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UN TALK E UN VOLUME

Da Platone a Gillo Dorfles fino a Gualtiero Marchesi, come il “bello è il modo di far bene le cose”

La cucina è arte? Chef, filosofi e artisti riflettono con la Fondazione Gualtiero Marchesi sulla domanda che attraversa la storia della gastronomia

“L’arte della cucina mette in gioco una discussione su tutte le arti contemporaneamente. Un problema critico che non ci porta su una strada lineare, ma su un confronto estremamente opportuno nel nostro sistema e sempre attuale”. Citando lo storico dell’arte Alberto Veca, “tra i primi a perseguire il genere della natura morta dal punto di vista culturale sotto ogni aspetto” - e autore, tra gli altri, di scritti memorabili sulla storica rivista “La Gola” negli anni Ottanta in cui mostrava come temi quali il campo, l’orto, ma anche il macello o la stalla, facciano sorprendentemente parte dell’immaginario artistico di pittori e illustratori rappresentando di fatto la prima parte della catena alimentare - possiamo dire come questo fenomeno artistico rappresenti “la natura stessa del cuoco”. Così Alberto Capatti, tra i più importanti storici della gastronomia, presidente della Fondazione Gualtiero Marchesi, che ha promosso il webinar “La cucina è arte?” per la pubblicazione del Quaderno “Cucina|Opera|Arte. Riflessioni sul mestiere del cuoco” (Cinquesensi Editore, aprile 2022, pp. 128, prezzo di copertina 20 euro), dedicato ad un interrogativo che attraversa tutta la storia della gastronomia nella quale Marchesi è stato il più grande cuoco italiano, maestro della nostra cucina e dei suoi rappresentanti oggi più famosi, secondo il quale il “bello è il modo di far bene le cose, e l’arte è nel modo in cui si fa qualcosa”.
La cucina è arte è un pregiudizio che si può far risalire fino all’epoca di Platone, “quando il filosofo greco reputa la cucina una “techne” (una tecnica) finalizzata al benessere ed al piacere - ha ricordato la giornalista Eleonora Cozzella - ma possiamo considerarla anche come un’“arte di un dio minore”, o meglio, di “sensi minori”, con questo dualismo che arriva fino a Kant ed Hegel e va oltre, e per i quali sono l’udito e la vista i sensi con cui si può godere della vera arte, mentre gli altri portano al piacere”.
“La cucina non è arte se la definiamo con il significato del termine - secondo Aldo Colonetti, filosofo, storico e teorico di arte e design - me lo ha insegnato Gillo Dorfles negli anni Sessanta”, il grande critico d’arte che, “nella sua prima lezione nell’Aula 101 all’Università di Milano, entrò e disse che la rivelazione estetica è ovunque, ma l’arte soltanto in alcuni luoghi. Fu una rivoluzione per noi che pensavamo che la dimensione estetica riguardasse solo l’arte ed i musei. Ma poi questo l’ho imparato nel mio lavoro. La cucina non è arte nel senso classico perché l’arte si manifesta comunque in un’opera che non è falsificabile. Un disegno di Paola Navone, per fare un esempio, è autentico, ma la verità di quel disegno è nella sua serialità potenzialmente infinita e come tale si comporta in modo diverso. Un tema di cui discutevamo spesso con Salvatore Veca (il filosofo e accademico italiano, fratello di Alberto Veca, recentemente scomparso, ndr). Dire che non è arte non è un’affermazione negativa nei riguardi di chi fa questo mestiere. Come Achille Castiglione non è un artista, e il mio amico Renzo Piano si offende se il suo lavoro viene definito arte, perché è molto pratico, deve fare i conti con le condizioni materiali dell’esistenza, ha processi di realizzazione molto più complicati delle poesie, e il suo disegno si invera, allo stesso modo non è possibile chiamare i cuochi artisti, perché questo ce lo hanno insegnato, oltre i grandi filosofi di questo secolo, le scuole del Bauhaus e di Ulm, diretta da Tomás Maldonado, dalle quali non sono usciti grandi artisti, ma grafici, designer e progettisti, nonostante l’arte facesse parte dell’attività formativa e vi fossero artisti come docenti, ma il loro destino era un altro”. Il filosofo si fa dunque portavoce di una cucina intesa come arte applicata, “come la moda, il design e l’architettura, e che è, dunque, in buona compagnia”.
Secondo il filosofo Nicola Perullo, professore di Estetica che insegna filosofia del cibo ed estetica del gusto all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo di Slow Food, autore, tra gli altri, del volume “La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria”
(Carocci Editore, 2014), “l’utilità del discorso filosofico è quella di chiarire il significato delle parole. Ciò che a me interessa della cucina come arte, parte da un’idea di arte che probabilmente non è condivisa da molti. Nel mio libro scrivevo che la cucina è arte nella misura in cui si può intendere l’arte come una cucina, sottraendola al mito dell’individualità e dell’originalità assoluta. Noi siamo molto legati per un pregiudizio idealistico-romantico di duecento anni ad un’idea di arte che è quella che vede il genio creatore di qualcosa come individuo assoluto fuori dallo spazio, dal tempo e dai contesti. In realtà per duemila anni l’artista è considerato un tecnico e l’arte una tecnica nel fare le cose alla perfezione, senza distinzione tra arte e artigianato. Io faccio parte di quella schiera di teorici, che ha molti fautori nell’arte contemporanea, che cerca di superare il pregiudizio tra arte e artigianato, e ritengo che la cucina possa essere considerata un’arte senza artisti nella loro concezione legata alla “creatio ex nihilo”, mostrando bene che non c’è creazione dal nulla e che il cuoco è un “bricoluer” come diceva l’antropologo Claude Lévi-Strauss (adopera, cioè, ciò che si trova volta per volta sotto mano, adattando costantemente il suo progetto alle caratteristiche dei materiali a disposizione, ndr) e viceversa, che il “bricoluer” non è un artista, recuperando l’idea dell’arte come bricologe e la possibilità di vederla nella vita quotidiana. Non sono molto d’accordo con il maestro Dorfles, ma con Joseph Beuys, quando l’artista tedesco diceva che quando l’estetica incontra l’uomo, in quell’istante ogni uomo è un artista. Ma concludo dicendo anche che la cucina non è sempre arte perché dipende da come è fatta, e, come diceva Marchesi, il bello è la modalità di far bene le cose, e l’arte è nel modo in cui si fa qualcosa, con tutto e ovunque, non solo nei musei ma anche nelle case, come un pranzo di natale preparato da donne e uomini che suscita un senso di completezza e ricchezza umana che ti fa vivere. E in questo senso la dimensione umana e quella eccezionale si riavvicinano, e la cucina ha diversi gradi e livelli, da quella di un cuoco affermato a tutti quelli che cucinano nel mondo, e tra i quali noi non possiamo sapere se c’è un cuoco dilettante che fa grandi cose. La mia proposta è quella di sostituire all’idea dell’individuo quella della singolarità: la cucina è dunque sì un’arte senza artisti intesi come individui geniali isolati, ma è fatta di singoli le cui azioni possono essere anche ripetute, attraverso connessioni e condivisioni di culture, geografie, codici, materiali. Negli ultimi anni c’è un grande dibattito sulla creatività in cucina, ma perché non si dovrebbe trovare anche in un piatto di spaghetti e deve essere per forza legata a qualcosa di nuovo?”.
Di certo c’è che ci sono zone di sovrapposizione in cui il mondo dell’arte e quello della cucina si incontrano, come sostiene Massimiliano Tonelli, direttore editoriale “Artribune”, docente Iulm. “Negli ultimi 10-15 questi due settori hanno avuto una convergenza straordinaria, uno verso l’altro e con dinamiche simili, dai personalismi di chef e artisti alla caccia ai giovani talenti, dagli eventi dedicati fatti di fiere e congressi alla nascita di fondazioni. Nell’approcciarsi a questa dinamica, anche il cuoco ha due strade: fare l’artista ed essere artista. È vero che difficilmente si può parlare di arte quando il prodotto è un piatto, ma ci sono delle eccezioni e dei requisiti che se soddisfatti possono farci assimilare quel piatto ad un’opera d’arte. Marchesi, si è misurato con entrambe, ed ha fatto l’artista ed è stato un artista, citando opere ed artisti conosciuti nell’estetica dei suoi piatti e teorizzando nei suoi piatti idee come la “Meno-cucina”, trasmettendo insegnamenti ai suoi allievi come gli artisti senesi nelle loro botteghe medievali o come facevano i maestri del Rinascimento. E il gesto di dare il suo tocco quasi per caso al “Riso e oro” è proprio l’essenza di come si comporta anche un artista contemporaneo. È ancora di più Piero Manzoni in quel gesto, di quando lo cita in suo piatto”.
Convergenze che fanno riflettere l’architetto e designer Paola Navone, “sul fatto che l’arte non si mangia, ma si consuma solo con gli occhi, mentre il cibo si consuma prima con gli occhi, come fanno i giapponesi da mille secoli, e poi ovviamente si mangia. Mi piace l’idea che noi designer di moda, di prodotto e di cibo, siamo tutti sulla stessa barca. Il design italiano è nato dalla grande energia che c’era nel Dopoguerra nel voler mettere in ordine la confusione esistente nel settore, la stessa energia che ha portato alla nascita dell’alta cucina. Mi intriga molto pensare che il cibo italiano oggi è diventato il cibo del mondo, e non ci sia ristorante in cui non si trovi un nostro prodotto. Però resto convinta che più i designer stanno lontani dal cibo e meglio è, e che ci sia un’esagerazione anche nel creare interesse nei giovani per il food design, dimenticandosi che il cibo ha già una sua essenza, dalla pastasciutta della nonna al super cibo di uno chef. Chef che non sono designer di cibo, e neppure artisti, perché il loro rapporto con il cibo e i gesti che compiono sono più “sensuali””.
Artisti che sono gli interpreti di un’epoca. E gli chef? “Sarebbe bello pensare di “mangiare il Sessantotto”, quando c’era un cibo completamente diverso dall’attuale - ha detto l’artista Aldo Spoldi, docente dell’Accademia Belle Arti di Brera (autore con lo stesso Marchesi e Nicola Salvatore del volume “Il bello è il buono. Filosofia, tecnica e cucina delle belle arti”, Skira editore, 2009) per il quale arte e cucina sono vicini, perché anche il cibo crea mondi, ed in comune hanno alcuni materiali utilizzati, se si pensa ai pigmenti derivanti dall’uovo o dall’aceto o al fagiano riempito col carbone secondo un’antica ricetta con cui si fanno anche i carboncini, ma anche alla leggendaria origine del risotto allo zafferano, e che spesso sono tutti raffigurati nelle nature morte. Mi piace pensare che si arricchiscono a vicenda. In senso filosofico l’arte e la cucina possono esemplificare il “tutto”, ma rappresentare due modi diversi di fruizione artistica e spirituale, dall’esterno e dall’interno”. E ci sono esempi che li avvicinano che vanno dall’Eucarestia in cui attraverso l’ostia, ci nutriamo del corpo di Cristo, alla Eat Art di Daniel Spoerri, dall’atto del mangiare in molte performance artistiche come per Piero Manzoni e l’uovo ai saggi sul cibo di Alberto Veca. “Ma basta pensare quanti artisti siano da sempre interessati al cibo”.
Tra i più celebri chef stellati, allievi di Marchesi, Davide Oldani ha ricordato come nella cucina del maestro tutto fosse concentrato nel preparare ogni piatto alla perfezione, “ma ho la pelle d’oca quando rivedo i tavoli rotondi del ristorante in Via Bonvesin de la Riva con i piatti appena usciti e le opere di Pomodoro, Del Pezzo e Tadini, nomi di un mondo culturale e artistico che girava intorno al maestro e frequentava il ristorante, e al quale anche io ora mi sto avvicinando, ma senza fare del mio ristorante una galleria d’arte, perché sono gusti personali. Marchesi è stato il primo a scegliere opere che davano personalità al locale, ma a vincere era sempre la sua “galleria d’arte” che era la cucina. Ma era avanti anche nel comunicare l’arte. Dal “Raviolo aperto” in poi è stata una creazione continua di opere con grandi spiegazioni, fino a quelle che io non ho mai cucinato come il “Dripping di pesce” ispirato a Pollock e quelle a “L’Albereta” (nel ristorante di Gualtiero Marchesi, ad Erbusco in Franciacorta, del Gruppo Terra Moretti, ndr), continuando ad essere sul pezzo con grande stile ed intelligenza fino all’età avanzata. Penso al “Riso e oro” o lo “Spaghetto al caviale” che in questi giorni sto facendo nel mio ristorante. E tutti avevano, soprattutto, gusto, che è la vera “opera d’arte” della cucina a prescindere dall’aspetto visivo. Io stesso non ho mai approfondito il legame con l’arte, finché non ho trovato ispirazione nel Surrealismo e nelle opere di Salvador Dalì della sua Casa-Museo a Figueres, per esprimere un’idea totale di cucina. Ai tavoli al D’O a San Pietro all’Olmo, ne discutiamo con artisti come Velasco Vitali e Maurizio Galimberti, barattando come una volta le opere con i piatti. Stimoli che ho avuto dal maestro, e ho personalizzato secondo la mia idea del bello”.
“Sono appassionato alle cose belle e tra queste c’è ovviamente l’arte”, ha detto lo chef più stellato d’Italia, Enrico Bartolini, a partire dalle tre stelle Michelin al Mudec, il Museo delle Culture a Milano, “nel quale “abito” professionalmente e che mi coinvolge in tanti percorsi di artisti di diversa natura. Per me la cucina non è espressamente arte, ma suscita le stesse emozioni, e penso che rientri nella dimensione artistica ciò che le persone si trovano davanti da vivere come un’esperienza, utilizzando i loro sensi. Per me l’arte è quella rappresentata, concreta o astratta, in tutte le forme, ma a volta non amo che prenda il sopravvento sulla realtà: quando vedo una cornucopia di un grande artista rinascimentale dico che è bellissima, ma quella viva e vera, con la frutta matura e dolce con i colori giusti, mi piace di più. Ma penso anche che se la faccio io non sono un artista, se la fa Botticelli sì. La cucina si è paragonata all’arte nel tempo, nei momenti di cambiamento storico: Marchesi è stato un innovatore ed un avanguardista, e il paragone con l’arte l’ha aiutato a far emergere e a dare valore ad un concetto gastronomico importante che stava cambiando rispetto a quello tradizionale, incentrato solo sui sapori. Oggi grazie a lui e ad altri illustri colleghi che dagli anni Ottanta e soprattutto negli ultimi 15 anni hanno dato una svolta alla visione della cucina italiana anche come un lusso, siamo forse meno bisognosi di quel paragone, ma noi cuochi siamo fortunati perché possiamo parlare di cucina con un senso di prestigio che ha ormai acquisito, non solo in termini di costo come l’arte che si batte in asta, ma a livello culturale. Ma non amo il termine celebrity chef, perché semplicemente quello che faccio è cucinare bene, anche se per me la cucina non è cuocere: e qui calza il paragone con l’arte, perché tutto sta nel coinvolgere emotivamente le persone e a volte io stesso mi sento più emozionato di fronte ad un piatto, di cui conservo anche il ricordo del ristorante in cui sono stato, rispetto ad un’opera d’arte battuta da Christie’s a milioni di euro”. Con lo chef che ha aggiunto anche che “alcuni miei colleghi sono geniali, oltre che creativi, a partire da Ferran Adrià, perché sono andati oltre la capacità di selezionare ingredienti, combinarli tra loro utilizzando la tecnica e fare grandi piatti: stravolgendo la visione delle cose sono riusciti a farci volare, e reso tutto questo popolare”.
Ma oltre al gusto e all’estetica, oggi più che mai, nei piatti ci deve essere anche l’etica. “Per me l’arte deve sempre suscitare un piacere, e come per la cucina non amo le arti che mi scioccano e mi portano ad una dimensione diversa, ma devono migliorare la vita per le persone - ha spiegato Pietro Leemann, chef stellato del ristorante Joia di Milano, una vita dedicata all’evoluzione della cucina vegetariana e “cruelty free” - nel presente in cui siamo calati l’etica è fondamentale, e va di pari passo con l’estetica di ciò che è corretto fare, e come c’è un’arte morale c’è anche una cucina che deve essere sempre morale. Ricordando Marchesi, il suo tentativo è stato quello di elevare la cucina ma anche l’arte, cultore di estetica e di culture in generale, dalla musica alla filosofia, spingendo perché entrassero in una dimensione più alta di quella commerciale. E mi invitava sempre ad acquisire cultura, non formale ma profonda, per migliorarmi e per non limitarsi solo alla cucina, perché così la mia espressione di cucina sarebbe stata degna di tale nome. Nell’ultimo decennio in cucina ci si è limitati alla forma, e si è persa l’essenza di se stessi e delle cose, in oggetti bellissimi, ma che a monte hanno necessità di avere una sostanza etica. E un piatto o un’opera non possono essere solo formali, ma devono esprimere qualcosa di profondo. Mi capita spesso di mangiare ed annoiarmi, di fronte a piatti roboanti, ma che non hanno un perché. I piatti di Marchesi erano l’espressione della sua grande personalità”.
Unire l’estetica all’etica, “è uno dei lasciti di mio padre - ha detto la figlia, e musicista, Simona Marchesi - quello principale è diffondere l’importanza della cultura, perché la cultura insegna ad apprezzare tutte le cose belle, dall’arte alla cucina, sviluppando i nostri sensi. Cito una frase di mio padre che dice “io non cucino, faccio arte”, per esprimere la caratteristica del genio creativo, per il quale “errore è sopravvalutarsi, ma anche stimarsi meno di ciò che si vale”. Ciascuno viene al mondo perché chiamato, e il nostro compito è quello di cercare di riconoscere la propria vocazione. Mio padre diceva che “contiamo qualcosa in virtù dell’essenza che incarniamo e se non la realizziamo la vita è sprecata”. In ogni momento ho sempre percepito che si sia preparato il terreno per arrivare dove doveva arrivare. La rivoluzione del gusto che ha segnato la storia della cucina è il suo messaggio più importante, in una ricerca interiore di cui i suoi piatti sono il frutto. Non era nato come un cuoco, voleva fare l’artista. E, anche come eredità della sua famiglia, ha cercato di capire quale fosse l’ambito in cui esprimere al meglio la sua natura e il suo pensiero creativo. E ha dato un valore diverso alla cucina. La sua ricerca del bello e del buono, e dell’equilibrio di sapori, colori e forme, credo che si possa definire arte. Se la cucina è arte o meno arte, dipende da chi la produce e dal suo livello intellettuale e culturale”.
Capatti, Colonetti, Perullo, Tonelli e Spoldi, sono autori del “Quaderno” della Fondazione Gualtiero Marchesi, insieme a Paola Marchesi, figlia del maestro, Gianluigi Colin, Mario Franzosi, al filosofo e accademico italiano Salvatore Veca recentemente scomparso, e lo stesso Gualtiero Marchesi.

Focus - “Bello è il modo di far bene le cose”: il contributo postumo di Gualtiero Marchesi, pubblicato nel Quaderno “Cucina|Opera|Arte”
“Il rispetto profondo per la materia prima e la conoscenza puntigliosa delle tecniche portano a due risultati: non sbagliare e avvicinarsi alla verità delle cose, per riconoscere, alla fine, che l’etica è contenuta nella parola estetica.
Il senso del bello, ma aggiungerei anche il desiderio di fare le cose per bene, di esprimersi con garbo, di essere in fondo modesto e al tempo stesso intransigente nel perseguire lo scopo prefissato, esistevano già in me come risultato dell’educazione e della personalità.E bisogna anche dire che il locale in via Bezzecca dove sono nato era frequentato da artisti e intellettuali e che ero naturalmente portato per il disegno. Purtroppo, anziché a Brera, mia madre mi iscrisse a un Istituto professionale.
L’arte l’ho vissuta attraverso la musica, quando per tre anni andai a lezione di piano da un’insegnante che sarebbe poi divenuta mia moglie e vivendo intensamente la vita culturale, andando a teatro, visitando mostre e atelier di artisti.
La cucina ha permesso di esprimermi fino in fondo, l’ho considerata alla stregua di un linguaggio artistico.
A congiungere cibo e arte, a metterli in relazione è la bellezza, l’istante in cui il tempo si ferma, perché lo sguardo ha colto qualcosa che va al di là delle semplici impressioni.
Io dico che nei miei piatti c’è sempre e soprattutto un’idea.
La visione di forma e materia, unite in maniera indissolubile. Noi siamo quello che abbiamo visto e potuto fare, per cui in una ricetta rientra la tradizione e il territorio, ma non basta.
La cultura del cibo e la tecnica devono, poi, confrontarsi con la composizione; è lì che scatta la capacità o meno di essere artisti. C’è una differenza enorme tra esecutore e compositore. Quello di cui abbiamo più bisogno sono cuochi che sappiano cucinare bene e fare salute. Se non tutti i cuochi diventano artisti, non sarà certo l’arte a soffrirne.
Nell’ispirazione di un piatto seguo l’istinto, mi lascio provocare dalle situazioni, dalla curiosità, dalle coincidenze.
A volte, lo spunto è nato da un quadro come con Fontana, Manzoni, Hsiao Chin, Pollock. I piatti, ispirati all’arte nascono da un’associazione visiva, quando l’immagine del quadro entra in contatto con la materia usata dal cuoco e con le sue mani. All’inizio è soprattutto una superficie, un volume, una tavolozza di colori. Poi l’immaginazione si mette al lavoro e cerco come rendere quell’effetto, quell’emozione. Allora, pur facendo una cosa diversa, avverto fortissima la vicinanza con l’altro, pittore o scultore che sia. In questo caso, ha funzionato una fraternità di spirito, ma in altre occasioni l’ispirazione può nascere alla vista di una montagna, di un oggetto, di un paesaggio.
Mi capita, anche, di rimanere fulminato da un piatto, per la forma o il colore. Lo compro e lo lascio sul tavolo fino al giorno in cui forma e colore chiameranno a sé una ricetta. Il che non significa privilegiare la cornice, ma concepire, comporre appunto, anche in funzione del supporto.
Ricapitolando, prima di tutto occorre avere la materia dentro e conoscere a menadito le tecniche, sapere cosa nasce in quel determinato microclima, poi trovare l’idea e comporre.
Molti sbagliano, perché pensano che comporre sia decorare. Nulla di più sciocco.
La mia arte è arte della semplicità, cerca di dare corpo alla purezza. Per questo motivo ho rivalutato la gestualità in sala e l’arte di trinciare. Meno ghiribizzi nel piatto, più sostanza, più verità.
L’arte è il porsi in opera della verità. L’ho scritto in fondo al Decalogo del cuoco, perché i “dieci comandamenti” sono spirito e norma, parlano di grandi orizzonti, ma non tralasciano la buona pratica delle cose. Ogni linguaggio, compreso quello della cucina, può diventare arte, quando la conoscenza della materia e delle tecniche siano assolute e quando l’urgenza di dire superi il piano individuale e diventi universale. Con gli artisti si sta sempre bene ed è facile diventare amici. Si può discutere, ci si può infervorare, senza per questo essere aggressivi. L’arte predispone alla vera tolleranza in cui il confronto si svolge sul piano delle idee e non contro le persone.

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