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FIASCO TOSCANO: UNA STORIA LUNGA 700 ANNI

Il vocabolario dell’Accademia della Crusca nel 1887 lo descriveva così: “un vaso di vetro, rotondo e corpacciuto, senza piede, con una copertura di erba palustre che cinge il corpo e forma a piè di questo la base…”. A quell’epoca il fiasco era già diventato un recipiente di uso comune, esportato fuori dai confini del nostro paese e testimonial d’eccezione del vino italiano nel mondo. Ma ripercorrere la storia del fiasco dalle sue origini significa fare un viaggio a ritroso nei secoli.
Le prime testimonianze sulla realizzazione di fiaschi in Toscana si hanno in concomitanza con la nascita e lo sviluppo dell’arte vetraria, alla fine del Duecento. Nelle zone della Val d’Elsa e del Val d’Arno (Empoli, Montelupo Fiorentino) numerosi mastri vetrai cominciarono a produrre oggetti di uso comune, soprattutto bicchieri e fiaschi. Fin dai primi anni del Trecento si diffuse la figura del rivestitore di fiaschi, che impiegava un’erba palustre molto diffusa in stagni e acquitrini, localmente chiamata sala o stiancia. E forse fu proprio il suo abito impagliato a decretare il successo del fiasco come contenitore per il vino.
Amato da Boccaccio e Galilei
A quel tempo il fiasco era diverso da come siamo abituati a vederlo oggi: il rivestimento arrivava fino alla bocca del recipiente, con le cordicelle di stiancia disposte orizzontalmente, e ne esistevano varie misure. C’era il fiasco grande, detto di quarto (pari a 5,7 litri), il fiasco medio, o di mezzo quarto (pari a 2,28 litri) ed infine quello piccolo, definito di metadella (pari a 1,4 litri) Scrittori e poeti hanno tramandato la fama raggiunta dal fiasco in epoca rinascimentale. Giovanni Boccaccio lo cita più volte nelle novelle del Decamerone, definendolo il recipiente ideale per contenere “il buon vino vermiglio”, Leonardo da Vinci e Michelangelo lo elogiano nei loro carteggi, Lorenzo il Magnifico si fa puntualmente spedire dalla madre Lucrezia de’ Medici fiaschi pieni di vino. Anche i pittori hanno lasciato testimonianze sulla sua diffusione. Il Botticelli raffigura due grandi fiaschi appoggiati ad un albero nel dipinto del Banchetto per Nastagio degli Onesti, ed il Ghirlandaio nell’affresco "La nascita di Giovanni Battista" dipinge un’ancella con due fiaschi legati al polso, che contenevano probabilmente vino aromatico da offrire alla partoriente. Galileo Galilei, che oltre ad essere matematico ed astronomo era anche un bravo enologo, scriveva “ guarda quei fiaschi innanzi che tu bea… son pieni di sì eccellente vino”. Fu proprio il numero ingente di fiaschi prodotti a far nascere la necessità di una legislazione che ne regolamentasse le caratteristiche: così nel corso dei secoli furono emanati numerosi bandi e decreti.
I falsatori di fiaschi
Nel 1574 per la prima volta si definì una misura obbligatoria per il fiasco: il suo contenuto fu fissato in 2,280 litri, corrispondenti al mezzo quarto. Per scongiurare le frequenti frodi fu reso obbligatorio dopo pochi anni un marchio di piombo sul rivestimento di paglia, il cosiddetto Segno pubblico, a garantire l’effettiva capienza del recipiente. Ma ben presto ci si accorse che era piuttosto facile aggirare la legge: bastava infilare fiaschi nuovi dentro vesti già bollate. I “falsatori di fiaschi” venivano duramente puniti a suon di frustate nella pubblica piazza, ma evidentemente la truffa era troppo remunerativa perché le pene corporali funzionassero da deterrente. Così un decreto del 1629 stabilì l’obbligo di apporre un marchio a caldo (per questo definito Lume di lucerna) sul vetro del fiasco. Il bollo riproduceva la sagoma del giglio di Firenze, e da quel momento i fiaschi cambiarono il loro aspetto tradizionale: l’impagliatura lasciò libero il collo e parte della spalla per consentire di apporre il marchio. Dal secolo successivo furono apportate al fiasco nuove modifiche: l’impagliatura fu disposta in fasce verticali, e per renderlo più resistente e adatto al trasporto la base fu rinforzata con una “ciambella” di paglia. Grazie a questi miglioramenti tecnici il fiasco cominciò ad essere esportato fuori dall’Italia: alle esposizioni internazionali e campionarie di fine Ottocento i produttori toscani presentavano il loro vino nei fiaschi, contribuendo a diffondere la sua immagine ad un pubblico sempre più vasto.
Dalle fiascaie alla plastica degli anni Sessanta
In quel periodo il compito di rivestire i fiaschi con la paglia era affidato soprattutto alle donne: la fiascaia (figura ormai scomparsa, entrata con tutti i diritti nell’albo d’onore dei mestieri eroici al femminile, come la mondina) lavorava a casa la sera e spesso la notte. Giovani e madri di famiglia due volte alla settimana partivano dal paese o dalle campagne con i loro barroccini, e si recavano alle vetrerie per prendere i fiaschi ed il materiale per rivestirli, facendo mediamente dai 40 ai 50 fiaschi al giorno.

Negli anni Trenta per tutelare l’immagine del fiasco le aziende vinicole della Toscana ottennero l’emanazione di una legge che proibiva di esportare all’estero fiaschi vuoti: si era giustamente presentito il pericolo che fossero utilizzati senza alcun controllo per contenere vino di scarsa qualità. L’intuizione si rivelò esatta: la grande fama del fiasco fu anche la causa della sua rovina. In anni più recenti produttori senza scrupoli iniziarono a commerciare nei fiaschi vino di basso livello, nella convinzione che i consumatori lo avrebbero comprato lo stesso proprio grazie alla confezione. Da quel momento l’immagine del fiasco cominciò ad essere abbinata all’idea di prodotto scadente, e il danno fu aggravato ulteriormente quando il rivestimento in paglia fu sostituito dalla plastica. Negli ultimi anni, grazie anche al Consorzio del Fiasco Toscano, si sta cercando di riportare questo recipiente agli antichi fasti, restituendolo al mondo come contenitore di grandi vini. La strada da percorrere è lunga, tenuto conto della profonda crisi attraversata, ma dopo più di sette secoli e tante vicissitudini il fiasco è diventato un’icona che difficilmente potrà essere dimenticata.

Eleonora Ciolfi

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