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Il Sole 24 Ore

“Dobbiamo tornare a fare innamorare i giovani italiani dei grandi vini rossi” … Sandro Boscaini. Il re dell’Amarone ricorda come, dopo la tragedia del metanolo, sia nata la nuova enologia ma restano i nodi della cultura, della dimensione e della finanza d’impresa… “Io sono un errore della storia. Mio padre Guido, che aveva frequentato la scuola enologica di avviamento professionale, e mia madre Elda, che proveniva da una famiglia di allevatori della Bassa Veronese, mi avevano destinato ad altro. Alla fine degli anni Cinquanta, era un male possedere dei vigneti. Mi iscrissero al liceo classico vescovile di Verona. Mi volevano farmacista o notaio. Nel 1963 mi sono laureato in economia alla Cattolica di Milano con Luigi Guatri, con una tesi sulla distribuzione del vino. Mio compagno di corso era Angelo Caloia. Era uno studente geniale. Sarebbe diventato, dal 1989 al 2009, presidente dello Ior. In Cattolica c’era anche Romano Prodi, che era molto simpatico e casinista, un grande collante per tutti noi universitari che venivamo da fuori Milano. Il notaio, poi, non l’ho fatto”. Sandro Boscaini è il re dell’amarone. Siamo alla Tenuta Canova di Lazise, in una terrazza circondata dagli ulivi che profumano come fanno soltanto qui, sulla costa e nell’entroterra veneto del Lago di Garda: “A fine agosto abbiamo aperto la vendemmia dei bianchi. La scorsa settimana quella dei rossi. In un anno difficile, siamo stati fortunati. Nel Bardolino ha grandinato due giorni, ma subito dopo non ha piovuto e abbiamo potuto cicatrizzare bene le uve con lo zolfo. In Valpolicella non abbiamo avuto bombe d’acqua”. In tavola arrivano alcuni antipasti strepitosi, che sono la rivisitazione dei “cicchetti” veneti, preparati con i vini di Masi Agricola: frittelle di baccalà in tempura al Moxxè, tortelli sfogliati al Campofiorin con cuore di formaggio Monte Veronese e arancini di vialone nano al Costasera. Sandro è un re con due corone sulla testa. La prima è quella della memoria non falsificata. Perché ha vissuto tutta l’epica – povera e ricca, vergognosa e piena di successi – del vino italiano, dal Secondo dopoguerra ad oggi. E ne parla con la schiettezza di chi, a ottantaquattro anni, può dire quello pensa, senza infingimenti: “Negli anni Sessanta e Settanta tanti furbi pensavano che si potesse fare il vino anche, non solo, con l’uva. Le vinacce, lo zucchero, i vini tagliati. Tutto era uguale. Le cose andavano male per chi era proprietario dei vigneti e andavano bene per chi frodava. Io, con le mie vigne, ero deriso. Mi dicevano che ero un cretino. La tragedia del metanolo, nel 1986, ha cambiato tutto. È nata una nuova enologia. Ricordo le conversazioni con Angelo Gaja, Piero Antinori e Giacomo Bologna”. La seconda corona sulla testa di Boscaini è quella del futuro non retorico e non impacchettato dal marketing, che è la corrosiva e melliflua lingua franca della comunicazione di oggi. Perché è stato – per errore, per caso o per scelta – in tante occasioni un antesignano. È stato un vignaiolo non solo di istinto e di tradizione, ma anche di libri studiati e di incontri fatti: “Quando ero amministratore delegato dell’Istituto enologico italiano, scorrazzavo Mario Soldati, che scriveva i suoi articoli sul vino per “Epoca” e per “Grazia”. Era un pazzo, era un genio, era molto divertente”. Ha colto fra i primi la connessione intima fra la cultura materiale del vino e la cultura formalizzata del pensiero con il Premio Masi (edizione di esordio 1981). Insieme agli altri grandi vecchi delle famiglie dell’Amarone ha reso questo vino, a lungo sconosciuto, un fenomeno internazionale. Ha portato in Borsa nel 2015 la sua Masi Agricola, primo caso di accesso al mercato dei capitali – seppur con un flottante limitato al 25% – di casa vinicola italiana. Proprio per questa sua costante dimensione di anticipatore, oggi parla con analitico distacco del buono e del cattivo che segnano il presente e il futuro del vino italiano. La temperatura oggi è mite e la pioggia caduta ieri ha eliminato ogni forma di umidità nell’aria. In un martedì di settembre inoltrato i tavoli sono pieni. In tavola viene portato un bis di primi. Un risotto all’amarone Costasera con scaglie di formaggio Monte Veronese e dei bigoli leggermente piccanti con sarde, pomodorini, olive del Garda e mollica croccante. Mangiare, bere e chiacchierare con Sandro Boscaini sotto questo pergolato è come mangiare, bere e chiacchierare con un personaggio di una commedia di Carlo Goldoni perché, da quel calco umano e storico, lui ha preso l’arguzia e il rifiuto della sicumera, la durezza ammorbidita dall’umorismo, il sapere fare di conto e il capire però che l’avidità è sorella del diavolo, alla fine produce soltanto il male. Mentre beviamo un vino trentino, il Conti Bossi Fedrigotti VignAsmara, Boscaini analizza le abitudini degli italiani: “I giovani non sono attratti dal vino rosso. Non fa bene ai figli il pasticcio creato dai padri con la indeterminatezza delle doc che livellano tutto verso il basso. Il wine business italiano è un comparto di grande successo. Ma è giusto discutere delle criticità strutturali”. I primi sono molto buoni. Il contrasto fra la piccantezza dei bigoli e la quasi dolcezza del riso all’amarone ha una sua armonia. Sandro spiega meglio il concetto di “pasticcio creato dai padri”: “Le doc oggi sono troppo indifferenziate e tendono ad ampliarsi in misura eccessiva. Esiste una sorta di egualitarismo giuridico mal concepito e malinteso che rende molto difficile la costruzione delle gerarchie di mercato. Si perdono posizionamenti, si comprimono le quotazioni, nella generale indistinzione si riduce la poesia del racconto e così tanti giovani rimangono lontani da un grande fenomeno come il vino rosso italiano. Tutto ciò non accade in Francia. Al di là della tradizione secolare, della potenza finanziaria e del radicamento globale, là la piramide è chiara nella percezione, nei regolamenti e nelle quotazioni di mercato: la base della piramide è il Bordeaux e l’apice è il Chateau Margaux. Nel nostro caso tutto questo è inibito dalle ragioni di consenso della classe politica e dall’interesse delle cooperative ad allargare il più possibile i territori delle doc così da avere maggiori bacini di piccoli produttori che conferiscono le uve”. Il comparto del vino è spesso considerato alternativo alla manifattura. In realtà è evidente una sovrapposizione del patrimonio genetico fra la vigna e la fabbrica, la mentalità degli imprenditori e la consistenza dell’impresa, il regime fiscale generale e lo sviluppo strategico dei singoli organismi aziendali: “I regimi fiscali agevolati per l’agricoltura, che portano a zero la tassazione, non hanno fatto bene al settore. Sono un retaggio di quando comandava la Democrazia Cristiana e di quando la Coldiretti era la sua longa manus. Allora forse avevano un senso, perché l’agricoltura andava in tutti modi sostenuta, mentre l’Italia si industrializzava in maniera massiccia e le campagne si svuotavano. Quei regimi fiscali ultrafavorevoli hanno però incentivato il nanismo. Nanismo che, peraltro, è anche l’esito di una struttura famigliare proprietaria in cui esiste un unico cassetto dei soldi fra famiglia e azienda e in cui si confondono le risorse e gli interessi dell’impresa e dell’imprenditore. Per ovviare alla dimensione minuscola, si è introdotto il ginepraio delle distinzioni fra società commerciali e società agricole, con incroci fra le une e le altre, tutte riconducibili alle stesse famiglie proprietarie. Ma tutto questo, sul lungo periodo, crea opacità e ferma la crescita. L’impresa deve essere una e deve includere ogni forma di attività: agricola e commerciale. A nessuno piace pagare le tasse. Ma se non pagarle comporta il rimanere piccoli per sempre, allora questo non funziona”. Arriva in tavola una selezione di formaggi. Sandro fa portare in tavola tre bottiglie di Amarone, due di Costasera annata 2000 e 2018 e una di Costasera Riserva 2016. Il suo racconto riannoda passato, presente e futuro. Dal bisavolo Giuseppe, che coglie l’opportunità logistica della ferrovia Verona-Caprino-Garda inaugurata nel 1889, al nonno Paolo, che affianca alla cantina una società commerciale con cui costruisce un primo capitale dando a prestito soldi a una ventina osti di Verona e facendoseli restituire con la garanzia dell’acquisto del suo vino. Il problema della finanza di impresa è “il” problema italiano. Dice Boscaini: “La quotazione nel 2015 ha prodotto più benefici che complessità. Il primo beneficio è stato lo sforzo costante di riorganizzazione dell’impresa. Nei processi, nella pianificazione, nelle tecnologie. La Masi Agricola è diventata una azienda migliore. Il secondo consiste nella reputazione. La famiglia Cohen, che importa i nostri vini in Giappone, e i dirigenti della Kobrand, che curavano per noi il mercato americano, hanno adoperato la stessa espressione: open book, per significare che i nostri conti sono trasparenti”. La criticità non riguarda affatto l’attuale contrasto con un azionista di minoranza, l’imprenditore Renzo Rosso, che ha aperto un contenzioso con la Masi Agricola. Il tema è, invece, di sistema. Spiega Boscaini: «Il mio dispiacere, sulla quotazione, è di non avere provocato un effetto imitativo. Il vino italiano ha un gigantesco problema di accesso ai mercati dei capitali. Molte famiglie del vino si sono interessate a questa nostra esperienza. E, io, francamente speravo che ci imitassero. Non per narcisismo. Ma per una ragione strategica. Se anche altri gruppi si fossero quotati in Borsa, sarebbe stato più facile e naturale procedere a scambi azionari, anche carta su carta, e a fusioni o ad acquisizioni amichevoli. Così non è stato”. E, mentre beviamo l’ultima goccia di Amarone, mi viene in mente la frase della commedia Gli innamorati di Goldoni: “La sincerità non vi è oro che la paghi”. Soprattutto quando è sincero un re con due corone, una lunga storia e molto futuro davanti.

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