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“BERE IL TERRITORIO” COMPIE 10 ANNI: IL 26 MARZO, AD ALBA (CUNEO), SARA’ DI SCENA IL CONCORSO LETTERARIO DI “GO WINE”. GENERAZIONI A CONFRONTO FAR CRESCERE LA CULTURA DEL CONSUMO DEI VINI

10 anni di Bere il territorio! Una ricorrenza importante per il concorso letterario di Go Wine: l’invito a scrivere non prevede limiti di età e conduce ad una sorta di ideale confronto tra generazioni, unite dal piacere di scrivere e di raccontare il rapporto con il vino e con il mondo che lo circonda, con un particolare riferimento al tessuto sociale ed all’ambiente nel quale il vino viene prodotto. I testi dovranno pervenire entro il 28 febbraio 2011 (info: www.gowinet.it).
L’attualità di Bere il territorio è strettamente legata alla principale finalità che l’associazione persegue: contribuire in modo concreto a far crescere la cultura del consumo dei vini di qualità, mirando ad un consumatore sempre più consapevole sia nelle scelte, sia nell’attribuire il giusto valore e significato ad una bottiglia di vino.
Perché il Concorso - “Bere il Territorio”? E’ a suo modo una provocazione: “Bere il Territorio” per attribuire un valore aggiunto a ciascun vino di qualità, e apprezzare, attraverso il calice, la cultura e l’ambiente in cui quel vino si afferma. “Bere il Territorio” per rafforzare un concetto che è alla base dell’associazione Go Wine e della sua attività. Storia, tradizioni, paesaggio e vicende culturali: sono diversi i fattori che distinguono il vino da una qualsiasi bevanda. “Bere il territorio” esprime un modo di guardare al consumo con un rinnovato gusto e con una maggiore consapevolezza che va trasmessa alle giovani generazioni.

Focus - L’elaborato 2010 “over 30”
“Racconto di Notte” di Marco Volpe
“Sto seduto alla scrivania, pigio sulla tastiera del portatile nuovo e sorseggio a intervalli irregolari un rosso corposo da tredici gradi e mezzo. Dalla finestra dello studio, quello che vedo è uno spicchio di luna sbilenca e il solito pezzo di strada con gli alberi da un lato e le prostitute dall’altro.
Gli alberi sono sette e le prostitute, stasera, due, distanziate di pochi metri. La più vicina ogni tanto mi guarda. Io non chiudo mai le tendine: le donne vedrebbero comunque la luce e mi sembrerebbe di spiarle. Preferisco essere scoperto come sono nude loro. Sono sveglio - è come se dicessi - e sono qui, e scrivo, e bevo vino, e ogni tanto vi guardo.
E come me e le prostitute, è vivo e sveglio un tipo sulla cinquantina che si avvicina alla più giovane e si mette a parlottare. Discutono del freddo e della notte, immagino, e di sonno e di vino; non parlano di soldi né di sesso. La strada è semibuia e il giorno che se ne è andato, a misurarlo, distante esattamente quanto quello che arriverà. Dopo qualche minuto, i due si allontanano sotto braccio e scompaiono dal mio pezzo di strada. Io continuo a pensarli: un uomo di cinquant’anni che va a prostitute ma ci va a piedi, e una donna che di anni ne avrà trenta e fa quel mestiere lì, ma quando l’avvicini ti domanda se hai freddo e se ti piace il vino.
Entrano in una specie di taverna che apre al tramonto e chiude all’alba. L’uomo ordina una bottiglia da tre quarti di litro e qualcosa da mangiare. Siedono.
Da ragazzo lo chiamavano “il frate”, perché a venticinque anni gli erano spuntati in testa tre quarti di quella chierica naturale che adesso è poco più che una mezzaluna. Si è guadagnato da vivere e da bere facendo tutti i mestieri del mondo; in più è un pittore mancato e un mezzo filosofo, e ogni tanto chiede la carità.
Lo immagino muovere le mani e parlare disinvolto: ha un tatuaggio sul bicipite destro e la pipa, come Braccio di Ferro, ma questo non vuol dire che conosca il mare. Invece sa tutto di lune e di vini, di quando potare le viti e di come legarle perché inseguano il sole, di quanto il barolo sia più robusto del chianti e però meno fruttato, della distanza infinita tra un nero d’avola e un barbera.
Gli anni più belli e pieni della sua vita li ha passati a Parigi, dipingendo la Tour e la Seine, da tutte le angolazioni possibili più alcune che non esistono neppure. Lì, ha conosciuto l’amore che ti porti appresso più o meno per sempre, oltre a vari amoretti trasparenti di quelli che invece servono solo a tenerti vivo e arrabbiato. Per andar dietro a uno di questi, ha finito col lasciare Parigi e i quadri. È stato in Germania, Vienna, Milano. Altri mestieri e altri amoretti. Finché è capitato in questo posto qui di provincia, come per caso, ottantamila anime e la campagna intorno, niente a che vedere con Parigi ma il vino è buono.
Lei sta lì ad ascoltarlo incantata, persa a seguire i movimenti di quella barba grigia e ruvida che spostandosi su e giù racconta storie verissime o inventate bene. E ogni tanto l’uomo dice qualcosa di comico e si ferma, e allora lei ride brusca e il suo bicchiere batte sul legno del tavolo e tutti si voltano.
Mi volto anch’io, verso il pezzo di strada dove invece ogni cosa è muta, con la sola rara eccezione di una macchina che passa, o del vento ghiacciato di gennaio che sbatte contro gli alberi, o di quell’unica prostituta bionda che è rimasta sul viale e canticchia ad alta voce. È un periodo in cui non prendo sonno facilmente. Siedo, bevo vino rosso forte, ascolto canzoni che si mescolano alle storie che invento e racconto al portatile nuovo, quasi fossi anch’io un marinaio filosofo abbevazzato senza barba e senza pipa.
Il Frate tira fuori una banconota e la lascia sul tavolo, poggiandoci sopra un bicchiere di vetro perché non se ne voli via. La banconota si macchia di gocce di vino.
Al momento di uscire, lei di lui sa quasi tutto, verissimo o inventato che sia, mentre lui di lei sa solo che lavora per strada ma in un modo tutto suo, e che per essere una donna sa bere, e che in bocca ha trentadue denti bianchi bianchi che stanno benissimo sul rosso acceso della salamella che masticava fino a un attimo fa.
- Ma adesso parliamo un po’ di te. Non mi hai detto neppure come ti chiami.”

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