02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

Indagine sul settore vinicolo 2017 Mediobanca: 2016 positivo per il vino italiano, sia per merito delle esportazioni che della domanda interna. Tra le aziende, al top per redditività Frescobaldi, Santa Margherita, Antinori, Ruffino e Masi

Italia
Indagine sul settore vinicolo 2017 Mediobanca: 2016 positivo per il vino italiano, sia export che domanda interna

Le aziende enoiche più in forma del Belpaese, ossia quelle con la redditività maggiore, sono Frescobaldi (utile su fatturato al 22,5%), Santa Margherita (21,3%), Antinori (21%), Ruffino (16,7%) e Masi Agricola (9,3%): è uno dei dati più probanti tra quelli emersi dall’Indagine sul settore vinicolo 2017, a cura dell’Area Studi di Mediobanca (www.mbres.it), che ha monitorato 140 aziende italiane con un fatturato superiore ai 25 milioni di euro. Dall’analisi emerge che, nel 2016, il settore vinicolo italiano registra il segno positivo, con un +6% del fatturato sul 2015.
Un dato inferiore a quello dell’intera manifattura italiana (+9,3%), ma nettamente migliore di quello dell’industria alimentare (+2,9%). Inoltre, i ricavi sono cresciuti del 6% nel 2016, trainati non solo dal mercato estero (+6,6%), ma anche da una ripresa di quello domestico (+5,3%): per entrambi si tratta della migliore progressione dal 2012. In termini di fatturato, la crescita maggiore è ancora una volta delle bollicine (+13,6%), con la domanda interna (+14,1%) che supera quella oltre confine (+13%). Positivo, ma meno dinamico, il comparto dei fermi (+4,4% complessivo, +5,6% l’estero).

Nel 2015 la produzione mondiale enoica, secondo i dati Oiv, ha toccato i 274,4 milioni di ettolitri, in lieve aumento sul 2014 (+1,3%). La previsione per il 2016 è di 259,4 milioni di ettolitri, in marcata contrazione rispetto all’anno precedente (-5,5%). L’Italia è stata nel 2015 il primo produttore con una quota del 18,2% sul totale mondiale, riconquistando il primato perduto nel 2014 a favore della Francia (17,3% del totale). Le anticipazioni per il 2016 confermerebbero l’Italia nella posizione di primo produttore mondiale con 48,8 milioni di ettolitri contro i 41,9 milioni della Francia e i 37,8 della Spagna. Nello stesso anno, il valore della produzione italiana è valutato in 12,9 miliardi di euro. Le stime Istat per il 2015 indicano una quota di produzione di vini Doc e Docg pari al 39% del totale, in aumento del 15,8% sul 2014; ad essa si aggiungono i vini Igp con il 31,7%, +14,7% sul 2014 e, a saldo, i vini comuni che contano per il residuo 29,3%. Una quota consistente della produzione italiana è esportata, con un saldo attivo passato dai 760 milioni di euro nel 1990 a 5,1 miliardi nel 2015 (6,7 volte), anno in cui i volumi sono diminuiti dell’1,2% e il valore è aumentato del 5,4%; il prezzo medio all’export è quindi passato da 2,49 euro a 2,66 euro per litro (+6,7%). I dati provvisori dell’Istat relativi al 2016 riportano un progresso delle esportazioni a valori del 4,3% sul 2015 (+2,9% a quantità); il prezzo medio all’export cresce dell’1,4% a quota 2,7 euro al litro. Il saldo attivo provvisorio a dicembre 2016 è salito a 5,3 miliardi (+4,9% rispetto al 2015).
Il fatturato aggregato delle 140 società vinicole italiane esaminate è cresciuto nel 2015 del 5,1%, media dello sviluppo del fatturato estero (+6,9%) e di quello nazionale (+3,2%). Si tratta del secondo anno meno brillante dal 2011 ma in forte ripresa dopo il ristagno del 2014 (+0,3%). I pre-consuntivi del 2016 segnalano un’accelerazione della crescita: +6% le vendite totali, +5,3% in Italia, +6,6% oltre confine, soprattutto grazie al settore degli spumanti che avanza del 13,6%, con incrementi del 14,1% sul mercato domestico e del 13% sull’estero. Nel 2016 il fatturato dell’industria vinicola ha così esteso il proprio vantaggio sui livelli del 2011 (+27,3%), con un ampio margine per quello all’estero (+37,7%) e uno più contenuto per quello domestico (+17,6%). Tra il 2011 ed il 2016 l’export è cresciuto mediamente del 7,8% all’anno, le vendite interne del 3,7%.
Nel complesso, la crescita del fatturato vinicolo dal 2011 è risultata decisamente superiore a quella della manifattura (+11,7%). I consuntivi del 2015 hanno segnato un significativo incremento sull’anno precedente delle imprese in forte espansione, ovvero quelle con fatturato in crescita di oltre il 10% sul 2014 (dal 14,4% del 2014 al 34,8%) e la riduzione di quelle con flessioni del giro d’affari dal 41% al 21%, mentre la quota delle imprese con crescita intermedia, inferiore al 10%, resta sostanzialmente invariata (44,2% contro il 44,6% dell’anno precedente). Circa i preconsuntivi del 2016 e le aspettative per il 2017, vi sarebbe un nuovo assottigliamento delle due fasce estreme, quella che si attende una crescita oltre il 10% (dal 22,9% del 2016 al 17,3% del 2017) e quella che intravede una contrazione (dal 15,4% al 9,9%); nel 2017 si amplierebbe dal 61,7% al 72,8% l’incidenza delle attese positive ma inferiori al 10%. Il dato lascia intendere un atteggiamento positivo ma prudente nella formulazione delle previsioni, in un contesto che permane condizionato da grande incertezza e induce a un posizionamento nell’intervallo intermedio delle performance.
Le aspettative per il 2017 sono comunque da considerare con cautela, data la precocità della loro formulazione (mese di marzo). Merita infatti segnalare che il 2016 si è chiuso con pre-consuntivi leggermente differenti dalle aspettative manifestate ad inizio d’anno, pur confermando un quadro estremamente positivo: gli aumenti di fatturato sono stati pari all’84,6% rispetto al 91,9% prospettato nel marzo 2016, le riduzioni si sono attestate al 15,4% contro l’8,1% delle attese. Le proiezioni per il 2017 appaiono leggermente più ottimistiche ove riferite ai soli mercati esteri. In particolare, la possibilità di realizzare aumenti delle vendite “a due cifre” nel 2016 è presa in considerazione dal 24% degli intervistati (17,3% per il fatturato complessivo), mentre le attese ribassiste sono limitate al 7,7% delle aziende (9,9%).
Le aree mondiali di destinazione delle vendite vedono ancora la prevalenza dei mercati di prossimità (Paesi Ue) che hanno assorbito nel 2016 il 52,1% del fatturato estero, con un incremento a valori sul 2015 del 7,1% (quando pesavano il 51,8%). Il Nord America rappresenta la seconda area di riferimento, invariata al 34,2% del totale, in aumento a valori del 6,3%. Africa e Medio Oriente sommano l’8,4%, in progresso dell’1,9%, mentre i mercati asiatici e del Far East e il Centro-Sud America segnano incrementi di portata rilevante (rispettivamente +7,9% e +13,1%) pur restando ancora marginali (4% e 1,3% del totale).
I tre maggiori produttori per fatturato nel 2016 sono stati il gruppo Cantine Riunite-Giv (566 milioni di euro, +3,6% sul 2015), Caviro (304 milioni, +1,1%) e Antinori (218 milioni, +4,5% sul 2015). Seguono Zonin, che nel 2016 ha realizzato una crescita del 5,1% portandosi a 193 milioni di euro, e la cooperativa Cavit a 178 milioni di euro (+6,7%). Chiudono la lista dei primi 30 operatori La Vis, Mionetto, Banfi, Masi e Gancia. Sette società hanno realizzato nel 2016 un aumento dei ricavi superiore al 10%: La Marca (+33,9%), Santa Margherita (+32,9%), Vivo (+25,4%), Villa Sandi (+20,7%), Lunelli (+13,4%), Mionetto (+11,3%) e la Cantina Cooperativa di Soave (+10,3%). Altre variazioni degne di nota hanno interessato Enoitalia (+9,7%) e Fratelli Martini (+9% a 174 milioni). Alcune società hanno una quota di fatturato estero quasi totalitaria: Botter al 96,9%, Ruffino al 93,5%, F.lli Martini con l’89,7%, Zonin con l’85,8%, Masi Agricola (84,4%), Mondodelvino (84,1%) e la cooperativa Cavit (80,7%). Solo nove gruppi hanno una quota di export inferiore al 50% delle vendite. Anche per il 2016 le società toscane e venete sono in testa per redditività (utile sul fatturato) con Frescobaldi al 22,5%, Santa Margherita al 21,3% e Antinori al 21% seguite da Ruffino (16,7%), Masi (9,3%), Botter (8,8%) e Villa Sandi (8%).

Focus - L’assetto proprietario

Al controllo familiare è riconducibile il 55,9% del patrimonio netto complessivo dell’aggregato. Tale quota si ripartisce tra il controllo esercitato in modo diretto da persone fisiche (34,1%) e quello tramite persone giuridiche (21,8%). Ove si assimilino alla forma familiare le cooperative, le quali raccolgono 34.100 soci, si aggiunge un’ulteriore quota del 21,3% che porta il totale del patrimonio netto familiare al 77,2%. Il restante 22,8% dei mezzi propri è riferibile per il 13,5% a investitori finanziari (e altre tipologie residuali) e per il 9,3% a società straniere. In termini assoluti, alle famiglie in senso stretto sono riconducibili mezzi propri per 2,25 miliardi di euro (1,37 miliardi in capo a persone fisiche e 0,88 miliardi a persone giuridiche), alle coop per circa 0,86 miliardi di euro. I soci esteri detengono un portafoglio con valore di libro pari a 0,4 miliardi di euro. I principali soci finanziari sono così assortiti: banche ed assicurazioni con 369 milioni di euro, fondi con 31 milioni, fondazioni e trust con 67 milioni, fiduciarie con 9 milioni e i restanti 66 milioni rappresentano il flottante di Borsa delle due società quotate.
La suddivisione in quattro classi dimensionali in base al capitale investito evidenzia quanto segue:

- la quota di mezzi propri controllata da persone fisiche (comprese le coop) decresce con l’aumentare della dimensione dell’impresa e varia dal 73,7% della classe a maggiore capitale investito (oltre 50 milioni di euro) al 90,1% di quella di minore dimensione (meno di 15 milioni);
- nella classe dimensionale maggiore le famiglie hanno quote societarie il cui valore contabile (netto patrimoniale dei bilanci 2015) è di 1,6 miliardi di euro, indicativamente 14,5 milioni di euro a socio; il portafoglio familiare è pari a 379 milioni nella seconda classe (con un valore indicativo per socio attorno ai 4,3 milioni di euro) e a 157 e 105 milioni rispettivamente nella terza e nella quarta classe (valori per socio rispettivamente 2,5 e 0,3 milioni);
- i soci finanziari sono concentrati nelle due classi dimensionali maggiori; nella prima essi controllano il 14,2% dei mezzi propri (per un valore di 410 milioni), l’8,8% nella seconda (65 milioni), dopodichè sono quasi assenti; banche ed assicurazioni detengono i portafogli di maggiore consistenza (369 milioni), seguite da fondazioni e Trust (67 milioni);
- il portafoglio estero assume un valore importante nella prima classe (282 milioni) e nella seconda (79 milioni), ove si trovano rilevanti concentrazioni di possesso non italiano (il 9,8% dei mezzi propri nella prima e il 10,8% nella seconda).

Focus - Analisi per struttura societaria
Il dettaglio per forma societaria evidenzia talune differenze quanto a redditività e struttura finanziaria tra cooperative e altre società italiane. Si tratta della conseguenza del fatto che le cooperative mancano di buona parte delle fasi produttive a monte della filiera in quanto i soci conferiscono uve (cooperative di primo livello) e vino (cooperative di secondo livello) per la lavorazione e la vendita (ne è sintomo il fatto che nelle Spa e srl il capitale investito per addetto è del 27,6% superiore a quello delle cooperative). Poiché i mezzi propri si legano principalmente agli immobilizzi (terreni e cespiti produttivi), tipici delle fasi a monte della filiera vinicola, da un punto di vista patrimoniale le cooperative figurano meno patrimonializzate, con debiti finanziari pari al 126% dei mezzi propri contro il 51,4% delle altre società. Il maggiore ricorso al debito finanziario dipende anche da altri fattori: la possibilità di accedere a forme di finanziamento relativamente meno onerose, specifiche della forma giuridica, quali i prestiti sociali (il costo del debito delle cooperative è pari al 2,5% contro il 3,1% delle non cooperative) e il fatto che il capitale delle cooperative varia principalmente per effetto delle nuove adesioni e dei recessi, ma raramente per aumenti di capitale più difficilmente realizzabili in presenza di una base proprietaria polverizzata dai limiti statutari. Quanto alla redditività, essa risente del fatto che nelle cooperative la remunerazione dei soci avviene implicitamente attraverso i prezzi ad essi riconosciuti a fronte del conferimento di uve e prodotti. Vi si aggiunga che le cooperative operano su segmenti produttivi a basso invecchiamento ed orientati per lo più al mass market (capitale circolante su fatturato: 21,1% contro 34,1%), ove i margini risentono della prevalenza della Gdo tra i canali distributivi. Infine, le cooperative scontano una minore presenza all’estero ove hanno collocato nel 2015 il 44% del fatturato contro il 56,2% delle Spa e srl. Sotto questo profilo il 2015 ha segnato per le cooperative un anno di recupero dopo lo stallo segnato nel 2014: ne è conseguito un incremento del fatturato all’esportazione delle cooperative dal 42,5% delle vendite nel 2014 al 44% del 2015.
Il roi delle cooperative è poco più di un terzo di quello delle non cooperative (3,3% contro 8,3%), il roe è meno della metà (3,3% contro 7,9%). È soprattutto la capacità di estrarre margini dal valore aggiunto realizzato che marca una distanza strutturale tra i due modelli di produzione, con un rapporto tra Mon e valore aggiunto che nelle cooperative si ferma al 16% contro il 42,4% delle altre società. Quanto ai dati più recenti, le Spa e srl. prospettano un aumento delle vendite nel 2016 pari al 6,4% (+5,8% all’export), solo leggermente meglio delle cooperative che indicano un giro d’affari comunque in progressione del 5,9% rispetto al 2015 pur segnalando un incremento del 7,5% per la quota estera. Gli sbocchi commerciali, le cooperative mostrano una minore dipendenza dai mercati di prossimità (Ue), ove realizzano il 48,8% delle vendite estere contro il 54,5% delle non cooperative. Tale area ha seguìto nel 2016 dinamiche differenti: le Spa e srl vi hanno realizzato una crescita del 4,2% a fronte della consistente crescita delle cooperative (+11,6%). Il Nord America per le Spa e srl (30,5%) vale poco più della metà dell’area europea e fa registrare una progressione (+5,6%) che appare più accelerata per le cooperative (+7%) per le quali la quota di quell’area è più cospicua, pari al 39,1%. Importante la presenza nelle restanti aree geografiche, in particolare nell’Europa non Ue, in Africa e in Medio Oriente, mentre resta marginale quella in Centro e Sud America. Sempre per il 2016 sia le Spa e srl che le cooperative indicano un incremento degli investimenti (+16,8% le prime e +1,1% le seconde) con ripresa occupazionale (+1,6%) per le cooperative ed un lieve arretramento per le altre (-0,3%).

Focus - Analisi per tipologia di prodotto

Anche il confronto tra l’aggregato dei 31 produttori di spumanti e quello degli altri 109 produttori evidenzia taluni profili distintivi. Nel quinquennio il rendimento del capitale investito (roi) dei produttori di spumanti è stato sistematicamente uguale o inferiore, ma dal 2014 segna un vantaggio che nel 2015 raggiunge i 2,4 punti (8,8% contro 6,4%). Anche la redditività netta (roe) degli spumanti ha seguìto un sentiero peggiore ma dal 2013 essa è salita al di sopra di quella degli altri vini (9,4% contro 6% nel 2015). I produttori di spumanti fanno minor ricorso al debito finanziario, segnando un rapporto debt/equity inferiore di quasi 16 punti rispetto agli altri vini (54,5% contro 70,2%). D’altra parte, essi mostrano una minore proiezione internazionale, con una quota di export pari al 44% contro il 53,8%, ma la crescente penetrazione dei mercati extradomestici ne ha rappresentato nel quinquennio un tratto distintivo in particolar modo dopo il 2013: le vendite all’estero degli sparkling wines italiani sono passate dal 36,2% del 2011 al 44% del 2015 con una crescita pari al 49,5% in termini assoluti e al 21,4% in termini relativi. Si tratta di una dinamica che non trova riscontro nei produttori di vini non spumanti che hanno segnato progressi rispettivamente del 25,9% e del 5,5%. Vi è poi da richiamare che il valore aggiunto netto per addetto dei produttori di spumanti è stato nel 2015 pari a oltre 98mila euro, il 25,6% al disopra di quello degli altri produttori (79.000 euro), a fronte di un costo del lavoro (52.000 euro) superiore del 9,5%. Conseguentemente il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) è più vantaggioso per gli spumanti (52,5%) che non per le altre società (60,1%).
Anche il 2016 è stato relativamente più favorevole ai vini spumanti, i cui produttori hanno dichiarato una crescita delle vendite pari al 13,6% grazie sia all’apporto dell’export (+13%) che alla crescita interna (+14,1%); meno entusiasmanti i risultati anticipati dai produttori di altri vini, che hanno raggiunto una crescita delle vendite del 4,4%, anch’essi con export in aumento (+5,6%). I dati sulle vendite del 2016 sono coerenti con investimenti ed occupazione in crescita per gli altri vini (rispettivamente +10,7% e +0,2%), con tendenza incostante per gli spumanti (-9,5% la spesa, +2,3% l’occupazione). La minore proiezione internazionale dei produttori di spumanti si abbina ad una maggiore concentrazione sui mercati di prossimità. (la UE pesa nel 2016 il 55,6%) che hanno però offerto tassi di crescita più elevati (+8,7%) di quelli realizzati dai produttori di altri vini (il mercato Ue vale per loro il 51,3% del totale, con un tasso di crescita nel 2016 del 6,7%); inoltre il 2016 evidenzia un notevole sviluppo (+21,9%) nell’area del Nord America dove si realizza il 29,6% dell’export di bollicine. Anche il 2017 si preannuncia più soddisfacente per gli spumanti: solo il 5% si attende un regresso delle vendite, contro l’11% circa degli altri produttori.

Focus - Il settore vinicolo a raffronto con quello delle bevande e l’alimentare
Nel 2015 la performance delle società vinicole è stata meno soddisfacente di quella delle società appartenenti al settore delle bevande e all’alimentare nel suo insieme. Quanto ai margini industriali, il ritardo appare marcato rispetto alle bevande (Mon al 33,3% del valore aggiunto contro 40,1%), mentre vi è un lieve vantaggio rispetto all’alimentare (32,3%). Si tratta comunque di una performance decisamente superiore a quella della manifattura nel suo insieme (22,1% nel 2015). La differenza di margini, unitamente al minore apporto dei proventi finanziari, giustifica lo scarto relativo al rendimento del capitale (roi) che per il vino si colloca al 6,7% su valori ampiamente inferiori di quello delle bevande (8,8%), dell’alimentare (8,2%) e anche della manifattura (7,9%), beneficiata dalla gestione finanziaria (9% del valore aggiunto) e da un migliore turnover del capitale investito (24,8% l’incidenza del valore aggiunto). È evidente anche il distacco in termini di roe, ove le bevande (10%) e l’alimentare (10,7%) si collocano su valori più elevati rispetto ai produttori di vino (6,6%).

Focus - Approfondimenti su base geografica
Le 140 società di questa indagine hanno una dislocazione sul territorio italiano che porta ad una certa concentrazione in talune regioni. Con i caveat dovuti all’ubicazione pluriregionale, è possibile elaborare subaggregati sui quali calcolare indicatori economico-patrimoniali significativi. In alcune regioni la performance economica è relativamente più brillante rispetto alla media nazionale: è il caso della Toscana, le cui aziende segnano margini industriali molto elevati (45,7% il Mon sul valore aggiunto), tali da consentire una cospicua redditività del capitale (roi all’8,7%, contro il 6,7% dell’aggregato generale), pur in presenza di un turnover relativamente basso (18%) attribuibile alla natura fortemente integrata lungo tutta la filiera (raccolta/vinificazione/invecchiamento). Nonostante quest’ultimo aspetto, la patrimonializzazione è adeguata e i debiti finanziari rappresentano il 28,1% del capitale investito (contro il 40,4% dell’aggregato). Le aziende toscane segnano anche una forte proiezione internazionale, con export al 65,3% sopra il dato medio del 52%. Anche il rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto netto (Clup) è particolarmente favorevole (44,7%). Il migliore roi regionale è tuttavia quello delle imprese venete (9,2%), favorite dall’elevato tasso di rotazione del capitale investito (23,7%). Veneto, Toscana e Trentino coprono posizioni di vertice in termini di roe, pari rispettivamente al 9,9%, al 7,9% e al 7,8%. Ha chiuso in perdita il Friuli, la regione con il costo del lavoro per addetto più elevato, e quasi in pareggio la Sicilia. Sono relativamente meno soddisfacenti le performance dell’Emilia-Romagna, ove prevale il modello cooperativo che porta, come già visto, ad una maggiore incidenza del debito finanziario (55,8% le coop, 34% le non coop) e a margini industriali più modesti (Mon su valore aggiunto al 16% per le coop, 42,4% le non coop). Non particolarmente brillante, infine, il profilo della Lombardia con redditività modesta (roi al 5%, roe al 5,3%) e bassa propensione all’export (13,9%).

Focus - Approfondimenti su offerta e struttura commerciale
Tra il 1996 e il 2017 vi è stato un aumento di quasi 4.400 etichette (+140,8%) ed il loro numero medio per azienda è pari a circa 141; il 10,3% dello stock di etichette riguarda vini comuni (erano il 13,8% del totale nel 1996), mentre la ricomposizione più importante ha toccato la fascia alta della produzione (grandi vini, Docg e Doc) la cui incidenza è passata dal 45,4% del 1996 al 54,3% del 2017. Tali variazioni confermano la tendenza a privilegiare la crescita qualitativa in presenza di un mercato fortemente influenzato dalla grande distribuzione. Il fenomeno è particolarmente evidente per le cooperative la cui produzione più qualificata (grandi vini, Docg e Doc) è salita dal 41,3% del 1996 al 54,6% del 2017 (pressoché stabile tra il 52% e il 53% per le non cooperative). Venendo ai canali di distribuzione, nel 2016 il 39,2% delle vendite nazionali delle principali società vinicole è transitato per la grande distribuzione. Si tratta della media tra il 49,4% delle cooperative e il 32% delle restanti società. Il secondo canale per importanza è il grossista/intermediario (16,3%) seguito dall’aggregato horeca (Hotel-Restaurant-Catering), anch’esso con incidenze differenti per cooperative (7,4%) ed altre società (20,3%); enoteche e wine bar coprono il 7,3% (con le cooperative al 2,8%), mentre la vendita diretta incide per poco più del 13%, un punto in più rispetto all’anno precedente. Nell’ambito dei grandi vini, la quota più elevata è ascrivibile al canale Ho.Re.Ca. (37,4%), cui seguono enoteche e wine bar al 27,4%; la vendita diretta sale qui al 16% con la grande distribuzione a quota 3,5%. Relativamente alle esportazioni, prevalgono le vendite tramite intermediari importatori (otto decimi del totale), mentre il controllo della rete di proprietà permane limitato all’8,2%.

Focus - Profilo economico-patrimoniali dei maggiori produttori
Lo studio riporta una misurazione di sintesi che dà conto, attraverso una metrica coerente, dei profili reddituali, patrimoniali e di efficienza esaminati mediante una batteria di undici indicatori rilevati nel 2015. Si tratta di un punteggio noto come z-score il quale, riducendo i diversi indicatori ad una misura omogenea che ne neutralizza la differente scala numerica, consente la loro somma (equiponderata) e la successiva normalizzazione. Ne è derivato un punteggio che assume valori pari o prossimi ad uno per le aziende più “virtuose” e tendenti a zero per quelle che manifestano le maggiori tensioni. Le cinque aziende meglio posizionate sono risultate, in ordine decrescente: Botter, Ruffino, Contri, Mionetto e Villa Sandi; la graduatoria è chiusa, sempre in ordine decrescente, da Mezzacorona, Gancia e La Vis.

Focus - I margini e la struttura finanziaria (2011-2015)
L’aggregato delle 140 società vinicole ha visto il roi passare dal 6,4% del 2014 al 6,7% del 2015, un valore decisamente più soddisfacente del 5% del 2011. Il roe è cresciuto al 6,6% nel 2015 dal 5,9% del 2014, dopo il 2,7% del 2013 e il 3,4% del biennio 2012-2011. Esso ha beneficiato dell’espansione degli utili netti nel 2015 (+19,4%), agevolata dalla contrazione delle imposte (-3,7%) rispetto al 2014. Nel complesso, quindi, la redditività operativa appare in miglioramento nel quinquennio; quella netta segna nel 2014 una decisa ripresa (5,9% il roe), con inversione del trend calante tra 2011 e 2013. Anche depurando i dati delle imprese che hanno originato le maggiori partite straordinarie la sequenza del roe appare crescente nel periodo: 3,5% e 3,6% (2011 e 2012); 4,5% (2013); 6,1% (2014) e 6,7% (2015). Permane ridotta la percentuale di società in perdita (14%). La struttura finanziaria è complessivamente solida con debiti finanziari che nel 2015 rappresentano il 67,8% dei mezzi propri (minimo del quinquennio). Qui il rafforzamento patrimoniale si è dispiegato in modo continuativo tra 2011 (76,5% il rapporto), 2013 (73,8%) e 2014 (71,9%), interrompendosi solo nel 2012. Positiva anche la dinamica degli organici, in crescita del 5,1% sul 2011 e del 3,1% sul 2014. Nel periodo la produttività del lavoro (valore aggiunto netto per addetto) è cresciuta del 21,7%, più del costo del lavoro unitario (+9,5%); anche nel 2015 la prima è cresciuta del 3,2%, il secondo dell’1,4%. Gli investimenti segnano una nuova ripresa (+9,8%) dopo la contrazione del 7,1% nel 2014 succeduto al +9,6% del 2013 (calcolato escludendo l’effetto dell’anomalo progresso nel 2012, +39,8%, dovuto all’importante impegno di un primario operatore che ha realizzato un nuovo sito produttivo), tornando sopra ai livelli del 2011.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024