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Il Mondo

Tempi duri per il vino? Ottimi per l'esperto. Chi sono gli enologi che stanno dietro alle grandi etichette. Giovani o collaudati, imprenditori o free-lance, dipende da loro la difficile annata 2002

Dopo tante vendemmie a quattro stelle, l'ultima
stagione ha riportato i vignaioli con i piedi per terra. Minore
quantità: la più scarsa degli ultimi 60 anni. E uva buona o da
buttare anche in una stessa zona: Biondi Santi, marchio storico di
Montalcino, non produrrà quest'anno il Brunello della tenuta Il
greppo e una grande firma piemontese come Roberto Voerzio non farà
una bottiglia di Barolo.
Insomma, se non è per tutti un'annata da dimenticare, di sicuro
nessuno può parlare di vendemmia del secolo. «Complessivamente il
2002 può essere considerato buono, ma con scarsissime punte di ottimo
e molte di medio», ha tirato le somme l'Associazione degli enologi
italiani, mentre i tecnici sono già al lavoro nelle cantine. E che
lavoro: «Quest'anno solo le aziende che hanno un bravo enologo
riusciranno a fare buon vino», ha sentenziato Luigi Veronelli,
personaggio tra i più noti del mondo enogastronomico. Puntualizza
Graziana Grassini, giovane professionista toscana che cura la
produzione di un bel numero di aziende, tra cui Caccia al Piano a
Bolgheri, Nuova Scopone a Montalcino, Fattoria di Magliano e Cantine
Adanti in Umbria: «Quest'anno occorrono spiccata preparazione tecnica
e tecnologie per ottenere una buona base, senza ricorrere ad
assemblaggi che disperdono il legame con il territorio o a ritocchi
pesanti. Ma intendiamoci: se le uve sono di bassa gradazione, un
grande vino non si può fare». Concorda Marco Pallanti,
comproprietario del pluridecorato Castello di Ama, nel Chianti
classico, incoronato enologo dell'anno dalla guida Vini 2003 del
Gambero rosso: «In annate come questa la natura ci ricorda che senza
il suo aiuto non c'è enologo in grado di fare un vino eccezionale»,
sostiene. «Questa vendemmia somiglia a quella del 1984, il risultato
finale sarà però migliore, perché oggi la tecnologia ci aiuta di più».
Ma chi sono questi signori (e signore) che trasformano l'uva in vino?
Come fanno a infilare in una bottiglia sapori di mammola o di
liquerizia, carattere potente o vivace, profumi cremosi di
cioccolato, stile elegante, grande caratura, tanto per prendere a
prestito il fantasioso linguaggio delle guide enologiche italiane
prodotte da Luca Maroni, Espresso, Gambero rosso, Ais, Veronelli:
bibbie del vino tanto autorevoli da decretare con i loro punteggi il
successo o l'insuccesso di un'etichetta e dell'enologo che c'è dietro?
Sono dei semplici «mescolavino», si permette di dire Giacomo Tachis,
il maestro dai capelli bianchi che ha creato vini mito come
Sassicaia, Tignanello o Solaia e ha impresso una svolta all'enologia
nazionale. Ma l'enologo è anche quello con le scarpe sporche che va
nelle vigne, cura l'uva come un figlio e si sceglie i grappoli uno
per uno. A volte è anche un capo azienda che unisce alle capacità
tecniche quelle manageriali. Altre è una prima donna strapagata e
corteggiata dalle migliori aziende: è un po' tutto questo il
variegato mondo dei winemaker. Sotto una stessa etichetta, però,
questa categoria, mai come oggi sulla cresta dell'onda, si divide in
tre grandi filoni.

Il primo è quello dell'enologo-proprietario che segue direttamente i
suoi vini come, oltre a Pallanti, Elio Altare o Luciano Sandrone in
Piemonte, Stefano Pizzamiglio in Emilia Romagna (azienda la Tosa),
Franco Allegrini in Veneto, Franco e Iacopo Biondi Santi in Toscana,
Elisabetta Foradori in Trentino (produce il Teroldego) o Mario
Ercolino dei Feudi di San Gregorio, azienda leader in Campania che si
avvale anche della consulenza di Riccardo Cotarella, Oscar 2002 come
migliore enologo assegnatogli dall'Associazione italiana sommelier
(Ais). In molti casi, l'enologo proprietario passa comunque la
responsabilità tecnica all'enologo aziendale: Maria Teresa Lungarotti
si affida a Vincenzo Pepe; Lamberto Frescobaldi, della nobile casa
vinicola fiorentina, può contare sul direttore Paolo Gamberi e sulla
consulenza di Niccolò D'Afflitto, professionista di punta del settore.
Secondo filone: l'enologo-dipendente. In questa platea c'è un
caposcuola come Franco Giacosa, l'enologo cui Gianni Zonin ha
affidato la direzione delle sue tenute (tra cui il gioiello Feudi di
Butera in Sicilia) e a cui si deve il netto salto di qualità che sta
registrando la produzione del maggiore imprenditore vitivinicolo
italiano. In Sicilia cantine leader, come Tasca d'Almerita e Donna
Fugata, si sono aggiudicate la consulenza di Carlo Ferrini, enologo e
agronomo super quotato. Aziende giovani come Calatrasi e Firriato
hanno puntato invece su staff internazionali: il chief winemaker di
Calatrasi è l'autraliano Brian Flecher, mentre Firriato ha con sé il
master of wine inglese Kim Milne con cui collabora anche l'enologo
marsalese Beppe Pellegrino.
Sempre nell'isola, tra i professionisti emergenti ci sono Giacomo
Ansaldi della Fazio wines, Giovanni e Nicola Centone della Cantina
sociale di Trapani, Marco De Bartoli chiamato a occuparsi di Baglio
di Pianetto: iniziativa del conte Paolo Marzotto lanciatosi in questa
nuova impresa a braccetto di un uomo del mestiere come Fausto
Maculan, un'istituzione per la viticoltura veneta.
Tra i tanti professionisti fedeli a una sola bandiera, ecco Guido
Rivella, creatore dei vini di Angelo Gaja, un simbolo dell'enologia
italiana nel mondo; Leonardo Bellaccini che firma i vini
dell'agricola San Felice, Roberto Vezza dei Marchesi di Barolo. In
Franciacorta, dopo Mattia Vezzola che si prende cura di Bellavista,
il gruppo Terra Moretti ha un altro asso nella manica in Mario
Falcetti, alla guida della Contadi Castaldi (Maroni le assegna per il
secondo anno consecutivo l'Oscar per il miglior vino spumante) e
della Badiola in Toscana. Le bollicine di Cà del bosco sono invece
figlie di Stefano Capelli, da 17 anni responsabile della produzione
della supertecnologica azienda del gruppo Santa Margherita.
La Lavis, prima cantina sociale del Trentino, ha due colonne:
l'enologo Gianni Gasperi e il direttore Fausto Peratoner, esempio in
carne e ossa di enologo-capo azienda, come è stato Ezio Rivella,
attuale presidente dell'Unione italiana vini, quando ha creato e
condotto Banfi a Montalcino e com'è oggi Renzo Cotarella, direttore
generale della Marchesi Antinori. A Montalcino, un'azienda di
tradizioni come la Fattoria dei Barbi di Stefano Cinelli Colombini
affida la linea dei suoi vini alla sicurezza di Luigino Casagrande,
mentre Fabrizio Ciufoli è l'enologo consulente delle fattorie di
Donatella Cinelli Colombini, che nel Casato Prime donne a Montalcino
ha affidato la produzione del Brunello a una squadra tecnica tutta al
femminile.
Ciufoli apre il filone degli enologi free lance. Tra questi
professionisti c'è quel pugno di star coccolato e strapagato dalle
aziende. Quante? A vedere l'agenda dei winemaker più à la page se ne
contano a decine. Un esempio per tutti? Al di là delle nuove
collaborazioni siciliane, Ferrini è il consulente di Castello di
Brolio, Castello di Fonterutoli, La massa, La brancaia, Tenuta Sette
ponti, Castello del terriccio, Casanova di Neri, Poggio antico, solo
per citarne alcune. «Lavoro 12 ore al giorno e macino decine di
migliaia di chilometri l'anno, ma faccio la più bella professione al
mondo e vivo di emozioni», giura Ferrini. Fama internazionale anche
per Franco Bernabei, che si divide tra nuovi clienti (come la Casa
vinicola Sartori ) e i suoi affezionati: Fazi Battaglia, che ha
avviato anche la produzione di Morellino nella nuova Greto delle
fate, Felsina, Fontodi, Paladin & Paladin, azienda veneta
quest'ultima che è stata tra le prime a imboccare la strada della
viticoltura biologica, mettendo insieme un ricco medagliere. L'ultima
capricciosa annata ha rappresentato un nuovo banco di prova: «Nella
nostra tenuta Bosco del merlo è possibile intervenire solo con
ridotte quantità di rame e zolfo, senza ricorrere a principi attivi
di sintesi chimica e di conseguenza non è concesso alcun margine di
errore», spiega al Mondo Orazio Franchi, enologo assieme a Gialuigi
Zaccaron dell'azienda di proprietà della famiglia Paladin,
rappresentativa dell'impegno anche economico che comporta la scelta
biologica a causa dell'elevato numero di ore dedicato alle vigne.
Un pocker di winemaker di prima classe è quello costituito dal senese
Paolo Vagaggini (riferimento per decine di aziende per lo più
concentrate nei territori di Montalcino, Montepulciano e Chianti
classico), dal milanese Maurizio Castelli (ha offerto un contributo
decisivo alla riqualificazione del Chianti classico; tra i suoi
clienti il Castellare di Castellina e il Castello di Volpaia), dal
piemontese Donato Lanati (anche docente d'enologia alle università di
Torino e Firenze, cura aziende del calibro di Ceretto e Giacomo
Conterno) e infine dal trentino Vittorio Fiore (tra i suoi clienti
Caparzo a Montalcino e Guicciardini-Strozzi a San Gimignano). Alla
ribalta sono però anche il giovane Attilio Pagli, che si prende cura,
tra l'altro, del Sagrantino di Marco Caprai o Giuseppe Caviola (è
enologo numero uno 2002 per il Gambero rosso), autore di Baroli
blasonati è oggi anche al fianco dell'Umani Ronchi. Più grande è
l'azienda-cliente, più il consulente dialoga con uno staff tecnico
ben attrezzato. È per esempio il caso del gruppo Pasqua dell'omonima
famiglia veneta. La seconda generazione entrata in pista ha affidato
la cura degli oltre mille ettari di vigneti alla rinnovata equipe
tecnica guidata dall'enologo capo Giancarlo Zanel e questi dialoga
con l'esterno Luca D'Attoma, uno dei più preparati tra i giovani
professionisti del vino. Come anche Giorgio Marone, Stefano
Chioccioli, Lorenzo Landi, Giancarlo Scaglione, Roberto Cipresso.


Come si inizia e quanto si guadagna: se il consulente diventa una star

Ha più di un secolo di vita ed è in assoluto la più antica
organizzazione al mondo di tecnici del settore vitivinicolo:
l'Associazione enologi enotecnici italiani raccoglie sotto le sue
insegne 3.400 dei 3.700 enologi che operano in Italia. Di questi una
buona metà è inquadrata con responsabilità direttive in aziende
cooperative o private, mentre non più del 10% opera come libero
professionista. l'Italia, con la Francia, è l'unico Paese che
riconosce il titolo di enologo. Un titolo giovane. Fino a 11 anni fa
l'uomo che faceva il vino era l'enotecnico. Poi, con il varo della
legge 129 del 1991 che ha dato status alla professione e ne ha
prescritto la preparazione universitaria (laurea breve), l'enotecnico
è finito in soffitta ed è nato l'enologo (in base alla nuova
normativa tutti gli enotecnici che operavano già da tre anni in
un'azienda). «A oggi non più del 6% degli enologi arriva da questo
nuovo percorso formativo», spiega Giuseppe Martelli, direttore
dell'associazione. Ma è un gap che si colmerà presto. «C'è un
interesse crescente per questa professione», conferma Martelli,
«anche perché è ormai chiaro che senza tecnologia difficilmente si
può fare un vino di qualità».
Ma quali sono le prospettive economiche di questo mestiere? Un
giovane al primo impiego in un'azienda, inquadrato in base al
contratto collettivo di lavoro (può fare riferimento all'industria,
all'agricoltura o al commercio), può guadagnare circa mille euro
netti al mesi. Se è bravo, dopo dieci anni di attività (o anche meno)
assume responsabilità direttive (per esempio diventa responsabile di
un impianto di vinificazione) e il suo stipendo netto può crescere
fino a 1.500 euro netti mensili. Da quel momento molto dipende dalle
capacità professionali e dalle opportunità: c'è chi fa strada,
diventa dirigente, guadagna dai 5 mila euro al mese in su (più
benefit, se ha compiti direzionali) e chi si ferma prima. Diverso è
se la strada scelta è quella del consulente: alcuni hanno successo,
diventano prime donne, guadagnano quello che vogliono. Altri chiudono
presto bottega.

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