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Corriere della Sera

Vino italiano, prove d’intesa con gli importatori Usa…Vinitaly al via con il motto “Keep calm”. I produttori: il peso delle tariffe va distribuito, ognuno rinunci a qualcosa… “Keep calm”, mantenete la calma. La scritta campeggia tra i padiglioni del Vinitaly. L’idea è di Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia. Uno slogan inglese antipanico del 1939, mentre Hitler avanzava. Ora il panico da fermare è commerciale: le 4.000 aziende del vino che espongono a Verona temono contraccolpi letali a causa di Trump, il Grande Daziere con l’aggravante - così la vedono i vignaioli - di essere astemio. Tra gli stand, dopo la notizia sui dazi al 20%, si punta alla riduzione del danno, declinazione dell’italiana arte di arrangiarsi: accordi tra aziende italiane e importatori o distributori americani per dividersi il mancato guadagno causato dalle tariffe trumpiane. In attesa che Bruxelles strappi un accordo più favorevole. “Certo, stiamo calmi, intanto lavoriamo per accordi di filiera - conferma Renzo Cotarella, ad di Marchesi Antinori, cuore nel Chianti Classico e due cantine negli Stati Uniti - i produttori chiedono alle aziende Usa di applicare solo in parte l’aumento. Tutte le parti possono mantenere margini di guadagno rinunciando a qualcosa. Non possiamo frenare nel mercato per noi più importante del mondo”. “Ognuno cerca in modo pragmatico una soluzione - dice Lamberto Frescobaldi, al vertice di Marchesi Frescobaldi e presidente di Unione Italiana Vini – alcuni grossi importatori chiedono che siano i produttori a sobbarcarsi il peso degli aumenti. La nostra azienda troverà un equilibrio: un po’ a loro, un po’ a noi. Ma piccoli e coop senza brand faticheranno”. “E se si tagliano i prezzi del 20% poi sarà dura risalire, serviranno anni. Servono accordi”, è convinto Alessandro Regoli, direttore di WineNews. L’Uiv ha calcolato che se la filiera dai produttori ai distributori rinuncerà a 323 milioni di ricavi, i prezzi dei vini resteranno quelli di ora. C’è anche chi è stato previdente. “Noi avevamo già scritto nel contratto che in caso di dazi”, spiega Micaela Pallini, produttrice di limoncello e presidente di Federvini - ognuno troverà una formula, ci vuole sangue freddo in questo momento”. “Anche noi ridurremo le spese negli Usa per marketing e pubblicità, risparmieremo il 20%, quanto i dazi”, rivela Fedele Angelillo, capo italiano di Mack & Schuhle, l’azienda di distribuzione che portò il Tavernello in Germania - ma non è una strategia a lungo termine, perché se non ti fai conoscere, vendi meno”. La buona notizia è che la merce già in viaggio in mare non pagherà i nuovi dazi. Salvi fino a metà maggio, quando arriveranno le navi che hanno lasciato i porti nei giorni scorsi. Così, negli uffici più riservati della fiera, si mettono a punto i nuovi contratti. Nessuna protesta contro politici e istituzioni. Si pensa al business. “Il crescendo di allarmi non aiuta - dice Scordamaglia - rischiamo di perdere solo lo 0,3% del fatturato. Purché non si risponda ai dazi alzando barriere”. La linea è stata data dalla premier Giorgia Meloni (che quest’anno ha evitato la maratona del 2024 tra gli stand): basta allarmismi. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida è d’accordo: “Siamo una superpotenza della qualità, esportiamo per 70 miliardi nel settore, 8 solo di vino. Paura e criminalizzazione di cibo e vino sono peggiori dei dazi”. Sulla stessa linea il governatore veneto Luca Zaia, che ha lasciato il congresso della Lega per salire sul palco veronese: “Elon Musk ha parlato a Firenze di un’area di libero scambio Usa- Europa, puntiamo su questo, altro che muro contro muro”. Federico Bricolo, presidente di Veronafiere, è convinto che “ce la faremo a superare questo momento”. E per mantenere la calma fa proiettare prima del taglio del nastro la foto dell’incontro di pochi giorni fa con il presidente Sergio Mattarella (“Ci sostiene”) e dell’anno scorso con il Papa, quando disse che «Il vino è un dono di Dio, fonte di gioia per ogni uomo”.

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