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IL “PIEMONTESE” ANGELO GAJA SPIEGA A MONTALCINO PUNTI DI FORZA E DI DEBOLEZZA DELLA DOCG ITALIANA FORSE PIU’ IN SALUTE NELL’ATTUALE MOMENTO DI DIFFICOLTA’ GENERALIZZATO DEL MONDO DEL VINO

Italia
Angelo Gaja

In un momento di generalizzata difficoltà del mondo del vino italiano, in cui i produttori sono soprattutto occupati a risolvere i problemi di un mercato in evidente contrazione, ripercorrere le tappe fondamentali del successo di una Docg molto discussa, ma forse mai veramente compresa a fondo, come quella del Brunello di Montalcino potrebbe sembrare un vuoto esercizio accademico. Ma se quel percorso viene declinato dall’umiltà e dall’esperienza propri di un vero imprenditore, allora può accadere che quello stesso percorso si trasformi nel centro nevralgico anche delle strategie future. Così le parole pronunciate, ieri sera, a Montalcino, in un “one man show” nell’Enoteca La Fortezza (una delle migliori del panorama italiano), da Angelo Gaja, solo apparentemente distaccate, visto che nel panorama delle aziende locali c’è anche la sua “Pieve Santa Restituta”, hanno lucidamente evidenziato punti di forza e di debolezza della denominazione italiana forse oggi più in salute, tratteggiandone non solo la storia, ma, soprattutto, i cardini fondamentali del suo successo passato, presente e futuro.

«Montalcino è una denominazione fortunata che può contare su un “plus” di elementi unici, una vera e propria eccezione nel panorama enologico italiano - spiega Angelo Gaja produttore piemontese, ma con una grande “voglia” di Toscana - da una parte un Consorzio di Tutela che funziona, che raccoglie pressoché tutti i produttori della zona e che prende delle decisioni condivise come quella sulla questione dell’”erga omnes” sui controlli di filiera. Dall’altra un territorio vivo, che è riuscito, anche grazie al suo particolare corso socio-economico, a mantenere le sue bellezze inalterate, le quali hanno stimolato uno sviluppo autentico ed importante del turismo, capace di alimentare il circolo virtuoso vino/territorio».

Ma oltre a questo “mix” di opportunità, in parte “casuale”, Montalcino ha potuto contare anche sul vantaggio competitivo, tutto imprenditoriale, rappresentato dal fattore “B”, come lo ha definito Gaja: «“B” come Biondi Santi, “B” come Barbi e “B” come Banfi. Biondi Santi ha avuto il merito di far comprendere al mercato - spiega Angelo Gaja - che il Brunello era un vino che meritava di stare nell’elite enologica cioè nella fascia di prezzo più alta, vendendolo, già a partire già da 40-50 anni fa, con il prezzo più alto fra i vini italiani. Barbi ha avuto invece il merito di mettere il Brunello alla portata di tutti ed ha iniziato anche una fortunata differenziazione producendo olio, formaggi e salumi, estendendo così le potenzialità aziendali, fino ad offrire anche un servizio di ristorazione, che oggi è imitato da molte altre realtà. Infine Banfi - continua Gaja - che nasce come un progetto folle, ma che poi, grazie all’abilità di Ezio Rivella, è riuscito a diventare il motore della domanda di Brunello sui mercati internazionali, Usa specialmente, fino a far diventare Montalcino la Docg italiana oggi più importante negli Stati Uniti».

Tuttavia, per il Brunello esiste anche un “minus” che non va assolutamente trascurato: «Montalcino non è ancora completamente “persuasa” dal Sangiovese, anche se rappresenta forse il vero territorio toscano dove questo vitigno si esprime compiutamente - prosegue Angelo Gaja - inoltre il suo rapido successo, da un lato ha favorito ingenti investimenti da parte di imprenditori non appartenenti al settore agricolo, favorendo un innalzamento esponenziale dei prezzi dei terreni, e dall’altro ha determinato una certa fragilità di alcune aziende, che si sono trovate ad affrontare le difficoltà attuali di mercato, senza un’adeguata esperienza. Nell’attuale momento di difficoltà - spiega Gaja - i produttori debbono essere uniti e discutere dei problemi della denominazione rigorosamente nel “privato” delle riunioni del Consorzio. Le frizioni, che pure sono inevitabili, debbono essere gestite e risolte con prudenza ed attenzione, ma non debbono essere pubblicizzate. Perché - continua Gaja - accanto alla fondamentale importanza del patrimonio individuale di ciascuna azienda, c’è sempre il fondamentale patrimonio collettivo della denominazione, che è un qualcosa di enormemente esteso, che supera il territorio uscendo perfino dai confini nazionali. Per questo - conclude Gaja - i produttori non devono mai discreditare la propria denominazione, ma se esistono dei problemi debbono risolverli sempre all’interno Consorzio».

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