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IL 55% DEI “NORMALMENTE INFORMATI” SUL VINO CONSIDERANO LE DESCRIZIONI UTILIZZATE PER SPIEGARE UN VINO INADEGUATE PER CAPIRNE IL GUSTO. IL SONDAGGIO BY DRINKS BUSINESS SUONA COME UN INVITO AL MONDO DELLA CRITICA A CAMBIARE REGISTRO

I periodici sul vino consolidano le proprie vendite, i siti internet dedicate a degustazioni e quant’altro spuntano come funghi, i blog pure, ma quanto sono utili le note di degustazione dei critici del vino a chi, alla fine, il vino lo deve comprare, ossia il consumatore? Stando ai risultati della ricerca fatta dall’istituto di ricerca inglese Laithwaite’s per “The Drinks Business”, molto meno del previsto. Per il 55% dei 1.000 volontari “normalmente informati” sul vino sondati, infatti, molte delle descrizioni normalmente utilizzate per spiegare una bottiglia non aiutano a capirne il gusto. 43 note di degustazione dei principali marchi di vino e dei più importanti critici sono state presentate al campione, che a sua volta ha scelto i termini meno utili per la comprensione di un vino. I più gettonati? “Pietra bagnata”, “cupo”, “vegetale”, “cuoio”, “grosso” e il termine del momento: “mineralità”. Anche se ampiamente propagandato come uno dei descrittori principali di un vino, per il Master of Wine Sally Easton il termine “mineralità”, che si riferirebbe agli elementi minerali reali presenti in un vino, indica una caratterizzazione assolutamente minima e non sempre collegabile all’eccellenza di un vino. “Fresco” è stato considerato il termine più utile, insieme a “piccante”. Per il Master of Wine Justin Howard-Sneyd i risultati non sono poi così sorprendenti: “descrivere un vino non è una scienza esatta e la soggettività ha un ruolo veramente forte”.
Probabilmente, in passato, sono stati gli stessi degustatori e critici ad aver esagerato con un linguaggio troppo esclusivo e/o settoriale, ed oggi la questione suona come un campanello d’allarme per l’intera industria del vino, perché si cambi registro.
Troppe note di degustazione sono diventate come formule, una conseguenza involontaria della creazione della “ruota degli aromi” del professor Anne Noble o della ripartizione degli aromi ideata dal professor Emile Peynaud.
Ma va detto, però, che ogni descrizione merceologica possiede un proprio codice linguistico e che un minimo sforzo per impadronirsi della terminologia va comunque sempre fatto. Altra cosa, evidentemente, è il completo arbitrio sull’uso di parole o descrizioni che nulla hanno a che fare con quella terminologia oppure appartengono ad analogie prive di qualsiasi sostegno scientifico, come nel caso del termine “mineralità”.

Focus - Perché il termine “mineralità” non indica quello che la “vulgata” dei degustatori presume
La cosiddettà “mineralità” del vino è molto probabilmente imputabile a tioli volatili o esteri e non tanto ai nutrienti del terreno. Secondo il Professor Alex Maltman dell’Istituto di Geografia e Scienze della Terra presso l’Università del Galles, che ha condotto una ricerca in questo campo, gli elementi minerali (potassio, calcio, magnesio) in un vino sono presenti in minime tracce (qualche centinaio di parti per milioni) e per di più sono anche insapori o al di sotto delle soglie di percezione sensoriale misurate per l’acqua. Probabilmente la sensazione di “mineralità” proverrebbe piuttosto da esteri, creati dalla reazione tra alcol e acidi organici (tartarico, malico), in alcuni casi percepibili olfattivamente. I degustatori potrebbero utilizzare il termine “minerale” per descrivere caratteri prodotti da tioli volatili caratteristici, per esempio, del Sauvignon Blanc, in vini il cui fruttato vira più su note verdi. Anche se il descrittore è oggi comune, è assente sia dal testo di Emile Peynaud “Il Gusto del Vino” (1983) sia da “Wine Aroma Wheel” di Ann Noble (1984). Il vino non è cambiata più di tanto, le persone che se ne occupano, però, sì.

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