoni messi fuori a seccare sotto il sole, nelle viste magnifiche verso il mare che il paesino ancora domina.
Quando, nei miei primi anni in Italia, abitavo a Milano, spesso la gente mi diceva che ero molto meridionale. Allora non capivo nè la parola nè il suo significato, ma ora credo che avevano ragione: in Calabria, come in Sicilia - terra della mia nonna paterna - mi ritrovo in questi paesaggi austeri ma allo stesso tempo abbondanti, coinvolgenti. Mi ritrovo nel calore dei rapporti umani, nella generosità e apertura di questi miei popoli. In effetti, penso di aver cominciato a vivere bene quando sono scesa dal nord al sud. Nonostante tutti i problemi (e ce ne stanno), e incomprensioni culturali, qui mi sento a casa.
Strada facendo, siamo passati davanti a vigneti di Cirò che arrivano fino alla sabbia della spiaggia; davanti alla bellissima cantina di Librandi. Non potevo fermarmi quel giorno, ma ci tornerò. In questa mia terra sicuramente ci tornerò.
Letter in a bottle o, la vendita di cibi e vini per corrispondenza in Italia
“Torno subito. Devo uscire un attimo perchè sennò perdo “the last post” (l’ultima raccolta della giornata di lettere dal postbox rosso all’angolo della strada) e voglio essere sicuro che questo documento arrivi domani mattina a Kensington” dice il mio editore londinese, Alexander Fyjis-Walker, una busta in mano. In Inghilterra è sempre stato così. La posta è sempre stata affidabilissima. Anzi, se negli ultimi dieci anni è peggiorata un po’, quando ero giovane si contavano fino a tre “deliveries” (consegne della posta a domicilio) al giorno, due la mattina e uno al pomeriggio. In Inghilterra tutto si fa tramite posta (ma non in posta): si pagano tutte le bollette con assegni mandati tranquillamente in buste chiuse (figuriamoci provare a mandare i pagamenti con assegni alla Telecom o all’Enel!). Quando sono venuta a vivere in Italia, negli anni ’80, non riuscivo a concepire la vita senza assegni, francobolli e buste. Com’era possibile che qui bisognava stare ore in code in ufficio postale con la necessità di girare con la borsa piena di contanti per pagare bollette astronomiche per le telefonate all’estero? Per quanto riguardava ricevere i preziosi pacchi dalla mia famiglia in Inghilterra o America, mi sembrava un brutto scherzo: nei primi tempi mia madre mi mandava ogni mese due o tre romanzi nuovi da leggere. Più di una volta è arrivata la busta, aperta ma senza i libri dentro. E chi li voleva? Una lettera dall’America mandata via aerea metteva il tempo necessario per attraversare l’oceano a nuoto. Nei giornali italiani poi si leggeva ogni tanto di grossi magazzini trovati pieni di sacchi di lettere, nascosti lì da vent’anni… Ero disperata. Senza poter contare sulla posta la vita mi sembrava senza struttura, invivibile. Mi veniva spesso in mente l’immagine del messaggio rinchiuso in una bottiglia vuota e lanciato nel mare: le probabilità di ricevere il pacco erano più o meno quelle.
Per questo motivo sono stata quasi scioccata quando, nel ’95, ho conosciuto Alberto e Mara Del Buono. Con il suo ex-socio, Sandro Morriconi, Alberto è stato uno dei primissimi in Italia a concepire una vendita per corrispondenza già dagli anni ’70, e sopratutto un pioniere per la vendita di cibi artigianali e vini d’eccellenza - tutti rigorosamente tramite la posta. Mi sembrava una sfida pazzesca.
Sono andata a trovarli qualche giorno fa a Pienza dove hanno uno dei migliori negozi di cibi e vini che conosco, La Cornucopia. Con i Del Buono lo scambio è sempre e subito delle novità che abbiamo scoperto: un raro miele di edera, una marmellata del Vesuvio, una salsa piemontese. Alberto li conosce tutti e ha per anni girato per cercarli. È stato il primo 30 anni fa a vendere certi prodotti delle cooperative del sud, dalle peperonate fatte dalle donne calabresi a bottiglie di salsa che allora arrivavano avvolte in fogli del giornale, con tanto di vasi rotti nel viaggio. Ad accompagnarli c’erano i pesci di marzapane ripieni di marmellata delle suore di clausura Benedettine di Lecce.
“Sono sempre stato entusiasta della vendita per corrispondenza,” dice Alberto. “Sono passato dalla Fabbri Editore, dove vendevamo negli anni Sessanta collane di libri e dischi e lo Zecchino d’Oro, a pensare che si poteva anche vendere cibi in questo modo. Sandro Morriconi aveva creato nel ’71 questo Club delle Fattorie, e io gli ho portato il mio expertise sulle vendite. A quell’epoca non c’era altro sistema di distribuzione per questo tipo di prodotto. Nel ’78 mandavamo il nostro catalogo a più di 40.000 indirizzi, e conteneva immagini delle nostre confezioni miste di salumi e pecorini freschi, Vin Santo toscano e qualche barattolo di miele.” Eppure c’erano anche i vini come il Valpolicella di Hemingway di Quintarelli, o il rosso dei vigneti di Brunello di Altesino (ancora non esisteva il Rosso di Montalcino) che si vendeva a 2.200 lire la bottiglia. Abbiamo venduto fiumi di Barolo e Barbaresco” dice, ridendo. “Erano vini difficili da trovare fuori dai loro territori, e c’era moltissima richiesta. Il Vino Nobile di Montepulciano di Boscarelli del ’74 a 3.800 lire, o il Barbaresco Vigneto Santo Stefano a 7.900. Abbiamo fatto molto per fare conoscere questi vini in giro per l’Italia, e allora non c’erano ancora le guide. Vendevamo anche molto champagne, come il Clos des Goisses di Philipponnat e i grandi millesimati di Krug, con certe bottiglie che arrivavano a costare 300.000 lire l’una”.
Negli anni ’80 la loro lista era di circa 25.000 clienti, tutto senza computer fino al 1983. Poi sono cambiati i tempi, c’era Tangentopoli quando tanti grandi manager hanno smesso di spendere. Si sono aperte enoteche in tutta Italia, e la gente poteva trovare una vasta scelta di prodotti senza dover ricorrere alla posta. Ora Alberto e Mara continuano a produrre un eccellente catalogo per il loro Club delle Fattorie, dove si trova di tutto, dalle birre rare di Germania e Belgio ai vini d’auteur di tutta l’Italia, alle confetture di cipolle di Tropea o pecorini maremmani…se non potete visitarli direttamente nel negozio di Pienza, chiedete il catalogo e fidatevi della ormai quasi eccellente posta italiana. info@emporiofattorie.com
Il vino nei pubs di Londra …
Se i pubs sono da sempre i locali più d’atmosfera e belli di Londra (e della Gran Bretagna) per chi, come me, non ama la birra, c’è sempre stato poco da bere. Visto che i londinesi sono capaci di passare tutta la serata a mandar giù pints e pints di birra accompagnate solamente da patatine croccanti e noccioline, io mi ci stufavo. In quei posti il vino non esisteva. Infatti spesso evitavo di andarci, preferendo i wine bars che erano un po’ più chic e offrivano almeno qualche bicchiere di Claret o Burgundy. Negli ultimi anni però, qualcosa è cambiato, anche se raramente in favore dell’Italia dei vini. Adesso è facile trovarci una piccola scelta di vini, quasi tutti dal Nuovo mondo, con qualche vino anche del sud della Francia. “Degli Italiani, solo il Pinot grigio conta in questi contesti” spiega Nicolas Belfrage, esperto giornalista e broker di vini italiani in Inghilterra. “Nei pubs, clubs e ristoranti a Londra e nei supermercati, è solo il nome dell’uvaggio che conta e deve essere un nome facilmente riconoscibile e pronunciabile. Il Pinot grigio ha conquistato un posto in mezzo ai tanti vini del Nuovo mondo, con qualche Beaujolais per nostalgia, o Rioja o forse anche Chianti. Non importa il nome del produttore, basta che funzioni il rapporto qualità-prezzo”.
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