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BRINDARE ALLA GLOBALIZZAZIONE... CON I NOSTRI VITIGNI AUTOCTONI

Argomento non è certo dei più nuovi. Sempre più di frequente ormai si sente parlare di "gusto internazionale" e di un'omologazione del gusto dovuta ad un fenomeno che si potrebbe definire "cabernettizzazione" o "merlottizzazione" universale. L'allarme è stato lanciato, a metà degli anni Novanta dal professor Mario Fregoni, docente di Viticoltura all'Università di Piacenza. E, di recente, sia l'autorevole Fregoni che tutti mass-media del vino ad intermittenza ci ricordano questo "pericolo", che è vivo ed attivo, gode di buona salute, mai sopito in questi anni. Anzi, addirittura aumentato in questi anni.
La premessa per un dibattito serio su questo argomento è quella di abbandonare gli estremismi perchè ogni questione che si pone alla nostra attenzione contiene sia aspetti positivi che negativi; sta poi alla capacità d'analisi definirne i limiti e i confini, perché come spesso riusciamo a trasformare alcune negatività in positività, qualche volta non riusciamo a trarre sostanziali benefici dagli aspetti positivi.
Da una parte ci sono i Paesi produttori di nuova generazione, gli "emergenti" che, non avendo storia e tradizioni vitivinicole, applicano dei "modelli" nati ed affermati in alcuni Paesi d'antica tradizione che si sono imposti qualitativamente e commercialmente su tutti i mercati mondiali (ed in particolare sul modello francese, storicamente di successo, cercando di imitarne le imprese, con gli stessi vitigni e le medesime tecnologie). E, dunque, cabernet e merlot bordolesi, pinot nero e chardonnay borgognoni, sauvignon della Loira e bordolese. Vitigni molto selezionati che, con il tempo, hanno potuto acquisire carattere e personalità, così marcati e forti, da riuscire ad esprimerli (solo con lievissime diversità) in ogni parte del mondo con clima e suolo molto diversi; tecnologia di cantina molto consolidata e standardizzata tanto da essere replicabile in ogni luogo. Ma l'intraprendente nuova viticoltura non si è limitata a questo: è stata anche capace di far riemergere alcune particolarità che la Francia non aveva valorizzato: è il caso del Malbec, accantonato dai bordolesi e recuperato dagli argentini con risultati sorprendenti, o del Syrah, che portato a livelli di eccellenza dagli australiani ha rinverdito l'interesse per i vini del Rodano che in passato hanno sofferto la supremazia o lo strapotere di Bordeaux.
Dall'altra parte, i Paesi d'antica tradizione vitivinicola che si sono lasciati sedurre dalle "sirene" dei successi francesi, ciascuno a modo suo, qualcuno con una certa originalità: in Italia, la "cabernettizzazione" ha avuto origine negli anni Settanta (intesa come "modello produttivo" globale, perché in verità il cabernet è arrivato in alcune regioni subito dopo la filossera) e si è evoluta su tre fasi, distinte nel tempo e nello spazio. Prima fase, ed ancora in corso: la convinzione che anche in Italia, meglio in Toscana, si potevano fare grandi cabernet (Sassicaia), con la conseguente fioritura in molte altre regioni d'ottimi vini a base di cabernet sauvignon e merlot.
Seconda fase, con due minimi comuni divisori, uno umano (l'enologo Giacomo Tachis) e l'altro territoriale (la Toscana): è la fase che ha celebrato il grande matrimonio d'amore tra sangiovese e cabernet (Tignanello), con una rapida diffusione di tanti vini toscani di grande qualità e personalità, che hanno portato alla consacrazione dei "super-Tuscans", come li ha denominati la grande critica angloamericana.
Terza fase, la più recente ed inquietante: è quella che ha visto non solo l'ingresso sostanziale e sostanzioso del cabernet in tantissimi disciplinari di produzione di alcuni storici vini a denominazione di origine (uno su tutti, il Chianti), ma anche un uso più o meno occulto di cabernet, merlot, syrah in altri storici vini a denominazione di origine (i disciplinari che non lo prevedono e quindi lo vietano). La tendenza generalizzata è insomma quella di considerare i nostri migliori vini bisognosi di terapie ricostituenti a base di cabernet. Forse anche ignorando quello che alcuni esperti dicono del cabernet: "ha una forte inclinazione a farsi sentire anche se in piccole dosi, omologando a sé tutti i gusti". Ma il problema non è "cabernet sì, cabernet no" (ci sono, del resto, anche vie intermedie capaci di far convivere in maniera civile diverse realtà), ma è quello di togliersi da una situazione che ci sta portando, e con l'Italia anche il resto dei Paesi produttori, alla completa omologazione del gusto. In poche parole, alla noia organolettica.
Il rischio su questo argomento per l'Italia del vino è davvero molto alto: il nostro Paese, se non vuole entrare nel circolo tanto stretto (gusto) quanto vasto (offerta) di chi produce il miglior cabernet (o merlot o chardonnay) al minor prezzo, ha l'opportunità di mettere in campo un ricco panorama di antichi vitigni autoctoni di tutte le regioni (e soprattutto al Sud) che, se trattati in vigna ed in cantina come i vitigni internazionali, possono dare un ampio ventaglio di sensazioni olfattive e gustative, ricche, complesse, eleganti e, per di più, capaci di attirare l'attenzione di un numero sempre crescente di persone che, ormai annoiate dalla monotonia del cosiddetto "gusto internazionale", non aspettano altro che il gusto diventi realmente moderno, e cioè vario, colorito, molteplice, espressivo, vivace. Come lo può essere un vino fatto con gli antichi vitigni italiani.
La nostra convinzione, e conclusione, è questa: l'Italia deve andare alla scoperta degli antichi vitigni che, beneficiando delle più modeste tecniche d'allevamento, vinificazione ed affinamento, restituiscono antichi profumi, aromi e gusti (che abbiamo rischiato di perdere) ornati di nuovi bagliori e sfumature. Una vera gioia dei sensi. Insomma, non bisogna far svanire la magia del vino, perché il rischio è che svanisca di conseguenza anche il mercato. E poi se questa operazione si sta facendo egregiamente per i prodotti agroalimentari italiani di qualità (il riferimento è all'iniziativa scientifica e culturale dello Slow Food, per salvare il pianeta dei sapori a rischio di estinzione) perché non farlo anche per i vitigni autoctoni, di cui il nostro Paese è uno dei più ricchi al mondo?

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