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Il Sole 24 Ore

“L’Italia senza gusto di barrique” ... Il vino specchio del Paese: la tradizione, la passione civile, le amicizie e la comunità... Ore 10 di una mattina con cielo autunnale scuro. L’aria è quasi senza luce come capita in Langa quando - in ottobre e in novembre - tira il vento freddo dalle Alpi Liguri.
A Barolo, suono alla porta del numero civico 15 di Via Roma. Apre la porta Maria Teresa Mascarello, figlia di Bartolo Mascarello, uno dei vignaioli italiani che più hanno contribuito a rendere i grandi vini ottenuti con le uve di nebbiolo qualcosa di unico e di composito, fatto di filari e di bottiglie, di amicizie e di storia, di politica e di cultura. Il cielo è così buio che mi viene da dire “buonasera”, anziché “buongiorno”. Maria Teresa sorride in maniera impercettibile come sorridono ancora certi piemontesi. Mi fa accomodare. Dietro alla sua scrivania è incorniciato un manifesto ingiallito: “G.L. Partito d’Azione: lavoratori delle fabbriche, l’insurrezione ha vinto! Torino è libera! Libera!”. La madre Franca, 88 anni, sta in cucina. Maria Teresa ha una camicia bianca e un maglioncino grigio, un foulard con pallini azzurri e bianchi. Ha gli occhi azzurri e un paio di occhiali blu. Il suo naso è lievemente pronunciato. Assomiglia a quello del padre. Su di lei - magra, affilata, elegante - sta benissimo. I capelli hanno il candore di chi ha appena compiuto cinquant’anni ed è esattamente come è, senza infingimenti. “Sono cresciuta in una famiglia di personalità fortissime. Io, figlia unica, ho resistito”, racconta Maria Teresa. Il bisnonno Bartolomeo era il cantiniere della cantina sociale di Barolo ed era il propietario delle vigne a La Morra, risultato della parcellizzazione delle proprietà dei Marchesi Falletti, fino all’Ottocento i signori di queste terre. Il nonno Giulio Cesare fondò nel 1919 l’azienda vinicola, che poi passò al figlio Bartolo. Giulio Cesare, che dopo le elementari fece i tre anni di scuola media tecnica, era un socialista amico di Pietro Nenni. Bartolo, invece, dopo la terza media frequentò i due anni di ginnasio. Entrambi erano accaniti lettori. Di libri e di giornali. In casa si trovavano sempre l’Avanti, la Stampa e l’Unità e, poi, Repubblica e il Manifesto. Una delle poche famiglie di sinistra, in un paese dominato dalla Democrazia Cristiana, dalla Coldiretti e dal prete. In tanti venivano qui da Torino, Milano e Roma. Assaggiavano e compravano l’ultimo barolo. Si fermavano volentieri a chiacchierare con il loro amico Bartolo. Ricorda Maria Teresa: “Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli, Giorgio Bocca e Giulio Einaudi. Natalia Ginzburg, Primo Levi, Antonio Giolitti, Vittorio Foa e Napoleone Colajanni. Da bambina vedevo tutti questi monumenti. Avevo stima e timore. Non mi sentivo all’altezza di queste persone”. Nulla è semplice. Soprattutto in una società contadina e maschilista come quella delle Langhe, che a metà anni Sessanta iniziava a conoscere le prime gocce di benessere dopo avere vissuto la Malora. “Mio nonno Giulio era convinto che io sarei stata un maschio. E che avrei dovuto avere il suo nome. Io dovevo essere Giulio. Erano tutti così convinti in famiglia che, quando nacqui, non sapevano che cosa fare e mi diedero all’impronta i nomi delle due nonne: Maria e Teresa”. Nulla è semplice. Soprattutto fra le figlie e i padri. “Non avrei mai pensato di fare questo mestiere. Ho preso la laurea in lingue e letterature straniere a Torino. Fino ad allora ero stata astemia. Poi, un giorno degli ospiti portarono a pranzo un Sauternes, un vino francese dolce e liquoroso, annata 1961. E io lo assaggiai”. Maria Teresa discute la tesi nel novembre del 1993. Nel gennaio del 1994 entra in azienda. La madre Franca ha 65 anni. Il padre Bartolo ne ha 68 e, da tempo, ha un problema alle gambe, che prima gli ha reso complicato camminare e, poi, glielo ha impedito del tutto. Oggi l’azienda ha cinque ettari di vigne: un ettaro a La Morra e quattro a Barolo. “Mio padre diceva: con la mia generazione, finirà tutto”. Non è andata così. Sia per la cultura del barolo. Sia per l’azienda di famiglia. “Mio padre si diceva tradizionalista nel vino e progressista in politica”, ricorda Maria Teresa. Negli anni Novanta, il barolo è stato assimilato al gusto franco - californiano, con il passaggio del vino nelle barrique, le piccole botti di legno, e il non rispetto della regola che lo vuole sulle tavole non prima di dieci anni dalla vendemmia. Bartolo, sulle annate comprese fra il 1996 e il 2000, disegnò le etichette “No Barrique No Berlusconi”. Il tempo è passato. “Noi e altri - osserva Maria Teresa - ci siamo ostinati a non inseguire il mercato rifiutando tecniche in grado di ammorbidire e rendere più semplice questo vino. Ora assistiamo ad un’onda di ritorno. La nostra impostazione torna ad essere apprezzata. Ma, per anni, non è stato facile. Perfino un amico come Carlin Petrini, il fondatore dello Slow Food con cui abbiamo condiviso tanta visione del mondo, sulle sue guide ha maggiormente sostenuto i “modernisti” contribuendo al loro successo. Ricordo mio padre che, vedendoli passare su macchine lussuose, sorrideva al pensiero delle utilitarie ammaccate con cui giravano fino a pochi anni prima”. Oggi la Bartolo Mascarello produce fra le 30mila e le 35mila bottiglie all’anno: 15-20mila di barolo, 6mila di dolcetto, 5mila di barbera e il resto di freisa e di nebbiolo. Le sue bottiglie sono un prodotto con un tratto indefinibile e sfuggente: c’è chi le compra per la qualità eccelsa nel vino e chi lo fa per una questione identitaria, di luoghi e di spirito di un tempo che - ancora, forse - sopravvivono oggi. Di certo, in tanti le vogliono. “Abbiamo una lista di attesa che, solo fra i privati, conta 300 persone. Una di loro chiama spesso per sapere a che punto è della lista. Ho importatori che si accontentano di 12 bottiglie. Questo mi sorprende e mi emoziona”, quasi sospira Maria Teresa. Qui tutto è piccolo, racchiuso, prezioso. A fianco dell’abitazione, sorge il portone di legno di accesso alla cantina, dove si svolgono la vinificazione, l’invecchiamento, l’imbottigliamento e il confezionamento. Fino al 2008 si etichettava a mano. Adesso è una macchina a porre le etichette e a lavare le bottiglie. Maria Teresa non è né nostalgica né luddista: “È giusto fare le cose meglio”. Con Maria Teresa lavorano in cinque: la segretaria Silvia Rinaldi, l’enotecnico Alessandro Bovio, nei vigneti e in cantina il romeno Benjamin Gradinariu e il tunisino Mohammed Ncir e, come collaboratore, lo svizzero americano Alan Manley. Qui tutto è piccolo. Fino al 1989 i Mascarello non avevano il telefono né in casa né in cantina: Bartolo andava al ristorante Brezza, dove ogni sera giocava a carte, a fare le telefonate e a riceverle, dato che gli importatori stranieri lo chiamavano lì. “Allora mi imposi io, ché gli amici e le amiche per cercarmi non è che anche loro potevano chiamare il ristorante Brezza. Ma il patto con mio padre fu che, sull’elenco telefonico, comparisse il mio nome e non il suo e tanto meno quello dell’azienda”, ricorda quasi con affetto Maria Teresa. Le fatture sono state battute a macchina fino al 2006, quando la macchina per scrivere si rompe e si decide di passare al personal computer. L’azienda non ha sito internet e non ha un indirizzo mail. “Con poco aumenterei il fatturato. Potrei alzare i prezzi delle bottiglie. Guadagnerei molto di più. E poi?”, riflette. L’amore per la vita e l’eredità storica. Il lavoro ben fatto e la diffidenza tutta contadina verso i soldi guadagnati - quasi - troppo facilmente. Gli altri e noi. Dopo due ore di conversazione ci spostiamo al ristorante La Cantinetta, come è stato ribattezzato il ristorante Brezza, dove Bartolo giocava a carte e riceveva gli ordini al telefono dagli Stati Uniti. Ci portano subito pane nero con formaggio caprino e noci. Maria Teresa ordina la lingua con purea. Io i ravioli del plin. E che Dio abbia in gloria i cuochi e le cuoche di questa terra. Il tavolo ha la tovaglia fiorita. Intorno a noi sento parlare inglese, tedesco e francese. Il tempo della Malora è finito da un pezzo. Qui corrono gli euro e i dollari. Alla terza forchettata di lingua, Maria Teresa mi guarda fisso e dice: “Se lei vuole, potremmo darci del tu”. Sono passate tre ore dall’inizio dell’incontro. E, in un’Italia caciarona, volgare e fintamente affettiva in cui tutti si danno del tu e si chiamano per nome, questo invito mi dà un piacere di altri tempi. Mentre io assaggio la carne cruda al coltello, lei torna sul discorso delle donne: “Ma sai che qui, una volta, quando nasceva una figlia si mettevano via sei bottiglie di quell’annata da aprire a 18 anni, mentre se nasceva un maschio erano dodici?”. Non lo dice però con amarezza. Anche perché stila subito l’elenco dei nomi che, oggi, guidano le aziende vinicole di Barolo: “Solo per citare alcuni nomi, Rinaldi Giuseppe ha Carlotta e Marta, due trentenni. Barale ha Eleonora e Gloria. Rinaldi Francesco ha Paola e Piera. Borgogno Serio e Battista ha Paola e Anna. Qui in Langa volevano tutti figli maschi e hanno avuto tutte figlie femmine”. Quando arriviamo ai dolci, lei propone di prendere insieme un piatto con salame di cioccolato, bonet (il budino piemontese fatto con cacao e amaretti) e torta alle nocciole. Il rilassamento da cibo buono può portare pensieri malinconici. “Ma hai presente a quanti obblighi è sottoposta una piccola azienda come la mia? Esattamente agli stessi di una azienda che vende 10 milioni di bottiglie. La Guardia di finanza, l’Ispettorato del lavoro, i Nas, l’Asl, la Repressione frodi, l’Ente di certificazione, l’Agenzia delle entrate, la Guardia forestale. I registri di cantina, che sono sempre stati manuali, adesso sono informatizzati. Ma non c’è uno standard informatico che sia uno che funzioni e che sia semplice da utilizzare. Io passo tutto il giorno in giro negli uffici. Dal commercialista, dall’avvocato, dai funzionari delle associazioni di categoria”. E, però, il buon umore e l’ironia tornano subito: “Mi sa che mio padre, se fosse vissuto oggi, con tutte queste incombenze avrebbe avuto meno tempo per leggere e frequentare i suoi amici”. Il 13 marzo del 2005, all’indomani della sua scomparsa, Giorgio Bocca scrive: “Andare a trovare Bartolo salendo in Langa dalla grande città sporca e confusa era ritrovare la ragione di una vita che ha un senso dalla nascita alla morte, una vita che si prende sul serio anche nelle cose minime, dove tutto ha una sua ragion d’essere, tutto è una conquista della umana intelligenza e applicazione e pazienza. Che cosa aveva ed ha il Barolo dei Mascarello? Nulla di speciale, salvo che essere perfetto. E cosa aveva il suo produttore, cosa aveva il Bartolo? Nulla di speciale, salvo un’integrità di vita, una saggezza, una pienezza di vita che ci facevano affrettare il passo per suonare alla sua porta”. Ora, ad aprire la porta di casa e della cantina, è Maria Teresa.

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