Gli anni Settanta, Ottanta e Novanta del Novecento, “quando il mondo del vino italiano era alla ricerca di un’identità”, nel passaggio “da prodotto agricolo a quello più evoluto di alimento (di lusso) per il consumatore”, e di una posizione sul mercato estero: sono questi gli anni segnati dalla presenza di uno dei protagonisti più rappresentativi della nostra enologia, e tra i personaggi più in vista sul mercato vitivinicolo italiano ed internazionale. Ripercorrendo un’epoca fondamentale per il vino italiano, segnata dal suo “rinascimento” qualitativo e dall’arrivo nelle tavole del mondo, il Cavalier Ezio Rivella, che oggi ci ha lasciato, racconta che cosa vuol dire essere “Un enologo a tutto tondo” in una memoria inedita affidata a WineNews.
Una narrazione autorevole, ricca di particolari - compresi quelli autobiografici e sui numerosi incarichi pubblici e privati rivestiti, a dimostrazione di come avessero per Rivella lo stesso valore (come testimoniano anche i ricordi che abbiamo raccolto di alcune delle più importanti personalità del settore dopo la sua scomparsa) - e, nonostante i necessari tecnicismi, chiara e schietta, che rispecchia appieno il primo enologo-manager della storia del vino italiano che è stato anche un grande comunicatore, soprattutto verso i tanti giovani professionisti che ha voluto al suo fianco per trasmettere la sua eredità a tutto campo (fu il primo ad introdurre anche la comunicazione nell’attività aziendale, con personale specializzato appositamente dedicato, avvalendosi del contributo di professionisti come Alfredo Ferruzza, Franco Piccinelli, Stefano Milioni, Alessandro Regoli, che all’epoca muoveva i primi passi nel mondo della comunicazione e oggi direttore WineNews, e Pino Khail, fondatore della rivista “Civiltà del Bere”, con la quale ha collaborato e con il quale ha partecipato alle prime presentazioni di vini nei mercati del mondo). Pagine che vi invitiamo a leggere per la loro attualità (sfogliando la gallery), che siate esperti oppure curiosi.
La realizzazione dell’“azienda ideale” con la creazione di Banfi a Montalcino ha qualificato l’opera di Ezio Rivella, membro dell’Accademia della Vite e del Vino, dell’Academie International du Vin e dell’Academie Amorin, nominato “Cavaliere al Merito del Lavoro” nel 1985 dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, mettendo in secondo piano le altre sue benemerenze. Ma, del resto, quell’investimento “monstre” ha caratteristiche “al di fuori del comune, mai concepite in Italia”, dove all’epoca le aziende non possedevano vigneti (“o al massimo qualche podere”): il concetto che il vino si produce in vigna, che è titolare della Denominazione e spesso anche del Marchio, è nato in Francia e si è sviluppato in tutto il mondo, con i Paesi nuovi produttori, dalla California - dove Rivella si recò per vedere con i propri occhi come avvenivano le visite in azienda, come erano le cantine d’avanguardia grazie alle moderne tecnologie, ed aver chiara l’importanza delle strutture di accoglienza, della vendita diretta e del marketing, per poi fare di tutto questo di Banfi un modello in Italia - al Cile, dall’Australia al Sud Africa, “che sono stati i primi a capirne l’importanza, lanciando l’“azienda verticale”, di dimensioni economiche a misura del mercato”.
Una formula di cui Rivella intuì la potenzialità per il futuro del vino, “senza sottovalutarne l’organizzazione e gli ingenti capitali che richiedeva”, ma “illuminato”, e “illuminando” i fratelli Mariani, del fatto che, a Montalcino, esisteva un territorio - “tutto sassi e rovi, ma con terreni in quantità a prezzi irrisori, e, per giunta, con la prospettiva di produrre un vino di buona qualità” - per un investimento a lungo termine (“ci vogliono 10 anni da quando si programma una bottiglia di Brunello a quando si immette sul mercato”) che partiva dal mercato per arrivare alla vigna. E nonostante nello stesso territorio il suo sogno fosse considerato più “una pazzia”, e quelli fossero gli anni peggiori per l’immagine dell’Italia nel mondo, per la sua economia e lo Stato, con il sequestro Moro e le Brigate Rosse. Ma ciò che è arrivato fino a noi, è l’organizzazione di un’azienda agricola - perché del resto era ed è l’agricoltura a rappresentare la storia e l’anima del nostro Paese e del territorio del Brunello di cui Banfi è stata la “locomotiva”, con la produzione passata in pochi anni da 1 milione a 10 milioni di bottiglie - che ha fatto scuola, per efficienza, metodi avanzati di coltura non solo della vite, meccanizzazione spinta, schieramento di macchinari e irrigazione delle vigne, oltre che, ovviamente, per le cifre in gioco, senza perdere di vista il primo obbiettivo: “la qualità”.
Da qui in poi, “Il Cavaliere” è diventato per tutti l’“enologo-manager”. Eppure, nato nel 1933 da una famiglia di piccoli produttori di Barbera “particolarmente fine”, in un’“aziendina” tra Langhe e Monferrato, dopo la Scuola Superiore di Viticoltura ed Enologia di Alba, da giovane tecnico, alla fine degli Anni Cinquanta, già aveva affrontato difficoltà ben superiori alla sua esperienza, e tra le ricerche e le invenzioni enologiche, alla guida della Cantina Sociale di Marino di Ciampino nei Castelli Romani, aveva istallato il primo impianto di imbottigliamento a caldo in assenza di ossigeno ed elaborato un sistema di “flash pasteurization”, per risolvere l’endemico problema dei lieviti e della “Casse ossidasica” dei loro vini bianchi, così da poterli spedire in tutto il mondo. E mentre i suoi metodi di stabilizzazione biologica con l’inattivazione termica venivano adottati “da grandi produttori di vini giovani” del Centro Sud Italia, e l’Enoconsult, l’azienda di consulenze internazionali da lui pionieristicamente fondata (con un’equipe di enologi, ma anche architetti, ingegneri e tecnici di cantina) iniziava a progettare centinaia di cantine, già negli anni Sessanta le riviste straniere specializzate definivano Rivella tra i migliori enologi d’Italia e del mondo.
Ad aver un successo enorme, fu il vino simil Lambrusco creato con le Cantine Riunite di Reggio Emilia per il mercato Usa (dove rappresentavano il 50% del vino venduto), su richiesta di John Mariani, il fondatore di Banfi, che voleva un vino da consumare nei momenti di relax che ricorda la crescente richiesta di oggi dei vini low-alcol: partito nel 1968, nel 1970 aveva già venduto 1 milione di casse di bottiglie (con tappo a vite!), che diventeranno 13 nel 1985, mentre in occasione dell’Esposizione Mondiale di Bordeaux il grande enologo e ricercatore francese Emile Peynaud invitava Rivella a tenere una conferenza su questo vino. E nel mentre che, da un lato si dedicava alla riscoperta del Moscadello, il vino storico di Montalcino nei calici di poeti e letterati ben prima del Brunello, e dall’altro creava il vino monodose in bottigliette da 100 cc (altro attualissimo trend), il Nano del colosso del beverage San Pellegrino.
Peynaud, ma anche Helmuth Müller Spaeth, Pierre Bedot, Jacques Puisais, Michel Rolland, Maria Isabel Mijares, Concha Llaguno, Jean Crettnand e Pascal Riberau-Gayon, già direttore della Facoltà di Enologia di Bordeaux - “una delle massime autorità della scienza enologica” che “periodicamente veniva a Montalcino per degustazioni, confronti, consigli” - e, ancora, Giovanni Dalmasso, Clemente Tarantola, Italo Eynard, Tullio De Rosa, Weiner Salati, Attilio Scienza, Luciano Usseglio-Tommaset, Cesare Intrieri, Giulio Margheri, Aureliano Amati e Arturo Zamorani, sono tra i principali studiosi e ricercatori del settore, italiani e stranieri, con i quali, racconta Rivella, ha mantenuto costantemente contatti e relazioni.
Difficili da sintetizzare - senza i suoi suggerimenti! - ma tra le pagine, Ezio Rivella racconta anche come nei lunghi anni in cui ha coordinato il gruppo di esperti internazionali dell’Oiv-Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino, della quale nel 1998 è stato nominato vice-presidente, si è occupato degli aspetti sociali del consumo di vino, sviluppando il concetto che un bicchiere di vino al giorno aiuta a vivere meglio e più a lungo.
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