Il primo bianco da singola vigna d’Italia compie 50 anni e dimostra - ancora una volta - il potenziale di invecchiamento del Soave e dei suoi due vitigni identitari: è il Vigneto Calvarino di Pieropan, bianco da Garganega e Trebbiano di Soave vinificato in cemento fin dall’inizio, proveniente dall’antico fondo di famiglia, di proprietà dal 1901 e imbottigliato per la prima volta nel 1971. “Un abito blu per un uomo” come l’ha definito Luigi Veronelli, che, negli anni, riesce ad esprimere una complessità da suolo vulcanico - comparabile ai grandi bianchi d’annata francesi e tedeschi - senza perdere la freschezza aromatica dei primi anni. Nella nuova cantina, inaugurata esattamente un anno fa, Andrea, Dario e Teresita Pieropan hanno offerto in assaggio una verticale unica di Calvarino 2021, 2016, 2010, 2005, 1992, 1990, 1987 in ricordo del loro padre e marito Leonildo, del suo concetto di Soave e della sua “umile e visionaria caparbia - spesso anche solitaria ed incompresa - nel difendere il suo territorio di origine e quella che, secondo lui, era la sua espressione vitivinicola più pura”, nelle parole della moglie Teresita.
Vigneto Calvarino prende il suo nome dalla parola “piccolo Calvario”, in quanto difficile da lavorare a causa delle pendenze importanti e della roccia basaltica, scura, che ne compone il suolo e su cui sono piantate sia la Garganega che il Trebbiano di Soave. Leonildo Pieropan negli anni Settanta, quando sono ancora poche le zone d’Italia che trascrivono in etichetta il nome degli appezzamenti, decide di sottolineare la provenienza di quel posto, convinto che i genius loci sia alla base del riconoscimento di un vino: il famoso terroir in cui pianta, suolo e clima lavorano in armonia con l’interpretazione umana. Il doppio vitigno nel vino venne deciso con consapevolezza: “la Garganega dà infatti aromaticità al vino, mentre il Trebbiano ne sviluppa la tridimensionalità, perché riesce a mantenere costante nel tempo l’acidità malica” spiega Dario Pieropan, enologo della cantina. Leonildo, a proposito, non ha mai creduto nella possibilità data dal disciplinare di aggiungere vitigni internazionali al Soave, perché avrebbero tradito la purezza del territorio che lui cercava di perseguire: l’unico modo, secondo lui, di riscattare un territorio poco riconosciuto al tempo, per dare speranza a tutti quei piccoli produttori che il mercato non considerava.
“Bevi il vino e conosci la persona che li realizza”, soleva dire Leonildo Pieropan ed è quello che, secondo il wine critic Ian d’Agata, Vigneto Calvarino è riuscito a fare. “Il primo che assaggiai fu il 1979: era la metà degli anni Ottanta, quindi aveva già 5 o 6 anni sulle spalle. Al tempo - ricorda ancora D’Agata - i bianchi che notoriamente invecchiavano bene erano i francesi e i tedeschi: nessuno considerava i bianchi italiani. Quel Vigneto Calvarino mi aprì gli occhi e da quel momento iniziai a cercare e capire che anche l’Italia aveva qualcosa da dire sull’argomento”. Leonildo Pieropan, quindi, non ha aiutato solamente il Soave: con la sua visione ha contribuito - insieme alla cantina di Terlano, a Bucci, Valentini e pochissimi altri - a smentire un preconcetto che danneggiava (e ancora oggi diffusamente danneggia) l’Italia intera. Del resto, il suo senso di comunità l’aveva dimostrato anche quando prese parte attiva nel fondare la Fivi: la Federazione Italiana dei Vignaioli Indipendenti che partì con 400 soci fondatori e che oggi ne conta 1500.
La capacità di invecchiamento e il fattore “singolo vigneto” hanno oltretutto aiutato ad aumentare il valore dei Soave in generale. “Il single vinyard per il mercato porta un messaggio di pregio chiarissimo: non potendo effettuare blend - ha spiegato in degustazione l’unico Master of Wine in Italia, Gabriele Gorelli - l’influenza dell’annata sulla quantità di bottiglie disponibili è diretto. Insieme alla capacità del produttore e alla massa critica che dà celebrità (e che, purtroppo, manca in molti territori italiani, eccetto Toscana e Piemonte) si crea il “value for money”, quel rapporto qualità-prezzo che rende il vino un settore che attira investimenti”. Oggi i “cru” Calvarino o La Rocca nella carta dei vini dei ristoranti di qualità superano i 100 euro e possono toccare anche i 200 euro. Un costo che non può deludere i consumatori, tanto che la famiglia Pieropan ha deciso di stoccare le vecchie annate in cantina per assicurare ai propri clienti bottiglie integre quando le richiedono.
E integre si sono rivelata tutte le sette annate di Vigneto Calvarino assaggiate, commentate anche grazie all’aiuto di Andrea Pieropan, agronomo e - in questo caso anche - memoria meteorologica della cantina. Certamente la 2021, prima vinificata nella nuova cantina, che lega tutte gli aromi fruttati della Garganega ad una spiccata sapidità, sviluppando col tempo note decise di citronella. La 2016 inizia a sviluppare note di idrocarburo a fianco a quelle fruttate, mantenendosi affilata e allo stesso tempo tattilmente consistente. Le settimane nuvolose di settembre 2010 hanno prodotto un vino lì per lì poco affascinante, austero, che però nel tempo ha portato note mentolate e un’aderenza tannica molto interessanti: una buona annata col senno di poi, con cui la cantina inizia a stoccare le bottiglie in magazzino. La 2005 fu un’annata umida e difficile, ma dentro il bicchiere il vino è reattivo, dal succo dolce, pepato, glicerico e bilanciatissimo: è la prima annata che esce con un anno di ritardo, su proposto del giovane Dario.
Anche il 1992 fu difficile e piovoso, ma di nuovo il bicchiere non ne risente: marzapane, frutti tropicali, idrocarburo e balsami boschivi si ritrovano sempre in questa bottiglia, di anno in anno, come cristallizzati. Miele, cioccolato bianco, cocco, note di iodio e frutta secca caratterizzano l’annata 1990, che in bocca si rivela meno glicerico e più citrino. Chiude la verticale il 1897, che lascia il posto ad una quasi completa terziarizzazione dei profumi: note affumicate, caffè, tostature, salmastro si ritrovano sia al naso che in bocca, dove si attarda sapido e morbido, nient’affatto glicerico, con una nota di agrumi e mandorla finale, per ricordarci chi è. Un prova di resistenza superata dal connubio Garganega-Trebbiano di Soave, con un’eleganza sorprendente “tanto più che Vigneto Calvarino non matura in legno. Non è, quindi, stato pensato e vinificato per invecchiare: se ci riesce è solo grazie al suo Dna”, ha ricordato in degustazione il wine critic Filippo Bartolotta.
A chiudere la degustazione, il Calvarino 5: uno dei pochi “muti-vintage” bianchi d’Italia, lanciato sul mercato nel 2022 per l’inaugurazione della nuova cantina. 5 annate in blend (come i 5 anni che son serviti a costruire la cantina), composte con metodo Solera (50 ettolitri totali formati con l’aggiunta, anno per anno, di 10 ettolitri provenienti dalle vendemmie 2008-2009-2010-2011-2012) che in bocca si stratificano come una piramide, mantenendo le acidità e le freschezze della Garganega e la rotondità e lo spessore del Trebbiano. Vino pensato per dimostrare la complessità che i due vitigni possono raggiungere, ma che non verrà riprodotto (anche perché la famiglia Pieropan non vuole rinunciare alla Doc Soave, che questa tipologia di vino non prevede): entrerà a far parte della linea “vini dell’anima”, insieme ad altre etichette da singole annate, che la famiglia Pieropan sta pensando e sviluppando a partire da vecchie annate ancora in botte, protette dalla lisi dei lieviti e dai gesti attenti di chi sa che sono i dettagli a fare la differenza nel futuro.
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