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Come al tempo dei banchetti medicei il cibo come opera d’arte torna nei Palazzi di Firenze nella mostra “Dolci trionfi e finissime piegature. Sculture in zucchero e tovaglioli per le nozze fiorentine di Maria de’ Medici” (Palazzo Pitti, dal 10 marzo)

La sera del 5 ottobre del 1600 Palazzo Vecchio ospitò un evento memorabile: il banchetto per le nozze fiorentine dei reali di Francia, Maria de’ Medici ed Enrico IV. A suscitare la meraviglia degli invitati furono, su tutto, come racconta la documentazione archivistica conservata all’Archivio di Stato di Firenze, le sculture realizzate per l’occasione in zucchero, “alimenti decorativi” concepiti alla stregua di vere e proprie opere d’arte, esemplificate su illustri prototipi contemporanei degli scultori fiorentini di fine Cinquecento, quali Giambologna, Pietro Tacca e Gasparo Mola, insieme alle virtuosistiche piegature di tovaglioli di lino, ugualmente proposte nel corso del banchetto. A rievocare queste meraviglie, è la mostra “Dolci trionfi e finissime piegature. Sculture in zucchero e tovaglioli per le nozze fiorentine di Maria de’ Medici”, alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, dal 10 marzo al 7 giugno, promossa in occasione dell’Expo2015. Un evento storico e grandioso - fondamentale anche per gli esiti della musica e della drammaturgia moderne - di cui siamo a conoscenza in maniera dettagliata e, grazie alla puntuale “Descrizione” che ne dette Michelangelo Buonarroti il Giovane, ci sono noti tutti gli allestimenti progettati dall’architetto, scultore, scenografo ed ingegnere, Bernardo Buontalenti per la tavola regia (è in questa occasione che gli viene attribuita l’invenzione del gelato, ndr) e per quelle degli ospiti e da Jacopo Ligozzi circa il fantasmagorico mobile, una “credenza” a forma di giglio di Francia, realizzato per presentare ai convenuti al banchetto ben duemila pezzi del tesoro mediceo.
Le sculture in zucchero prodotte per il banchetto del 5 ottobre e ricordate dal Buonarroti, alcune di dimensioni considerevoli (quella che raffigurava Enrico IV a cavallo era alta due braccia, cioè 115 centimetri e aveva una base ugualmente modellata in zucchero), così come le altre ispirate alle “Fatiche d’Ercole”, alle “Divinità”, alle “Cacce” e a temi venatori e pastorali suscitarono l’ammirazione della regina e degli ospiti, qualificandosi come espressione raffinata della genialità degli artefici fiorentini in un’occasione come questa, d’importanza politico-diplomatica senza precedenti per Casa Medici.
La mostra alla Galleria Palatina - in occasione della quale Pitti Immagine per il Salone dell’alta gastronomia “Taste” ha promosso un evento speciale di preview, il 7 marzo, con uno scenografico allestimento firmato dalla Manifattura Richard Ginori - rievoca il banchetto con una suggestiva ricostruzione sia della “mensa regia”, sia della “credenza del giglio” e del suo arredo, visibili in mostra nella sala detta “di Bona” e dovute alla fantasia progettuale di Giovanna Fezzi Borella e Claudio Rocca, mentre il progetto dell’allestimento espositivo e la direzione dei lavori si devono all’architetto Mauro Linari. Fulcro della rievocazione storica è la riproduzione di alcune di quelle figure in zucchero, grazie alla sapiente manualità di Sarah e Giacomo Del Giudice che nella loro Fonderia a Strada in Chianti hanno lavorato seguendo rigorosamente le tecniche di fusione tradizionali. Accanto le fantastiche “piegature” di tovaglioli realizzate dal maestro Joan Sallas si offrono come documento e trasmissione di un’arte che vide proprio a Firenze, con questo celebre banchetto, il suo apogeo.
E trattandosi della rievocazione di un evento storico non potevano mancare le effigi dei principali protagonisti, la neo-regina Maria ed Enrico IV, così come quelle dei tanti comprimari che dettero vita alle cerimonie e ai loro apparati. Tra questi, Michelangelo Buonarroti il Giovane che ne redasse la puntuale cronaca; gli artisti che prestarono la loro opera nel produrre oggetti o nel dirigerne la realizzazione (Giambologna, Ligozzi, Cigoli, Buontalenti); i musicisti e i letterati - presenti con i libretti e gli spartiti degli spettacoli - che allietarono sia il banchetto della sera del 5 ottobre, sia la recita dell’“Euridice” rappresentata il giorno successivo a Pitti.
Tra le curiosità, la presentazione in mostra dei conti autografi e delle fatture rilasciate dagli artisti all’amministrazione medicea e relativi ai lavori fatti (soprattutto le figure in zucchero), così come quella dei bronzi originali di Giambologna e della bottega, concessi dal Museo Nazionale del Bargello e dal Musée des Beaux-Arts di Digione - che probabilmente servirono da modelli - proposti in continuità con le rispettive realizzazioni in zucchero. Ma anche l’esposizione dei suntuosi manufatti, prestati dal Museo degli Argenti, che molto probabilmente sono gli stessi che trovarono posto sulla credenza, rutilante di ori, cristalli, gemme e pietre, la sera del 5 ottobre.
Attraverso questi apparati spettacolari, rappresentazioni simboliche ed effimere del fasto mediceo, l’indagine si apre ad altre categorie, alla sociologia, al costume, all’estetica, all’economia. Come osservava l’antropologo francese Lévy-Strauss, la ritualità alimentare si manifesta per mezzo di “un linguaggio con il quale questa società traduce inconsciamente la propria struttura o addirittura rivela, sempre senza saperlo, le proprie contraddizioni”.
La mostra è a cura di Giovanna Giusti e Riccardo Spinelli ed è promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo con la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana e la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze, la Galleria Palatina e Firenze Musei.
Info: www.dolcitrionfi.it

Focus - Il racconto della mostra di Matteo Ceriana, direttore della Galleria Palatina e degli Appartamenti Monumentali di Palazzo Pitti
“Quest’occasione espositiva si prefigge una meta molto ambiziosa: evocare una grandiosa messinscena celebrativa e cortigiana del tutto effimera, scomparsa dunque immediatamente dopo la sua realizzazione. Una meta davvero improba, che solo il visitatore dovrà decidere se è stata raggiunta o meno. Infatti, che il banchetto per le nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Navarra dovesse visualizzare nel modo più grandioso un successo politico di portata internazionale era chiarissimo per tutti quelli che vi presero parte e che ne furono, insieme, spettatori e attori. La festa grandiosa era destinata a loro ma loro, gli invitati, ne erano le necessarie comparse.
Un testo di Michelangelo Buonarroti il Giovane descrive l’evento, del quale l’erede del divino altro Buonarroti era stato anche il regista, con una quantità di aggettivi magnificanti, di superlativi. In quell’“amplissima stanza” che è il Salone dei Cinquecento, in Palazzo Vecchio le nozze furono “felicissime”: alle spalle della tavola regia vi era una credenza enorme ripiena dei vasi medici di valore “inimmaginabile” e circondata da statue d’argento “grandissime” come “grandissimi” erano anche i vasi, pure d’argento. “Moltissimi” i lumi che rendevano “lucidissime” le gemme incastonate nella credenza stessa: questo inaudito tripudio di ricchezze doveva visualizzare l’entità della dote, davvero ricchissima, che la giovane principessa italiana portava al trono di Francia.
Giovanna Giusti e Riccardo Spinelli hanno a lungo studiato quest’evento per cercare di ricostruire l’impatto visivo che ebbe e che fu certamente molto significativo, e lo hanno fatto con ineccepibile metodo storico sui documenti originali, confrontando con il racconto del Buonarroti le completissime filze della contabilità medicea a ritrovare i pagamenti e i nomi di tutti coloro che avevano collaborato all’impresa. Nel descrivere la tavola regia il Buonarroti stesso sottolinea lo stupore sollevato da allestimenti artificiosi, dalle piegature “bellissime” dove “arte di disegno per nuova guisa, e maravigliosa eziandio ebbe luogo”. La meraviglia per la novità di un tale tour de force tecnico ce la immaginiamo stampata sui volti dei convitati, una meraviglia che appare precocemente barocca. Possiamo ben farci un’idea dell’effetto di quelle figurazioni guardando quelle che Joan Sallas ha preparato per l’occasione, sottolineando da parte nostra che la mostra si è potuta tentare proprio perché lui si è dedicato in questi anni allo studio profondo della tecnica delle piegature con risultati strabilianti.
Altrettanto stupefacenti furono le figure fatte di zucchero debitamente scaldato e pressato a formare “forze d’Ercole, uccisioni di leoni e tori, eroi, idoli, femmine vaghe, amoretti, fontane, mostri, edificj, templi, teatri, piramidi e altre mille invenzioni artificiosissime”. Tutto sembrava di ghiaccio, ma non si scioglieva, la tavola stessa sembrava innevata: come se un autunno inclemente - si era di ottobre - fosse entrato nella sala imbiancandola di una neve precoce. Di ghiaccio ancor oggi paiono le figure di zucchero dai modelli famosi del Giambologna e di Pietro Tacca preparate dalla Fonderia Del Giudice ricavandoli da prototipi plasmati a ricreare fedelmente i modelli.
Le sculture moltiplicate e distorte, come i visi dei curiosi e le storie cosimiane del soffitto del salone, venivano restituite dalle sfere di vetro specchiante. Sulla nostra tavola, a ricreare una eco di questo effetto, le sfere sono state generosamente approntate dalla Moleria Locchi di Firenze col sostegno dei Club Soroptimist.
L’allestimento attuale deve necessariamente suggerire in modo sineddottico quel favoloso spettacolo. Alcuni segni dovranno trasmetterci gli elementi più appariscenti dell’allestimento, come gli scarti dimensionali che certo colpirono l’immaginazione degli astanti, gli effetti luminosi complessi, la preziosità dei materiali. Il banchetto sarà evocato da uno specimen della tavola in Sala di Bona dove, dalle pareti dipinte in anni ben differenti dagli affreschi vasariani di Palazzo Vecchio, Cosimo I fa però capolino, esattamente come nel Salone dei Cinquecento.
Per evocare un grande spettacolo l’unico strumento ci è parso quello scenografico. Solo un colpo di teatro può, infatti, dare l’idea di quegli apparati. In questo abbiamo avuto la fortuna di trovare un entusiastico appoggio della classe di scenografia dell’Accademia di Belle Arti, degli allievi e dei professori titolari. Così alcuni segni determinanti dell’apparato sono stati ricostruiti, l’enorme giglio della credenza, i cavalli che la reggevano, il colore dei materiali preziosi e dell’oro distribuito, allora, a profusione. Di buon auspicio per la riuscita dell’iniziativa è il fatto di aver suscitato l’interesse di due realtà imprenditoriali di tutto rilievo come Taste, il salone dedicato alle eccellenze del gusto, e la Conad Toscana che si sono impegnati a sostenere diversi aspetti dell’evento e a comunicarlo nelle loro aree di influenza.
Una festa di nozze così grandiosa doveva essere una sorta di viatico: ma le cose non andarono del tutto come prometteva un simile splendente inizio. Enrico IV morì dopo aver procreato l’erede, Luigi XIII, e lasciando largo spazio a Maria di governare come reggente. Un destino che in casa Medici era ben sperimentato a cominciare dalla grande Caterina. Ma la fine di una tale carriera non fu felice; vittima dei mutabili e mutati equilibri europei, la regina morì in esilio senza fortuna e con il rango molto appannato. Pare vivesse in casa di Rubens, il genio artistico e il pittore gentiluomo che negli anni Venti aveva costruito in immagini il suo mito nella spettacolare serie per il Palazzo del Lussemburgo a Parigi, di certo la più bella e sontuosa biografia in immagini che sia mai stata dipinta. Maria morì oscuramente a Colonia dove la sua tomba è ignota. Così Alexandre Lenoir, nel rimontare in un grandioso pantheon funebre nella basilica gotica di Saint Denis quel che delle sepolture dei reali di Francia la Rivoluzione aveva risparmiato, a inizio Ottocento dettò una lapide collocata nella cripta per salvare almeno la memoria della regina, una severa lapide di pietra bigia. Al viandante che incuriosito si fermi a leggere la scritta oramai consunta, si rivolge la regina stessa con versi di pathos raciniano: dopo aver menzionato la sua triste storia, il suo esilio alemanno e la morte lontana dalla patria conclude esortando il viandante a ricordarla: “dis que ce triste cercueil chétivement enserre/ la Reine dont le nom coule en tout l’univers/qui n’eut pas en mourant un seul pouce de terre”. Nemmeno un pollice di terra era rimasto per la fiorentina Maria nonostante la gloria universale del suo nome.

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