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La Repubblica

Il mio mondovino da bere con il cuore ... Vino, vin, wine, wein. Una parola breve, suona universale come sport. La conoscono anche i cinesi, l´ultimo mercato da conquistare, già invaso da un sacco di robaccia ma anche da bottiglie decenti. Non fa parte della loro tradizione? Impareranno. Neanche le Ferrari fanno parte della loro tradizione. Da qualche parte dovrà pur finire il vino che si continua a produrre, anche se i consumi sono in calo e i magazzini sono pieni, dal Piemonte al Medoc. Ci sono due film sul vino in circolazione, uno con parecchie nomination all´Oscar. Sideways solo in apparenza è un film sul vino (la storia reggerebbe anche se i due compari fossero filatelici). È un road-movie dolceamaro con molto vino dentro, questo non si può negare. Ed è bella la scena in cui Miles racconta se stesso attraverso il Pinot nero. Odia il Merlot che considera facile, piacione, probabilmente non ha mai bevuto un Masseto, o il Merlot di Miani, di Radikon, ma in Sideways i vini sono tutti americani, tranne un prestigioso Cheval blanc ´61 che Miles beve da solo e di nascosto in un fast-food, versandolo in un bicchiere inadeguato. Scena straziante, il buon bevitore non beve mai da solo e, già che ci siamo, il buon bevitore non è quello che beve tanto ma quello che capisce cosa beve, che sa stabilire un rapporto col vino. Se non ci riesce, beva pure CocaCola.
La cultura del vino sta crescendo: libri, riviste specializzate, guide, canali tematici, degustazioni guidate da esperti, vecchie e nuove osterie, wine bar sul modello anglosassone, bistrots à vin, la moda dell´happy hour che solo a chiamarla come suona, eppiaur, s´ammoscerebbe. In sostanza, bevi due e paghi uno, e intanto sostituisci la cena con tanti piattini di pizza, focaccia, olive, salumi, formaggi, noccioline, che spero siano di buona qualità, ma non sempre lo sono. Non mi pare il massimo della vita ma capisco che quando si è giovani e magari con pochi euro in tasca bisogna anche arrangiarsi. Con l´eppiaur mi hanno beccato una volta a Roma, e una basta. Che ci faccio io qui? Appunto.


Il primo bicchiere

Se l´uomo è ciò che mangia (lo stracitato Fuerbach) è anche ciò che beve (G. Mura). Il mio primo bere era bere con gli occhi. Non le piscine, come scriveva dal Tour Mario Fossati, ma quelli che bevevano. I vecchi, che poi quasi tutti erano vecchi agli occhi di un bambino. Quelli che bevevano giocando a bocce. Quelli che bevevano giocando a carte. I loro gesti lenti, nel bere. Chi beve in fretta, chi beve d´un fiato è un poveraccio, un coglione che ha visto troppi film in cui si trangugia il whisky o la vodka, tutte robe industriali a cui non importa nulla del caldo, del freddo, della pioggia, della grandine. Il vino è una cosa più nobile, il vino ha un´anima che riassume la vigna e il vignaiolo. Meglio: il cielo, la terra e l´uomo. Diceva Veronelli che il vino è il canto d´amore della terra verso il cielo. Pure, presto arriverà un Sirchia o un Porchia e ordinerà di scrivere «L´alcol uccide» sulle bottiglie di vino. Il governo francese l´aveva già fatto, manifesti con su scritto «L´alcol tue lentement» e sotto qualcuno aveva aggiunto col pennarello «On s´en fout, on n´est pas pressés». Questa me l´ha raccontata Enzo Biagi, mentre la scritta su un muro di Tolmezzo "Meno Internet, più Cabernet" l´ho vista coi miei occhi.
Ma l´alcol, poi, uccide soprattutto chi non lo conosce, come il mare. Chi lo conosce lo ama, chi lo ama lo rispetta, chi lo rispetta non gli chiede quello che non può dare. L´ubriacone sta al buon bevitore come lo stupratore sta all´amore. I giovani hanno fretta, saltano le caselle intermedie. Fanno più male le bevande alla frutta addizionate di liquore, fanno più male i cocktail di un bicchiere di vino. La fretta è sempre cattiva consigliera. Se i giovani rallentano, è bello vederli rallentare. In una delle mie osterie (possono anche essere trattorie o ristoranti, conta l´atmosfera e conta che poi balli la carta, o si possa far tardi senza paura) c´era un tavolo con quattro ragazzi assorti davanti a una bottiglia di Gaja. «Hanno risparmiato per potersela permettere. E tanto alla fine gliela offro io», ha detto l´oste Angelo. L´oste Luigi procede per sottrazione. Ha un fiuto infallibile coi clienti, se non gli sono simpatici e chiedono una bottiglia che gli è cara (il Barolo di Bartolo Mascarello per esempio) lui si scusa e dice che purtroppo l´ultima è stata bevuta il giorno prima e che sta aspettando i nuovi arrivi. Invece ne ha, «ma non possono capire quel Barolo, non lo meritano».
Ho conosciuto Gianni Brera nel 1965, Luigi Veronelli nel 1972. Mi hanno insegnato molto sul bere, e non solo. Brera era più cinghialesco e campanilista, solo il Barbaresco e i vini dell´Oltrepò erano graditi. Veronelli più lirico e anarchico, non divideva i vini tra buoni e cattivi ma tra quelli che danno gioia oppure no. È stato il primo a scrivere di Picolit, di Sassicaia (nel ´64), a perlustrare le vigne d´Yquem, a parlare di cru. Un piccolo vino può dare gioia: un Muscadet dopo una tappa calda e polverosa del Tour, ma anche un rosso e profumato Gamay, purché fresco. Un grande vino può dare una piccola gioia, una lucina flebile: mi è capitato con Romanée Conti (a Miles sarebbe piaciuto, è il massimo del Pinot nero), con Krug, con Pétrus e altri bordolesi. Molto dipende dalle aspettative. C´è chi beve solo griffes. Con quello che costano, certe bottiglie sono diventate status symbol. Di recente ho visto bere Ornellaia sugli scampi bolliti. Erano russi, probabilmente mafiosi (a giudicare dall´abbigliamento stile Padrino e dai catenoni d´oro), sicuramente ricchi. Il sommelier non ha fatto una piega. Sono tornato a molti anni indietro, a quando avevo chiesto un rosso leggero su una zuppa di pesce, a Ischia. Il cameriere mi aveva affettato e calpestato con uno sguardo da cefalo imbufalito. E poi: guardi che sul pesce noi beviamo il bianco. Se l´era cercata: e allora bevetevelo voi.
Ho fatto un giretto su Google: vino ha 4.610.000 citazioni, Dio 4.620.000. Già che c´ero ho cliccato amore (10.200.000), morte (8.650.000), sesso (11.900.000). E poi Barolo (723.000). Champagne (255.000), Chianti (239.000). E poi pace (15.500.000) e guerra (19.100.000) e poi ho smesso perché mi sono ricordato del mio primo bicchiere di vino. Con quattro anni di anticipo su Veronelli, lui rosso il giorno della prima Comunione, io bianco, ma andavo all´asilo. Un gutéin al fiuléin, disse Ida Isolani (che Dio l´abbia in gloria) il giorno di Natale del 1949. Ma è un bambino, protestò mia madre. Santa Maria della Versa, il mio Far West. Intanto il vino era sceso, schiumoso, e io ficcavo il naso nel bicchiere per catturare quel profumo dolce e così diverso dagli altri dolci (panettone, ciambella, caramelle, budino). Il dolce, prima, per me era solo un sapore, non un profumo. Poi in quella miniera di dolce aggiunsero un´abbondante dose d´acqua. Così non gli fa male, stia tranquilla. Infatti mi fece benissimo. Mi insegnò che bisogna fare un gradino alla volta.
Il vino non serve per dimenticare, ci vuol altro. Il vino serve a ricordare che ci accompagna da millenni, e se proprio facesse così male Gesù alle nozze di Cana non avrebbe cambiato l´acqua in vino. So che è sempre più sviluppato il turismo del vino e mi fa piacere. Si vedono tanti bei posti, in genere dove c´è vigna c´è una natura non stravolta e chi fa vino è una bella persona. Poi ci sono cantine da fantascienza e piccoli produttori come Flavio Roddolo. Quando intuisce che il vino nella botte ha freddo, avvicina due stufette elettriche. Fa tutto (e bene) da solo, chiama qualcuno solo per la raccolta delle uve. Vorrei saper descrivere i vigneti a picco in Val d´Aosta, in Valtellina, in Alto Adige, nelle Cinque Terre, a Ischia, perché si capisse quanta fatica ancora costi, e quanto attaccamento alla terra ci voglia, per fare vino in condizioni estreme.


Letteratura e bottiglie

Questo vino che c´inzuppa da piccoli e grandi schermi, edicole, librerie secondo me porta a qualche degenerazione, oppure sono sfortunato io che non vado più al cinema. Se c´è qualcuno che parla al telefonino e mangia popcorn, è sempre nel raggio di due metri. Se vado al ristorante o in osteria, al tavolo vicino parlano di Guyot speronato, di marne mioceniche, di degustazione orizzontali, verticali, cieche, di soggiorno del mosto sulla feccia, che dibattono a lungo sulla presenza o meno d´un 5 per cento di Syrah. Per me, gli uomini conoscono i vini come i cani gli uomini, annusandoli. E poi assaggiandoli. Il vino entra in noi perché lo beviamo, ma siamo noi a dover entrare in lui per capirlo, per dargli un volto o una musica. Una Bonarda o una Freisa mossa sono la fisarmonica sull´aia, un Amarone un canto gregoriano da riempire il duomo di Colonia. Si può fare anche con la letteratura: un Chianti giovane ha l´aggressiva ironia di Cecco Angiolieri, un Gragnano la cantabilità di Alfonso Gatto, un Barolo vecchio stile è Alfieri, o Berchet. Fenoglio è Dolcetto di Dogliani. E ancora: c´è il vino-Beatrice e il vino puttanone, il vino che sorride e il vino che graffia, il vino avaro e quello generoso.
Per questo non rispondo mai alla domanda: qual è il tuo vino preferito? Non c´è, o sono tantissimi, dipende dagli stati d´animo, dai luoghi, dalla compagnia. In questo il vino è come una musica, è una musica. Non bevo per sete (per quella c´è l´acqua) né per vizio, ma per piacere. Confesso che ho bevuto. Tanto e a tutti i livelli. Giunto abbastanza felicemente alla soglia dei 60 ho deciso di fare tabula rasa, di non unirmi al crocchio degli analisti, dei sotutto, dei periti autoptici. Al piacere della conoscenza anteporrò la conoscenza del piacere. E quindi: sarò più d´istinto che distinto, più libero che libro, più folto che colto, più impregnato che impegnato, più bocca che bacca, più carnale che canale, più fanale che banale, più sostanza che costanza, più tralcio che stralcio, più palato che pelato, più uomo che duomo, più acino che acido, più mite che mito, più passito che passato, più storia che scoria, più riso che roso, più naso che raso, più caldo che saldo, più carezza che cavezza, più rose che pose, più gola che gala, più festa che testa. Detto in poche parole, naturalmente.

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