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Corriere Della Sera / Magazine

Il Rinascimento del vino è iniziato con il metanolo. Tra convegni e iniziative, il mondo delle cantine ricorda i vent'anni dallo scandalo che uccise 19 persone. E rischiò di strangolare il settore. Eppure, il boom partì proprio da lì. Grazie a una ricetta che vale la pena di ripercorrere. Perché può insegnare molto al resto d'Italia ... Il primo lancio di agenzia arrivò il 18 marzo. «Aperta un'inchiesta sui morti da vino». Tre uomini tra i 40 e i 60 anni, avvelenati a Milano e dintorni da barbera a poco prezzo. E vittime di quello che pochi giorni dopo sarebbe scoppiato come scandalo con etichetta incorporata, manco fosse una bottiglia Doc: il Vino-al-Metanolo. Mesi di titoli e indagini, analisi e controanalisi, navi-cisterna sequestrate e clienti in fuga dagli scaffali. Mesi di morti, uno dopo l'altro. Alla fine saranno 19. Uccisi da produttori che avvelenavano il vino riempendolo di alcol metilico. Una legge lo aveva detassato. Costava meno dello zucchero o dell'alcol etilico. E per qualcuno era diventato il modo più spiccio per far salire i gradi nelle botti e gli incassi nelle tasche. Peccato che a dosi sbagliate fosse mortale.Era giusto vent'anni fa, 1986. Anno che nelle vigne ricordano bene. Solo che la parola più usata per raccontarlo non è più «tragedia», ma «svolta». Tanto che a vederlo oggi, sembra di leggerlo con le lenti di un cannocchiale rovesciato. Tutto invertito. Proprio come lo slogan delle iniziative organizzate in questi giorni da Symbola, la fondazione per l'Italia delle qualità, Città del Vino e Coldiretti (vedi il box a pagina 66): «Accadde domani». Un modo per rileggere i fatti e capire perché invece di essere la fine di un mondo il metanolo è stato l'inizio di una resurrezione: quella che ha portato il vino a diventare una locomotiva del Made in Italy (vale 9 miliardi di euro) e, soprattutto, a cambiare pelle. In questi vent'anni, il consumo pro-capite si è inabissato: da 69 a 48,5 litri. Ma i vini a qualità garantita (Doc, Docg e Igt) sono raddoppiati (da 228 a 455). La loro quota nei consumi si è impennata (dal 10,1% al 56%). Il valore dell'export è balzato da 800 a 2.800 milioni di euro. Tradotto, vuol dire che dopo i morti, i 153 intossicati, i 15 accecati e le condanne penali (12, fino a 16 anni di carcere), il vino italiano fece una scelta netta. Ermete Realacci, deputato della Margherita e presidente di Symbola, la riassume in una parola: «Qualità, appunto. Che in questo mondo ha voluto dire tante cose: investimenti, tecnologie, valorizzazione del territorio, recupero dei vitigni autoctoni...».Non sono parole sconosciute, anzi. Di vino ormai si parla così tanto - e dappertutto - che il rischio di finire nella retorica è concreto. Ma qui la chiave è diversa. Per Realacci e i compagni di strada di Symbola (da Alessandro Profumo a Diego Della Valle, da Slow Food a Legambiente, e tanti altri) in questo passaggio dal metanolo al boom c'è dentro molto di più del fenomeno che ha reso famosi nel mondo Brunelli, Baroli e Sassicaia vari. C'è la metafora di una scelta che potrebbe - dovrebbe - contagiare altri settori. E magari insegnare qualcosa pure là dove il rischio di afflosciarsi non nasce dall'autogol di produttori infami, ma dall'assalto della concorrenza (Cina, India e via dicendo). Oppure, peggio ancora, da quel veleno più sottile dell'alcol metilico che invece di distillarsi in bottiglia ammorba l'aria e infiacchisce il Paese: «È lo spleen, la malinconia, la scarsa percezione che siamo su una frontiera del futuro», dice Realacci. Il metanolo d'Italia, oggi, è quello. Per sconfiggerlo conviene guardare a chi questa battaglia l'ha già combattuta: «Trovare in quello che c'è già una traccia di quello che si deve fare». E allora proviamo a cercarla, questa traccia. Capitolo per capitolo. Partendo da una parola che a chi non conosce bene questo mondo può suonare strana: innovazione. Dici «vino» e le prime cose che ti vengono in mente non sono proprio ricerca e hi-tech. Errore. Come spiega, e bene, una delle storia di successo più clamorose degli ultimi vent'anni: quella del Sagrantino, il rosso di Montefalco (Umbria) riscoperto da Marco Caprai. Per tradizione era un vino dolce, fatto in casa e tenuto da parte per la colazione di Pasqua. Roba da poco, insomma. Prima dell'intuizione di quel neolaureato che aveva iniziato ad occuparsi dei vigneti di famiglia proprio nell'anno del metanolo: studi, selezione, ricerca genetica. Milioni di investimenti fatti mentre i colleghi lo guardavano come un matto. Finché da quelle seimila piantine tirate su in serra e studiate da università e banche genetiche (San Michele all'Adige, Bordeaux e California) è nato un vino che sbanca regolarmente i concorsi internazionali. Con le stesse armi che hanno imparato a usare centinaia di produttori, visto che genetica e tecnologie ormai fanno il paio con quelle cantine design che spuntano sempre più spesso tra le vigne a celebrare la modernità di un mondo all'avanguardia, altro che rossi antichi. Non fosse così, non nascerebbero progetti come quelli dei Bossi Fedrigotti, che in Trentino hanno fatto un accordo con Telecom e Pirelli Labs per installare nelle vigne sensori capaci di tagliare l'uso di pesticidi. O di Donnafugata, Sicilia piena (2 milioni di bottiglie), che dà energia alle tenute affidandosi al fotovoltaico. Innovazione, quindi. È la legge numero uno della soft economy, quell'economia dell'eccellenza in tutti i campi propugnata proprio da Symbola come ricetta anti-declino. Ma anche la seconda caratteristica del «miracolo del vino» dovrebbe abbracciare tutti i settori: è il rapporto con il territorio. Profondo. «Il territorio fa nascere il vino, il vino fa crescere il territorio», sintetizza Camilla Lunelli, esponente della nuova generazione al vertice di Ferrari, celebre marchio di spumante (4,5 milioni di bottiglie e 48 milioni di fatturato). Anche qui, non è questione di poesia e retorica del terroir: si tratta di indotto, di posti di lavoro, di visitatori che in certe zone vengono a degustare vini e scoprono arte e paesaggi. L'enoturismo, oggi, vale almeno 2 miliardi e mezzo. C'è uno studio della Fondazione Agnelli che spiega come il Sagrantino sia stato un volano per l'economia di Montefalco, che prima («se andava bene») era un nome conosciuto solo per gli affreschi di Benozzo Gozzoli. «Noi siamo passati da 500 mila euro a 5,3 milioni di fatturato», spiega Caprai: «Ma è tutto il settore vitivinicolo della zona che è cresciuto di valore: da 5 a 25 milioni. I posti letto nel 1999 erano 200; oggi sono mille». Senza contare l'effetto su terre che grazie alla vigne hanno scoperto opportunità mai trovate altrove. «Per la Sicilia la svolta verso l'eccellenza è stata una chance per farsi conoscere», spiega José Rallo, anima di Donnafugata, che si laureò giusto nell'87 con una tesi sul caso-metanolo e le prospettive aperte al vino di qualità. «La chiave è proprio questa: la tipicità. Saper cogliere certi valori di una terra e trasferirli in botte. Una bottiglia di Donnafugata è un viaggio in Sicilia: profumi, terra, cultura».Il risultato è un circolo virtuoso che insegna molto anche al resto d'Italia. Togliete il Sagrantino o il Ferrari e metteteci una Ferrari - esempio preferito da Realacci -: il risultato non cambia. «Perché pure la Ferrari nasce da un mondo dove tutto si lega e lavora insieme, dai sindacati, al sindaco, al parroco di Maranello». Proprio come i vini. Che, a voler andare fino in fondo, hanno dato uno scossone anche a un certo modo di educarsi all'eccellenza. A cominciare da chi fa («convincere i contadini a diradare, cioè a tagliare alcuni grappoli per far crescere meglio gli altri, è stata una rivoluzione culturale», spiega la Lunelli) per arrivare a chi consuma. Pensate a tutto il circuito - oggi persino esorbitante - di guide, articoli, programmi tv. «A tratti magari si esagera, ma comunicare è un'altra parola chiave per chi fa prodotti come i nostri», dice la Rallo: «Per farli apprezzare, devi saper spiegare che cosa c'è dietro. Oggi questa voglia di conoscere c'è. E per noi è un bene». Dove la parola noi, ormai si è capito, può essere grande come tutto il famoso Made in Italy. «Il vino del post-metanolo non ha solo imboccato una via economica convincente: ha cambiato la cultura dei protagonisti», nota Realacci: «Vent'anni fa un vignaiolo non era percepito come un pezzo di futuro. Oggi produrre un vino buono è un motivo di orgoglio». Vero. Altrimenti non si spiegherebbero le storie di microproduttori tipo Paolo Petrilli, laurea in Scienze politiche, che in Puglia valorizza vitigni iperautoctoni come il Nero di Troia. O di personaggi come Alessandro Sgaravatti, medico che ha mollato il camice per mettersi a produrre a Monselice (Padova) un vino da far maturare nelle anfore, o Franco Maria Martinetti, torinese che puntò deciso sulla barbera anche per reagire allo scandalo metanolo (che di barbera aveva colpito), oppure, ancora, le tante altre vicende raccontate da Paolo Massobrio in un bel libro-diario in uscita l'8 marzo (Il tempo del vino, Rizzoli). Chiaro, non è tutto un idillio. Il vino italiano viene da due anni abbondanti di sboom, e solo ora il pendolo ricomincia a muoversi. «Sopravvalutazione del mercato: troppa offerta e meno domanda del previsto», sintetizza Caprai. E qualcuno ha imboccato troppe scorciatoie, pensando che bastassero l'etichetta cool e il nome azzeccato per piazzare come niente bottiglie a 50-60 euro. Ma in fondo è anche questa una controprova che la qualità paga. Un modo per potare i tralci e rafforzare la vite. «Oggi ci sono tre battaglie da fare», dice ancora Realacci: «La difesa dei nomi, patrimonio che gli stranieri spesso ci sfilano da sotto il naso. La promozione: è troppo parcellizzata. E il recupero pieno di un tesoro come i vitigni indigeni, appunto». Al posto di «vitigni» metteteci «moda», «design», «meccanica d'avanguardia»... La soft economy, insomma. Non è una ricetta che funziona anche lì?

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