Rame o non rame (e quanto rame) contro la peronospora, studio dei residui rameici sui diversi organi della vite, effetti del sovescio sulla fertilità dei terreni vitati, pratiche efficaci per la lotta ai danni da mal dell’esca. Torna l’ormai tradizionale Giornata di presentazione delle prove sperimentali in frutticoltura e viticoltura biologica, “una sorta di esame cui l’Istituto Agrario San Michele all’Adige si sottopone regolarmente per capire quanto studiato e sviluppato dai diversi settori della Fondazione è di effettiva applicazione per gli agricoltori del territorio per risolvere problemi contingenti o migliorare, semplicemente, il grado di sostenibilità della produzione”, secondo le parole di Claudio Ioriatti, responsabile del Centro di Trasferimento Tecnologico della Fondazione Edmund Mach - Istituto Agrario San Michele all’Adige. Tenutosi il 9 agosto nello stesso complesso di San Michele, è l’incontro che l’Unità di Agricoltura Biologica della Fem e il gruppo di Agricoltura Biologica del Centro di Sperimentazione Laimburg di Bolzano organizzano ormai da 22 anni: un’occasione che riguarda certamente da vicino il Trentino, ma interessa anche il resto d’Italia, se è vero che viene seguita con costanza dai tecnici di importanti realtà vitivinicole nazionali (basti pensare a Frescobaldi, al Gruppo Lunelli o al gruppo agronomi Sata, che segue cantine lungo tutto lo Stivale), sia di persona che dal sito.
Proprio sul rame e sulle sue alternative è incentrato l’abituale intervento della professoressa Luisa Mattedi, che, a partire da un’analisi della diffusione di peronospora sul territorio trentino durante lo sviluppo fenologico delle viti nel 2018 (attacco considerato di gravità medio alta in Trentino, se messo a confrontato con gli ultimi 7 anni, ma che quest’anno a livello nazionale si è distinto soprattutto per essere arrivato fino in Sicilia, regione solitamente meno toccata dalla malattia), ha riportato i risultati dei diversi prodotti, e le diverse dosi di rame associate, utilizzati come copertura in vigna (200 e 400 grammi a ettaro usati singolarmente o insieme ad estratti di lievito, zeolite, limocide). “Peronospora e rame: questi sconosciuti”, è stato il commento di Mattedi, perché se il dosaggio di 200 grammi a ettaro e i classici 400 grammi si sono confermati ancora una volta efficaci in egual misura (esattamente come un’attenta e costante gestione del verde), dall’altra parte, sostanze che negli ultimi anni davano ottimi risultati (il limocide - estratto di agrumi) hanno invece causato fitotossicità alle foglie e diradamento ai grappoli.
Al netto di un’annata singolare, data la difficile gestione di una vigoria fuori dalla norma dovuta ad una pioggia quest’anno ben presente dopo un critico 2017 siccitoso, pare che la difesa abbia funzionato meglio nel 2018 che nell’anno precedente. Perché? Analizzando lo sviluppo del grappolo a confronto con le diverse epoche di infezione di peronospora (primaria, secondaria e larvata), pare che ci sia una correlazione significativa fra lo stadio di ingrossamento dell’acino e le infezioni tardive: sembra insomma che queste ultime, se avvengono nel periodo in cui l’acino inizia a chiudersi, ma non è ancora del tutto protetto (verso fine Giugno), rendano più scarsa l’effetto del rame. Questo spiegherebbe anche le differenze di efficacia nella difesa che si evidenziano fra fondo valle e collina, dove, appunto, anche lo sviluppo degli acini cambia di qualche giorno.
Sempre di rame si è occupata la relazione di Silvia Gugole, che ha voluto determinare dove esattamente si raccolgono i residui di copertura rameica sui diversi organi della vite, confrontando vigneti a spalliera e a pergola: se le foglie sono risultate quelle più sensibili all’accumulo della sostanza (anche oltre le soglie minime di efficacia di 5-10 milligrammi al metroquadro), i rachidi, ma soprattutto i grappoli, restano invece le parti meno interessate. Roberto Zanzotti ha invece esposto gli effetti del sovescio come fonte di sostanza organica nel vigneto e della sua capacità di modificare i contenuti di azoto nel suolo, sulle foglie e nei grappoli, in rapporto ai vigneti concimati (come da agricoltura convenzionale), cercando anche di trovarne tracce nei mosti in seguito vinificati. Le dinamiche misurate nelle due diverse tesi sono risultate variabili a seconda dell’annata, della piovosità e della fase fenologica delle piante (fine fioritura - inizio allegagione e invaiatura), mentre i livelli di Apa (azoto prontamente disponibile) nei mosti sono risultati pressoché identici.
L’ultima presentazione prima delle prove in campo ha riguardato le pratiche di contenimento dei danni da Esca, malattia del legno che può portare alla morte della pianta o ad una sua cronicizzazione. I metodi analizzati da Marino Gobber per testarne l’efficacia sono la potatura Poussard (anche detta a Guyot) e il Curetage (intervento invasivo con la motosega a punta per pulire l’interno cariato della pianta infetta). Nel breve periodo, quest’ultima, non sembra aumentare la mortalità delle piante e pare efficace nel contenere i sintomi del male dell’esca, ma l’alta frequenza di remissione naturale dei suoi sintomi (circa il 50% delle piante), non consente per ora di parlare di risanamento: serviranno ancora alcuni anni per avere un quadro più definito. Tante le intuizioni, insomma, che il team dell’Unità Bio cercherà di approfondire nei prossimi lustri, perché, dopo 7 anni di sperimentazioni, all’Istituto Agrario San Michele sono più le domande sorte che le risposte trovate, come vuole la migliore tradizione scientifica.
Domande che hanno bisogno di tempo e risorse che “la Fondazione ha effettivamente sottovalutato, dando meno importanza del dovuto al fenomeno Bio, mancando di attenzione e sostegno a colore che la spronavano a fare meglio”. Un’ammissione politicamente e sostanzialmente rilevante, quella di Ioriatti, arrivata durante un anno di conferme ufficiali e ormai innegabili da parte di molte istituzioni sulla rilevanza che il comparto bio si è conquistato nell’ultimo decennio. Conferme che, insieme alle criticità, il professor Enzo Mescalchin (a capo del Dipartimento Ambiente e Agricoltura di Montagna e dell’Unità Bio stessa), ha riassunto per punti in una sorta di notiziario, partendo dalla segnalazione che il vigneto bio in Trentino ha toccato i 1000 ettari fra certificati e in conversione in 16 anni (quando ancora erano solo 12, con un trend esponenziale a partire dai 228 ettari del 2011). Tendenza che conferma la crescita nazionale (il raddoppio in cinque anni) e quella mondiale (cinque volte tanto negli ultimi 14 anni), secondo dati Federbio. Non solo: il rapporto sulla competitività agroalimentare italiano pubblicato lo scorso Luglio da Ismea ha annunciato ufficialmente che il comparto Bio è fuori dalla nicchia, con il suo 3% di consumi totali (e il vino che tocca il 110% di aumento).
Numeri che confermano che il Bio è tutt’altro che un “binario morto” e che, anzi, è una valida alternativa anche per combattere l’inquinamento delle falde acquifere, come si deduce dal Rapporto Nazionale Pesticidi nelle Acque 2018 dell’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, che ha rilevato 259 sostanze diverse nel 67% dei punti di monitoraggio delle acque superficiali e 200 sostanze nel 33,5% di quelle sotterranee, riconducibili a fungicidi, insetticidi ed erbicidi. “Il settore Bio sta dimostrando anche una notevole capacità di rinnovarsi e mettersi in discussione”, continua Mescalchin, riferendosi sia al nuovo regolamento Ue approvato a Giugno (il numero 848/2018), che all’articolo 6 mette finalmente al centro della questione agricola la fertilità del terreno (“nutrire il suolo per nutrire le piante”), sia all’imminente votazione che interesserà in autunno le istituzioni europee riguardo alla revisione dell’uso del rame: la proposta della Commissione Europea è di scendere dall’uso di 6 chilogrammi a ettaro annuali ai 4 chilogrammi, con possibilità di deroghe annuali, ma escludendo il “lissage”, che permette agli agricoltori di spalmare i 30 chilogrammi ettaro in 5 anni, adeguandosi alle annate, più o meno favorevoli. Una prospettiva difficile da digerire, ma che conferma come la ricerca costante mondiale degli ultimi anni, volta a trovare sostituti validi al più diffuso ed efficace fungicida al mondo, sia la strada giusta da percorrere e non faccia cogliere del tutto impreparata la viticoltura europea (cosa che non si può purtroppo sostenere a proposito della Flavescenza dorata, la cui presenza sta aumentando gradualmente sul territorio italiano, cui l’unica soluzione pare ancora essere l’estirpazione delle piante).
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