Un anno fondamentale e, se vogliamo, spartiacque, è quello che si appresta ad affrontare il mondo del vino, italiano e non solo. Tanti i temi chiave sul tavolo: da un “riposizionamento” produttivo che è necessario tenga conto delle condizioni climatiche, sempre più instabili, ad una strategia nuova che deve, giocoforza, guardare ai gusti ed agli interessi della “new age” dei consumatori che appare lontana dal prodotto vino tradizionale e, quindi, più vicina a qualcosa che nel calice esprima freschezza e meno contenuto alcolico. Senza dimenticare la questione della trasparenza che rappresenta, a partire dal contenuto nell’etichetta, una sfida che, il mondo del vino, può affrontare con la sua storia e il proprio blasone facendosi portavoce in prima persona grazie ad un nuovo modello. Ma, soprattutto, serve un piano integrato e coeso di tutta la filiera, una direzione unica che gli attori di uno dei prodotti simbolo del made in Italy agroalimentare devono disegnare, tracciando i punti più importanti che vanno di pari passo con l’evoluzione di un settore che non può guardare al futuro con immobilismo. Anche di questo, WineNews, ha parlato con Attilio Scienza, docente di viticoltura all’Università di Milano, ricercatore, umanista del vino e presidente del Comitato Nazionale Vini, in una lunga intervista audio (che potete ascoltare integralmente qui). Che indica la strada da riprendere ad iniziare dalla vocazione produttiva, perché, più che quelle del mercato, le sirene da ascoltare sono in primis quelle che il territorio di origine esige.
“Abbiamo perso il vero significato della vocazione, quella che possiamo definire territoriale. La qualità di un vino - spiega Attilio Scienza - è l’espressione di un rapporto vocazionale che esiste tra l’ambiente dove questo vitigno viene coltivato e le caratteristiche del vino. La cultura del “terroir” è profondamente legata a questo concetto di vocazione. Penso che il rapporto debba essere esclusivo: se la vocazione è questa speciale idoneità di un determinato suolo a produrre un determinato vitigno, non possiamo pensare di produrre dieci vini diversi in una denominazione, c’è qualcosa che non funziona. Capisco che il mercato abbia bisogno di articolare la domanda nel tempo con vini molto diversi, prima andavano quelli più strutturati adesso quelli più leggeri, però questo vuol dire che non si deve derogare a questa idea fondamentale dell’esclusività della vocazione in una denominazione. Fare viticoltura in un territorio, significa socializzare quella natura, la denominazione è soprattutto un elemento dai profondi connotati simbolici. Quando un consumatore compra quel vino, legato a quel territorio, a quel nome, compra prima di tutto un simbolo. L’uomo ha la responsabilità di evitare un’azione troppo violenta nei confronti delle risorse naturali, questo vuol dire abitare la natura e renderla funzionale ai suoi obiettivi attraverso anche un valore antropologico che viene dato a quel territorio e anche trasformando la natura, perché se noi guardiamo i vigneti delle zone più importanti italiane e del mondo, vedremo come l’uomo ha operato una profonda trasformazione di quel territorio, di quel paesaggio. La vocazione è una cosa molto più complessa di quella che noi abbiamo in questi anni attribuito alle nostre denominazioni. Abbiamo utilizzato la denominazione non più come un esercizio di verità, che dal punto di vista greco significa rendere visibile ciò che è invisibile; Platone diceva che in quella foresta c’è già il tavolo e la barca, va solo tirata fuori, alludendo alla qualità del legno degli alberi. Ecco, la qualità di un vino è già in quel territorio, l’uomo deve solo interpretare quell’ambiente, nella scelta di quel vitigno, di quel modo di vinificare ma anche di commercializzare il vino per poter esprimere la verità. L’etichetta del vino per noi è la verità ma questo non vuol dire che in quell’etichetta mettiamo anche tutti i contenuti veri della vocazione. Dobbiamo uscire un po’ dall’ambiguità che ha oggi il terroir viticolo, che mette in una contrapposizione il mito con la realtà economica: non riusciamo purtroppo a mettere insieme le due cose”.
Ed eccoci ad un altro tema legato alle denominazioni, di cui da tempo si parla tra addetti ai lavori, e portato a suo modo alla ribalta dal recente servizio di “Report” su Rai 3: ma davvero nelle denominazioni più prestigiose e di alto valore economico, in cui la qualità delle uve e la selezione è elemento fondate, e dove semmai c’è un problema legato alla troppa ricchezza alcolica, serve il Mosto Concentrato Rettificato? Per Scienza, “la richiesta, che viene normalmente fatta per l’arricchimento col Mosto Concentrato Rettificato, è una sorte di paracadute. Vuol dire che il produttore si tutela nei confronti dell’esito dell’annata quando questa ha delle difficoltà: l’arricchimento diventa così uno strumento per normalizzare la qualità. Appare come un controsenso perché lo richiedono i siciliani come i trentini, ma fa parte del rischio del viticoltore che deve difendersi dalle inclemenze di tipo ambientale o anche patologiche, pensiamo alla peronospora ed a quello che ha fatto lo scorso anno con danni alla produzione e alla quantità. Penso che, con il cambiamento climatico, queste regole che servivano negli Anni Settanta e Ottanta del Novecento, devono essere riviste. Sarebbe interessante e di buon esempio, che le Docg più importanti decidessero di non utilizzare più l’arricchimento per fare in modo che i loro vini nascano integralmente solo dalla loro buona gestione dei vigneti. Questo lo si può fare, con il cambio climatico è molto più facile ottenere dei mosti di titolo zuccherino molto elevati, anzi, purtroppo, troppo elevati, dal punto di vista della richiesta del consumatore che vuole sempre di più vini meno alcolici. L’arricchimento che fanno i francesi, con il saccarosio di bietola, è molto più anomalo del nostro che è realizzato con dei prodotti derivati dalla lavorazione dei mosti. Il Mosto Concentrato Rettificato è veramente un prodotto di grande purezza dal punto di vista compositivo, è solamente glucosio e fruttosio che vengono ottenuti dalle uve. Però, bisognerebbe che, anche alla luce del cambio climatico, le Docg più importanti, potessero dire: “benissimo, noi crediamo nel rapporto privilegiato che esiste tra quel vitigno con quel territorio”; pensate al Sangiovese per il Brunello di Montalcino e al Nebbiolo per il Barolo, dove si usa un solo vitigno limitato ad un territorio molto preciso. Però, questo fa parte dell’autonomia che hanno le denominazioni ed i Consorzi che li rappresentano: sono loro che devono decidere. Chiaro che l’arricchimento con i mosti concentrati è in genere riservato ai vini da tavola o ai vini Igt di livello un po’ più basso”. Ma questi prodotti cambiano il sapore del vino? Ed esistono alternative sul mercato? “No, non cambiano il sapore - continua Scienza - ma esiste un’alternativa, purtroppo più cara: da qualche anno si può avere uno zucchero d’uva cristallino, ottenuto attraverso l’utilizzo di resine; la separazione di glucosio dal fruttosio dal mosto consente di cristallizzare lo zucchero che non cristallizza se vengono tenuti insieme glucosio e fruttosio. Si tratta di un prodotto di grande qualità, molto costoso, che può essere usato vantaggiosamente su vini di valore, non su tutti i vini. Potrebbe essere l’ideale per la rifermentazione in autoclave, per la rifermentazione in bottiglia dei grandi spumanti Metodo Classico”.
La storia dell’evoluzione dell’umanità, ma della vita in generale, è legata alla parola adattamento. Ma il vino italiano si sta adattando ai cambiamenti di una società che sembra andare in un futuro in cui si berrà meno vino e meno alcol? E cosa dire dei vini dealcolati, che stanno crescendo ovunque, anche in Francia, ma che in Italia non si possono ancora produrre per un incomprensibile vuoto normativo?
Secondo il docente di viticoltura all’Università di Milano Attilio Scienza “non è facile adattare in poco tempo una tradizione produttiva, che è almeno di un secolo, ai cambiamenti, da un lato climatici e dall’altro della domanda del consumatore. Lo sforzo è veramente importante: se noi pensiamo che la nostra viticultura è articolata per zone, sottozone, vitigni, tipi di vino, modificarla in poco tempo è molto difficile. Intanto si possono fare delle prime modifiche normative, a livello dei disciplinari e dei vini Dop, o con una delocalizzazione delle zone di produzione, portando la viticultura in zone dove la maturazione è più lenta oppure modificando le composizioni varietali, ritornando a dei vitigni che hanno una minore capacità di sintetizzare gli zuccheri, per esempio. Modifiche anche all’interno del disciplinare nelle produzioni per ceppo, per ettaro, nelle tecniche di vinificazione. Bisogna cercare di adattare la domanda del consumatore alle conduzioni di produzione attraverso delle regole anche per garantire l’identità del vino in cui il consumatore deve riconoscersi. Poi c’è un aspetto normativo che non è facile da risolvere perché in Italia se io tolgo alcol al vino, si entra in una norma particolare”. Una soluzione potrebbe essere che “le cantine richiedano allo Stato lo “status” di distillerie in modo tale che l’alcol, che ottengono dalla dealcolazione, sia sottoposto al controllo. Certo che prima di arrivare a produrre vini senza alcol, o vini parzialmente dealcolati, bisogna trovare delle soluzioni non così estreme. Ci sono molti rimedi, nella tecnica culturale, nella scelta delle varietà; basti pensare che noi per tantissimo tempo abbiamo puntato su selezioni clonali che dovevano produrre sempre molto alcol, bisognerebbe modificare anche i criteri di selezione. Le forme di allevamento le abbiamo sempre impostate in modo da avere poca uva per ceppo ma tanto grado, tanto zucchero, tanto alcool. Si può modificare anche la gestione della chioma, del suolo, abbiamo tante possibilità”.
In ogni caso, un punto è fondamentale: la ricerca scientifica applicata alla vigna e al vino è un pilastro per il futuro del settore. E se una buona parte della capacità della vite di adattarsi ai cambiamenti climatici, compresa la scarsità crescente di acqua, passa anche dallo sviluppo delle Tea, le Tecniche di Evoluzione Assistita attraverso la genetica, anche il tema della “certificazione” dell'origine del vino in bottiglia, fulcro di un sistema che basa molto del suo valore aggiunto proprio sulla territorialità del vino passa dallo studio e dalle tecniche di analisi. Ma servono dati statistici specifici che ad oggi, per quello che sono, non sono sufficienti. “Le condizioni dell’annata sono mutevoli, solo il territorio ed il vitigno non cambiano, è un punto fisso, e già in passato si è capito che dalle analisi di isotopi e altre molecole contenute nel vino si può capire se viene da un determinato luogo o no. Ma serve una banca dati che il Ministero delll’Agricoltura aveva iniziato a fare, ma che poi si è interrotta, ed i dati che abbiamo oggi sono insufficienti per essere sicuri che il dato di quel vino sia riferibile a quell’ambiente dove è stato poi prodotto”.
In questo senso, spiega il professor Scienza, è interessante ed importante il progetto della Fondazione “Vino Patrimonio Comune” che unisce Federvini e Alleanza delle Cooperative Italiane-Agroalimentare, come abbiamo raccontato qui, “che ha questo obiettivo - spiega Scienza - ovvero di creare una grande banca dati che consente di verificare l’origine del vino, per evitare, anche come deterrente psicologico, confusione e frodi”. Con un riferimento, fatto da Scienza, ai vini del Sud ancora usati come vini “da taglio” per produzioni del Nord, per esempio. “Questo non deve essere più fatto, ognuno deve valorizzare i propri prodotti, nei propri territori, con le proprie caratteristiche. Dobbiamo garantire di nuovo l’autenticità e la sostenibiltià dei prodotti, delle imprese e dei territori e questa Fondazione è una grandissima iniziativa per rimettere ordine. Ma dobbiamo avvicinarci, intanto, al criterio di sostenibilità, con le varietà resistenti che miglioreranno sempre di più per essere vicine, come caratteristiche, ai vitigni autoctoni. Però, certamente, il salto lo faremo quando potremo creare queste varietà resilienti attraverso la modificazione genetica”.
Spazio ai buoni propositi per il 2024, infine: “la cosa più importante - conclude il professor Attilio Scienza - è creare una grande alleanza lungo la filiera. Noi non abbiamo ancora un grande progetto di una viticultura italiana che tenga conto di tutte le componenti della filiera, dal vivaismo al consumatore. Non c’è una sintonia. Bisogna arrivare agli Anni Trenta (del 2000, ndr) con un progetto comune, la Francia ha prodotto uno studio molto interessante, quattro scenari con i quali ha disegnato le prospettive di sviluppo del settore vitivinicolo (che vi abbiamo raccontato qui, ndr). Ci vuole anche coraggio, come ha fatto la Francia, a dire che si devono togliere 100.000 ettari di vigna. Noi dobbiamo tornare indietro ed avere l’umiltà e il buonsenso di dire che abbiamo messo la vite dove non andava messa. Ci vogliono una serie di progetti dove, tutte le componenti della filiera possono dire la loro idea e, su quello, fare il nuovo piano vitivinicolo nazionale. C’è anche un problema grave di consumo che diminuisce. Tutte queste cose vanno valutate e risolte”.
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