La Cina è sempre più al centro dei pensieri e delle strategie dell’imprenditoria enoica del Belpaese, e, se la speranza, ben riposta, è quella di continuare a crescere con costanza nei prossimi anni, di certo non mancano i punti di vista critici, capaci di mettere in primo piano le contraddizioni di un mercato tanto fondamentale ed affascinante, quanto difficile. Uno di questi è Franco Giaquinta, direttore Confagricoltura Asti che, a pochi giorni dal Vinitaly più “China oriented” che si ricordi, lancia un grido di allarme ed una provocazione: “la Cina non è vicina al business del vino italiano e la Ferrari, da sola, non basta, nonostante le recenti vittorie sportive, a imporre la leadership del “made in Italy” nel Paese della Grande Muraglia. Lì, infatti, si stanno sviluppando marchingegni commerciali che rischiano di affossare l’enologia italiana”. I fatti, secondo i rumors raccolti da Giaquinta, parlano di “buyer con gli occhi a mandorla che stanno chiedendo alle cantine italiane vini a 1,20 euro a bottiglia. Un prezzo insostenibile per i produttori italiani e piemontesi in particolare che, qualora accettassero le proposte, si vedrebbero costretti a lavorare in perdita”.
Eppure, i numeri citati dal direttore Giaquinta, che parla di accise al 250% per l’imbottigliato contro l’80% per lo sfuso, suonano sovradimensionati, anche se “utili - spiega il direttore di Confagricoltura Asti a WineNews - a spostare l’attenzione su quelle migliaia di viticoltori che producono vini di fascia medio - bassa di cui a volte le istituzioni dimenticano le problematiche”. Eppure, in un mercato in cui le importazioni dei prodotti agroalimentari italiani sono cresciute del 56% nel mese di febbraio sul 2012 (secondo le elaborazioni Coldiretti su dati Istat), le cose sono ben più limpide, e a spiegare il motivo ci pensa Ottavio Cagiano, direttore generale di Federvini.
“Le cose non stanno esattamente così: i dazi sono proporzionali al valore delle merci esportate, per questo paragonare semplicemente lo sfuso all’imbottigliato non è esaustivo, anche perché, nello specifico, l’Asti spumante può essere esportato solo in bottiglia, e comunque i dazi sono molto inferiori, ad esempio a quelli pagati da un rosso di Bordeaux”.
Focus - L’agroalimentare italiano ed il boom in Cina ... nei dati Coldiretti
In controtendenza rispetto all’andamento generale, crescono del 2% le esportazioni agroalimentari con un balzo del 56% in Cina. È quanto emerge da un’analisi della Coldiretti, sui dati Istat del commercio estero, sul mese di febbraio, che confermano la strategicità del buon cibo italiano nel trainare la ripresa economica. Si tratta di un trend positivo che conferma l’andamento dello scorso anno con il record di 31,8 miliardi di euro di fatturato all’estero, fatto registrare dall’agroalimentare nazionale. Il vino è il prodotto agroalimentare più esportato, con un valore record di 4,7 miliardi di euro nel 2012 seguito dall’ortofrutta fresca, dalla pasta e dall’olio di oliva che sono i componenti base della dieta mediterranea riconosciuta in tutto il mondo per le sue qualità salutistiche.
Ma il successo del cibo italiano è dovuto anche al fatto che è diventato sinonimo di qualità con la conquista del primato in Europa e nel mondo della sicurezza alimentare per il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite (0,3%) che sono risultati peraltro inferiori di cinque volte a quelli della media europea (1,5% di irregolarità) e addirittura di 26 volte a quelli extracomunitari (7,9% di irregolarità), secondo una elaborazione della Coldiretti sulle analisi condotte dall’Efsa - Agenzia europea per la sicurezza alimentare, su oltre 77.000 campioni di 582 alimentari differenti ed appena pubblicate nel Rapporto annuale sui residui di pesticidi negli alimenti. Secondo i dati contenuti nel Rapporto il 98,4% dei campioni europei esaminati presenta residui entro i limiti, con la percentuale che sale addirittura al 99,7% nel caso dell’Italia che conquista il primato e scende al 92,1% per la media dei Paesi extracomunitari. Il successo del cibo italiano all’estero è la dimostrazione che nel grande mare della globalizzazione l’Italia si salva solo ancorandosi a quei prodotti, quei manufatti, quelle modalità di produzione che sono espressione diretta dell’identità nazionale, dei suoi territori, delle sue risorse umane.
L’andamento sui mercati internazionali potrebbe ulteriormente migliorare da una più efficace tutela nei confronti della “agropirateria” internazionale che utilizza impropriamente parole, colori, località, immagini, denominazioni e ricette che si richiamano all’Italia per prodotti taroccati che non hanno nulla a che fare con la realtà nazionale. All’estero il falso made in Italy a tavola fattura 60 miliardi di euro e sono falsi due prodotti alimentari di tipo italiano su tre.
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