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LE RIFLESSIONI

Il vino italiano tra export, dazi, Brexit, e questioni ancora irrisolte sul fronte interno

Federvini: semplificazione normativa, creazione di valore e maggior sinergia nella promozione, anche con le istituzioni, i nodi da sciogliere
ASSEMBLEA, BREXIT, DAZI, EXPORT, FEDERVINI, Italia
L'assemblea Generale di Federvini

Lo scenario commerciale internazionale è pieno di incertezze tra minacce di dazi dall’amministrazione Usa, tendenze protezionistiche in vari Paesi, e l’incertezza della Brexit in un mercato fondamentale come il Regno Unito. Anche per questo l’Italia del vino deve ricevere maggior aiuto dalle istituzioni, con la definizione di una strategia nazionale per la promozione e conquistando anche maggior peso politico in Europa. È il messaggio lanciato dal presidente di Federvini, Sandro Boscaini, nella tavola rotonda moderata dal giornalista e produttore di vino Bruno Vespa, nell’assemblea nazionale dell’organizzazione, oggi a Roma.
“Vogliamo un’Europa che aiuti globalmente la produzione agroalimentare - ha detto Boscaini - e l’Italia, soprattutto nel vino, deve essere in grado di dettare l’agenda, non di seguirla.
Ci auguriamo che i nuovi equilibri comunitari ci vedano più protagonisti di quanto siamo stati finora”.
Dalle istituzioni la filiera si augura un tempismo maggiore nell’erogazione dei fondi Ocm, sopratutto per la promozione nei Paesi terzi, e il presidente di Federvini osserva anche come da parte delle stesse imprese “ci deve essere maggiore assunzione di responsabilità”, investendo per esempio di più sulle infrastrutture digitali che sono fondamentali per “essere connessi con il mondo” e in uno scenario “dove l’export, per il nostro settore, è ossigeno vitale”.
Un certo ritardo nella digitalizzazione, ma anche la troppa frammentazione non solo nella struttura del tessuto produttivo del Belpaese, ma anche nella strategia di promozione del vino italiano, sono i punti critici sottolineati da Federvini. Con Boscaini che, guardando al mercato interno, ha auspicato, da parte delle istituzioni, alla “cautela nella scelta delle leve fiscali, perché sacrifici dobbiamo farli, ma equi, che non portino nocumento alla produzione”. Un riferimento tutt’altro che velato al possibile aumento dell’Iva in Italia, che di certo non gioverebbe ai consumi nel loro complesso.
Ma oltre al peso del fisco, ci sono anche le normative frammentate a ostacolare la crescita del settore. “ Le normative regionali devono essere coordinate tra di loro - ha detto il presidente di Federvini - e ci vuole anche un colloquio più chiaro tra Stato e Regioni. Anche nelle ordinanze locali sui divieti all’alcol non devono esserci fughe in avanti da parte dei Comuni, perché possono nuocere alle nostre attività. Sul consumo di alcol ci vuole educazione, certamente, e moderazione, ma non una strategia punitiva “a priori””.
“Il vino no è nocivo in sé, come lo è invece una sigaretta - ha rilanciato Vespa - guai se arrivassimo a scrivere sulla bottiglia “Attenti fa male!”, sarebbe un errore”. Ma tra un appello alla maggiore unità della filiera e alla semplificazione normativa, e uno al non cedere alle pressioni proibizionistiche che ciclicamente tornano a far sentire la loro voce, uno dei grandi temi, per la filiera del vino, è quello della creazione del valore.
“Per il settore è necessario riportare l’accento su questo aspetto - ha detto il presidente del Gruppo Vino di Federvini, Piero Mastroberardino - visto che si fanno tanti investimenti. E ci vuole più continuità nella promozione, l’allocazione delle risorse non può essere estemporanea, perché penalizza”. E sul tema delle autorizzazioni agli impianti di nuovi vigneti, consentiti ogni anno al massimo nella misura dell’1% sul totale nazionale, secondo il regolamento Ue, plafond insufficiente secondo molti (con le richieste che superano sempre di gran lunga le superfici disponibili, ndr), secondo Mastroberardino e Federvini, la cosa più importante non è la quantità, quanto mettere a punto “un sistema che faccia sprigionare alla filiera il suo vero valore”.

Fondamentale, però, che la filiera trovi maggiore unità al suo interno, come ribadito, in veste di osservatore, ma anche di produttore, da Vespa: “per creare valore dobbiamo smettere di vedere vini italiani che allo scaffale costano 2 euro. Ma soprattutto, dobbiamo fare squadra, e l’esempio, come sempre, viene dai francesi: è impossibile trovare un produttore francese che in pubblico parla male di un suo collega. Possiamo dire lo stesso degli italiani?”.
Appello quanto mai condivisibile, anche perché, ha ricordato Boscaini, “ il settore presenta tante diversità, ma deve camminare sotto la bandiera unica del made in Italy”. Ma tante, per il vino italiano, sono le questioni da affrontare per poter crescere ancora: “dall’importanza di completare la piena operatività del Testo Unico della Vite e del Vino, visto che a due anni dalla sua entrata in vigore mancano ancora alcune disposizioni applicative, alla tutela della proprietà intellettuale, che è materia di costante apprensione perché da essa dipendono le nostre denominazioni ed indicazioni geografiche ed i nostri marchi: la loro difesa e la loro salvaguardia restano cruciali per preservare il valore delle nostre eccellenze”.
E intanto, anche il mondo degli spiriti e gli aceti ha fatto il punto della situazione, mettendo l‘accento sulle soddisfazioni che giungono dall’export e le preoccupazioni per i rischi commerciali procurati da dazi e Brexit. “ È un momento di difficoltà”, ha osservato Micaela Pallini, presidente del Gruppo Spiriti di Federvini, soffermandosi sulla minaccia dazi da parte degli Usa, primo mercato di riferimento per l’export e con una continua crescita che sta premiando per esempio il momento dell’aperitivo, con lo spritz che è diventato “ un fenomeno di cui parlano i principali media”. E anche anche per quell’importante nicchia del made in Italy che è l’aceto balsamico di Modena l’affacciarsi dei dazi Usa “sarebbe terrificante”, ha osservato Sabrina Federzoni, presidente del Gruppo Aceti di Federvini, rilevando comunque come problemi commerciali ci siano anche in Europa dove “non c’è una protezione chiara ed efficace”, a cominciare dalla difesa dalla contraffazione.

Focus - Gli spirits italiani, tra mercato interno ed export
Nel comparto degli spirits, sui cui Federvini ha voluto porre l’accento, l’Italia è alla posizione n. 8 tra gli esportatori mondiali, con un valore dell’export di 970 milioni di euro nel 2018 ed una market share a livello mondiale di appena il 4%, ma in crescita su base decennale negli scambi internazionali, dove a dominare sono UK (6,7 miliardi di euro di export, principalmente scotch) e Francia (4,5 miliardi di euro, con un peso predominante del cognac). I liquori costituiscono la principale voce dell’export italiano di spirits: 405 milioni di euro nel 2018 ed un peso sul totale dell’export di settore del 42%. Grazie alla forte crescita dell’export nel corso dell’ultimo decennio (+4,5%), i liquori made in Italy sono riusciti a conquistare market share in numerosi mercati internazionali, primi fra tutti Usa, Uk e Francia.
Spostando l’analisi dagli scambi internazionali ai consumi nazionali, il mercato degli spirits in Italia è da anni in costante calo: -1,5% dal 2013 al 18 per 1,2 milioni di ettolitri consumati nel 2018. Aumenta però il valore soprattutto nel canale della Gdo: nei primi 4 mesi del 2019 si registra un incremento del 10% con performance notevoli per spumanti, gin e rum.
L’Osservatorio Wine&Spirits di Federvini, curato da Wine Monitor e Mediobaanca, ha anche analizzato la struttura economico/finanziaria dei produttori di spirits italiani: emerge un mercato abbastanza concentrato, votato all’export e con un buon equilibrio finanziario.
La concentrazione è in primo luogo geografica: Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto sono i produttori principali, con un indice di concentrazione settoriale elevato per spiriti (1.998) e liquori (2.749). Le aziende del comparto si segnalano anche per una crescita costante: la variazione media del fatturato tra il 2013 e il 2017 si è attestata su un +2,1% per gli spirits e un +2,6% per i liquori. Si tratta di aziende vocate all’esportazione con una media del 57% per gli spirits e addirittura un 62,4% per i liquori. La governance appare maggiormente collegiale con record di quote rosa nel settore dei distillati: 36% contro 23,1% del vino e 21,9% dei liquori.
Anche i margini - rapporto tra Ebit e fatturato - sono molto interessanti, addirittura superiori al vino: 15,4 gli spirits e 17,1 per i liquori contro il 9,3 dei vini. Il rendimento del capitale risulta remunerativo, specie se lo paragoniamo alla media europea del comparto (6,5%): 11,8 liquori e 12,4 spiriti. A riprova della solidità finanziaria, è opportuno citare il credit scoring: 87,2 per gli spirits, 83,3 per i liquori e oltre il 90% per i distillati. Rimane però da sciogliere il nodo degli investimenti, ancora bassi: 3,6% liquori e 3,9% distillati.
Intanto, però, cambia il consumo da parte degli italiani. Da un lato si registra un calo generalizzato dei consumi che è diventato un trend: il 23% dei consumatori ha dichiarato di aver ridotto negli ultimi 2-3 anni il consumo di amari/liquori dolci fuori casa (in ristoranti, winebar, altri locali), contro un 17% di chi ha riscontrato un aumento e un 60% di chi non ha notato cambiamenti. Il saldo si conferma negativo anche nell’ambito dei consumi fra le mura domestiche: hanno affermato di aver diminuito i consumi il 20% dei consumatori mentre è del 14% la quota di chi dichiara di aver aumentato le quantità bevute. Inoltre, il consumo è sempre più legato al cibo e alla convivialità: l’82% dei consumatori beve amari/liquori dolci principalmente dopo i pasti (89% tra i soli Baby Boomers), mentre solo una quota del 10% (che sale al 14% tra i Millennials) li consuma soprattutto all’aperitivo. Il weekend, indicato dal 67% dei consumatori (78% tra i Millennials) è il momento di consumo preferito. In merito alle motivazioni di acquisto, gli amari/liquori dolci da consumare in casa vengono scelti soprattutto in base alla marca (il 28% dei consumatori la indica come primo criterio di scelta) , mentre prezzo basso, origine e presenza di ingredienti specifici sono i primi driver di scelta solo per una quota minore di italiani (10%). Sulle modalità di consumo si predilige l’assunzione in purezza, non miscelata, senza ghiaccio (48%), a temperatura ambiente (31%), freddo con ghiaccio (21%). Quanto ai canali di consumo prevalente, non emergono differenze tra consumi domestici e fuori casa: il 51% dei consumatori italiani ha difatti bevuto amari/liquori dolci soprattutto tra le mura domestiche mentre il restante 49% away from home (il 32% al ristorante/pizzeria e il 17% in winebar). Questi ultimi spendono in media 4,5 euro per un bicchiere di amaro/liquore dolce ordinato fuori casa.

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