Come sarà il mondo del vino nei prossimi anni, come si evolveranno i mercati esteri, cosa cambierà nel panorama produttivo italiano? Sono solo alcune delle tante, innumerevoli, domande che un intero settore si pone quotidianamente, sospeso tra le infinite possibilità di un mondo globale, e i tanti ostacoli da superare per sfruttarle appieno. È stato anche il leit motiv del talk show “Una strategia per vincere le sfide di domani”, che ha animato il Congresso degli Assoenologi n. 69, di scena a San Patrignano, condotto da Bruno Vespa, con i protagonisti, a vario titolo, del mondo enoico del Belpaese, a cominciare dall’ex sindaco di Milano Letizia Moratti (proprietaria, con il marito Gian Marco, del Castello di Cicognola, nell’Oltrepo Pavese), e dall’ex Ministro degli Esteri, e oggi vigneron in Umbria, Massimo D’Alema, protagonisti, nell’ormai lontano 2007, di quella straordinaria stagione in cui, messe da parte le differenza di vedute, il progetto dell’Expo 2015 a Milano prese corpo e sostanza, e adesso è pronto a diventare una della maggiori opportunità degli ultimi decenni, anche e soprattutto per il vino, protagonista in una vetrina senza eguali.
“Expo - ricorda Letizia Moratti - è nata per valorizzare l’Italia, è un evento internazionale, non milanese. Quando, nel 2007, abbiamo pensato al tema, abbiamo puntato su qualcosa che rappresentasse il nostro Paese, per un evento che non finisca nel 2015, ma che continui nel tempo, declinandolo secondo altre e tante angolature, tutte legate al cibo ovviamente. Siamo andati in 154 Paesi a promuovere l’Italia, all’epoca, raccontando cosa eravamo in grado di offrire, ed è stato sufficiente per battere la concorrenza della Turchia, che pure sul tavolo aveva messo 40 miliardi di euro. Il vino, in quest’ottica, è parte integrante della nostra cultura enogastronomica, anche con percorsi turistici che attraversino il Paese, lontano da Milano”. Anche per Massimo D’Alema quella dell’Expo fu “una vicenda interessante: il Governo di centrosinistra decise, tra le città candidate, di puntare su Milano, amministrata dal centrodestra, che senza dubbio aveva, come esperienza e tradizione, le caratteristiche più adeguate. Al di là delle differenze politiche, abbiamo lavorato insieme, ognuno mettendoci dentro le proprie relazioni, le abbiamo sommate, e l’Assemblea che poi ha deciso si è svolta addirittura durante la campagna elettorale, a Parigi. Il risultato fu una sorpresa, e rimane un esempio positivo del lavorare in squadra. Anche la proposta turca era interessante, aveva al centro la salute, ma il nostro progetto, legato la cibo, è particolarmente legato alla nostra tradizione e cultura, e questo ci ha aiutato. Oggi, è una grande opportunità, da non sprecare. Perché verranno milioni di persone, e se non ci uniamo di fronte a queste cose, quando lo facciamo?”.
Quello del vino, del resto, è un mondo che incrocia tante esperienze diverse, da quella politica a quella imprenditoriale, come racconta Mario Moretti Polegato, il “re delle scarpe”, che con la sua creatura, Geox, ha conquistato il mondo, ma che viene da una famiglia di imprenditori agricoli e vinicoli, come testimonia la sua storica affiliazione ad Assoenologi. “Qui - racconta Moretti Polegato - torno indietro nel tempo della mia storia. Mio padre, quando ero piccolo, mi aveva prefigurato un futuro in cantina, e oggi, grazie a mio fratello, produciamo ed esportiamo in tutto il mondo. L’enologo non è definito da quello che impariamo a scuola, è un’arte, una passione, si ha nel sangue. E questo si specchia nel prodotto del nostro lavoro. L’enologo deve fare vini buoni, ma anche rappresentare l’italianità nel mondo. Conosciamo i problemi che abbiamo, e all’estero si ricordano quasi esclusivamente la moda e la cucina, per questo il vino è alfiere della cultura dell’Italia nel mondo. Con il boom dei ristoranti italiani nel mondo, anche il vino ne godrà, per cui difendendo la cucina, si difende anche il vino. Il vino è soprattutto tradizione, se non hai storia non hai credibilità, è questa la differenza con la moda, che è un’illusione, un lavorare che fa e disfa stagione dopo stagione, che vive di innovazione. Il vino, alla fine, è bello perché a prescindere dai numeri vince sempre la bontà. E noi dobbiamo puntare su questo, sulle nostre unicità, non dobbiamo lasciarci omologare”.
Chi il mondo del vino continua a frequentarlo, anche se da una prospettiva particolare, che mette insieme aspetti commerciali ed affettivi, è Oscar Farinetti, patron di Eataly: “Io sono un mercante, sempre con le stesse persone al mio fianco. Ma non venderò, perché ho 3 figli, di cui uno enologo, che amano Eataly. Amo il vino per tanti motivi, a partire dalla nascita: papà di Barbaresco, mamma di Barolo, nato in un grande millesimo, il 1955, in piena vendemmia. Credo che chi fa vino con amore, e quindi i piccoli produttori, che fanno davvero di tutto, viva momenti bellissimi: dalla scelta dei grappoli alle decisioni in vigna, e poi c’è la cantina, il rapporto con la botte e l’affinamento del vino, quindi il marketing da curare, prima di trasformarsi in direttore vendite, girando per le fiere e per il mondo, spesso sfoggiando un inglese impeccabile. Il vino, dice la signora De Rothschild, è una cosa bellissima, perché è dura solo per i primi 200 anni”. Ma al di là dell’aspetto emotivo, c’è quello più meramente commerciale, che vive di grandi successi, ma anche di enormi limiti. “A me - continua Farinetti - il vino piace da morire, e nei miei punti vendita ha un ruolo centrale: a New York vendiamo 10 milioni di dollari di vino l’anno. Teniamo molto alle nostre enoteche. Per l’estero, dove passa il nostro futuro, dobbiamo fare delle cose: ci manca il retail, a differenze dei francesi. I nostri retailer sono provinciali, io sarò anche “figo”, ma sono piccolo, non posso certo competere con Carrefour e Auchan. Abbiamo però grandi chef e ristoranti. Per prima cosa, serve un marchio Italia, identità. Poi, la diversità: una cosa meravigliosa. Tre, la pulizia: dobbiamo fare un macrodisciplinare, in cui diciamo cosa usiamo, siamo già più avanti di tutti. E quarta cosa, saper raccontare le tre cose precedenti, come sanno fare i francesi. In Francia si sa valorizzare ogni piccola cosa. Noi, quando vado da Torino ad Alba, invece del cartello indicativo per Moncalieri, abbiamo un cartello con scritto “controllo elettronico della velocità”. Dobbiamo far lavorare bene i nostri eroi, e poi magari creare lo scenario per cui i nostri eroi possano stare un po’ insieme, è il momento di accelerare”.
Una storia di vino eccezionale è quella di Marilisa Allegrini, nome top dell’Amarone, oggi produttrice anche in Toscana, a Bolgheri, con Poggio al Tesoro, ed a Montalcino, con San Polo. “Esportiamo in 69 Paesi - racconta Marilisa Allegrini - e li abbiamo conquistati uno ad uno, nel corso di 31 anni di lavoro. Partire con la valigia e portare i nostri vini è stato naturale: la Valpolicella non era popolare né conosciuta negli anni ’80. Capii subito che era importante non solo produrre vini buoni, ma anche comunicarli. Per farlo, io parto non dalla mia azienda, ma dall’idea di generare interesse per il vino italiano e quindi per la Valpolicella. Abbiamo un bel vantaggio, la ristorazione italiana nel mondo, ma ci sono anche tante difficoltà. Ricordo il primo viaggio in Usa, quando per 10 toscani e 15 piemontesi in lista non c’era neanche un vino della Valpolicella. Oggi è diverso, merito di tanti fattori, dalla comunicazione al marketing di un territorio bellissimo come quello di Verona. L’Amarone sta avendo oggi un grandissimo successo, grazie alle caratteristiche della Corvina appassita, e grazie anche alle innovazioni tecnologiche, che l’hanno reso un vino abbinabile al cibo e comprensibile ai nuovi consumatori, a partire da quelli asiatici. Attenzione però: negli ultimi anni anche l’Amarone ha raddoppiato la produzione senza raddoppiare il fatturato, quindi attenzione al successo, perché va tutelato e valorizzato, come facciamo con le Famiglie dell’Amarone, 11 aziende del veronese, che hanno portato l’Amarone nel mondo”.
Storia ben diversa, costellata da ancora più difficoltà, è quella di Lucio Tasca d’Almerita, memoria della Sicilia enoica. “La storia della Sicilia - ricorda - è pesante. Abbiamo avuto per decenni una pessima fama, almeno fino agli anni ’70, quando si vendeva solo lo sfuso. Poi ci fu una scossa, quando i francesi smisero di importare il nostro vino, e per noi fu una grande fortuna. Da allora, prima Corvo, poi noi, iniziammo ad imbottigliare, e fu anche merito dell’enologo-manager Ezio Rivella, che a Regaleali ci insegnò come fare, cosa che non sapevamo fare. Da allora abbiamo fatto dei grandissimi passi avanti, è stata approvata la Doc Sicilia, grazie alla quale potremo accedere ai contributi comunitari, con cui potremo andare con forza sui mercati”.
Chi sul mercato ci sta da decenni, e con una forza d’urto notevole, è Santa Margherita, gruppo guidato da Ettore Nicoletto: “la storia di Santa Margherita inizia 50 anni fa, e poi progredisce rapidamente negli anni ’80, con il boom del mercato Usa e poi dell’Europa. Merito di un profilo organolettico e di uno stile nuovo. Il Pinot Grigio ha rivoluzionato l’esperienza gastronomica: rappresenta l’emblema dell’enologia italiana, si parlava di messaggio comune, ma il messaggio forte sta proprio nella sua enorme abbinabilità al cibo. I vini italiani stanno bene con tante tipologie di cibo, e la distintività, come dice Farinetti, è un punto di forza fondamentale. Ma parliamo anche di obiettivi reali: per l’export, infranto il muro dei 5 miliardi, a cosa vogliamo puntare? Renzi a Vinitaly ha parlato di 7,5 miliardi, credo si possa fare per il 2020. Anche per quanto riguarda il nostro gruppo, ci vorranno investimenti, ma si può fare. E poi dobbiamo imparare a rapportarci con le nuove tecnologie, altrimenti non riusciremo a conquistare i giovani consumatori”.
Quello della crescita, toccato da Nicoletto, è un grande tema, su cui è tornato anche Massimo D’Alema, dopo aver ripercorso le tappe della sua infatuazione per Bacco: “quello mio per il vino è un amore antico. Quando ero direttore del quotidiano “L’Unità”, nel 1988/89, lanciai “Il Salvagente”, una guida per i consumatori, e collaborai alla fondazione di Slow Food. Il mio legame con la campagna è di lunghissima data: mio padre aveva una piccola tenuta a Montefalco, venduta per amore del mare, poi la famosa barca l’ho venduta per fare il vino in Puglia. Una cosa da malati, perché per ora non ci stiamo certo guadagnando. Nel frattempo, ho conosciuto una comunità bellissima, dove regna il rispetto, dove non ci sono gelosie, e mi piace, perché ci sono passione, professionalità, spirito di gruppo, voglia di vincere insieme. Per crescere, dovremmo fare una grande campagna, partendo dall’indice che calcola la qualità della vita, uno standard calcolato dall’Onu secondo indicatori oggettivi. Noi siamo sempre, con la Francia, tra i primi 4-5 Paesi in cui si vive meglio, segno che il vino non fa male. Forse dovremmo allearci con i francesi, e raccontare che un bicchiere di vino al giorno fa bene alla salute ed alla civiltà. Se si arrivasse a un livello del genere in tutto il mondo, il mercato sarebbe 10 volte quello di oggi. Basti pensare che il vino oggi vale 60 miliardi, la Coca Cola 110 miliardi, le potenzialità sono enormi. Parafrasando un motto a cui sono molto legato, “Produttori di tutto il mondo unitevi!”. Poi sono convinto che i grandi produttori italiani debbano andare a produrre, con lo stesso stile, anche all’estero, proprio come stanno facendo da anni i francesi. Siamo una potenza, la seconda nel mondo, e allora abbiamo un enorme interesse affinché crescano tutti i mercati”.
Se c’è un fattore comune, nell’avventura enoica di tanti vip, è proprio il presidente di Assoenologi, Cotarella: “per noi fu fondamentale l’incontro con Cotarella - ricorda la Moratti - che abbiamo conosciuto proprio qui a San Patrignano, dove sta dando tantissimo, a partire da un futuro, a tanti ragazzi, che in vigna cercano e trovano la loro riscossa. Merito anche di mio fratello, che nell’Oltrepo Pavese ha ripreso una tradizione che risale al quindicesimo secolo”.
Per il futuro, poi, ognuno ha un suo messaggio, da lasciare alle nuove generazioni, a partire dai propri figli. “Per anni - dice Polegato - abbiamo esportato braccia, poi prodotti, poi fabbriche, oggi eccellenze: come conservare questa nostra leadership dagli attacchi esterni? Questa è la domanda e la sfida più importante, difendendo i nostri marchi. E attenzione ai passaggi generazionali alla guida delle aziende, che a volte distruggono il lavoro di decenni”. “A mio figlio - aggiunge Farinetti - dico: studia, tanto, ma non il vino o la campagna. Leggi, cerca di capire il mondo. Il più rimane da fare per questo il futuro è meraviglioso”. Marilisa Allegrini, invece, consiglia “ai giovani di acquisire professionalità, c’è tanto da fare in un settore bellissimo e dalle grandi prospettive”, mentre Lucio Tasca D’Almerita si augura che i propri figli “continuino a fare il vino buono e a buon mercato”. Nicoletto, infine, punta forte sulla “crescita culturale del mercato attraverso professionalizzazione e cultura. Gli enologi dovrebbero imparare meglio l’inglese: serve gente per presidiare i mercati esteri, con cultura del vino e del business”.
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